
APPUNTI PROCESSUALI SULLA FRATERNITA’ / SORORITA’
Ho il cuore colmo di tenerezza contemplando il gioire e il patire nei volti dei bambini seduti al tavolo di un pub, in mezzo alle sagome sporgenti dei loro genitori. Li osservo e penso che io non sono stato mai un padre e mi chiedo se ne sarei mai stato capace. Non so se ho ispirato qualcuno ma essere padre non è ispirare, non è essere il modello o il riferimento ideale di qualcun altro. La voce dei bambini scorrazza lungo il tavolo tra pizze e Coca Cola. Scorgo il sorriso sincero di un padre. Io non so se arriverei mai a tale sincerità. Poi si fa largo un pensiero tra la voce squillante di Davide Bowie che canta un grande classico, Heroes. Sono i figli che ti fanno padre. Che ti piegano, ti stirano, ti trasformano. Ti cuciono addosso questo nuovo habitus: il padre. Vale la stessa cosa per un marito o una moglie, un fratello o una sorella, un amico o un’amica? Sempre l’altro ti restituisce chi sei e nel subirlo e sintonizzarti con esso ti abilita ad una sincera reciprocità.
Un bambino urla ad un altro lanciandogli un tovagliolo, scoppia a piangere, poi si calma e torna a giocare. Quanta sapienza. Dei bambini apprendo gli sbalzi di umore che durano un penny.
“Il problema della fraternità deriva dalla povertà spirituale”. Un’affermazione che sento echeggiare sovente e che mi appare troppo facile. Sposta su un piano intimo e soggettivo una responsabilità relazione e inter-corporea.
Appare inoltre più un giudizio sugli altri che verso un ‘noi’ implicante e sfidante ciascun ‘io’.
Si potrebbe affermare anche l’esatto opposto? “La povertà spirituale è determinata da una carenza di fraternità vissuta”. Se la spiritualità è divenire profondamente un essere relazionale, attraversato dall’Altro e dagli altri, allora anche questa affermazione sembra porre una questione seria.
Pretendere che la fraternità / sororità sia quella condizione di bene raggiunto quando tutti i soggetti siano spiritualmente maturi appare un tranello più che una prospettiva. Vedere la fraternità come quel crogiolo sempre in divenire dove forgiare la propria fragile spiritualità è una diversa via. Non come semplice atto e responsabilità individuale. E nemmeno cercando in modo magico una soluzione nel pregare e nel condividere di più la Parola di Dio assieme. Non dico che sia sbagliato ma che dipende da come ci si dispone a questi momenti comuni: se sono visti di per sé come una soluzione allora si è nel pensiero magico. Cercherò di esprime meglio in seguito questo pensiero.
Prima la filiazione
Una fraternità senza padre non è una fraternità possibile. È interessante come lo scrittore George Orwell non abbia parlato di Grande Padre ma di Grande Fratello nel suo romanzo ‘1984’: una figura simbolica che non è dato sapere se esista o meno, ma che rappresenta una presenza costante di controllo totalitario, o come dichiarò uno dei personaggi della storia: “Ha la funzione di agire da catalizzatore dell’amore, della paura e della venerazione, tutti sentimenti che è più facile provare per una singola persona che per una organizzazione”. È il totalitarismo del doppio. L’assenza di un terzo.
Il rischio di oggi è di sostituire la paternità con la fraternità. L’assenza del padre, figura dalla quale si è chiamati a separarci, non permette ai soggetti di individuarsi (A. Wénin).
Il padre è il terzo… la fraternità da sola resta nel ‘due’, polarizza, massifica escludendo.
Vivere la fraternità/sororità come un Grande Fratello o una Grande Sorella genera una patina ideologica che ricerca rimedi magici e non umanizzanti.
Questo però pone di nuovo la questione: se la partecipazione all’amore di Dio è la premessa, allora vale il primato della spiritualità personale. Ma come posso amare il Padre che non vedo se non amo i fratelli che vedo, tocco, frequento?
È evidente che siamo nel mezzo di una tensione. Di una di quelle tensioni generative, in cui i due estremi sono entrambi validi e non contraddittori. Si tratta di abitarla questa tensione senza cadere ideologicamente – o magicamente – nello sbilanciamento totalizzante su di uno dei due poli.
Una risoluzione escatologica
Nella genesi tutto inizia con Caino e il fallimento della fraternità. La fraternità diviene un progetto etico, escatologico, non più un semplice dato della natura. Non si nasce fratelli, lo si diventa. Uscire dal nostro involucro egoico chiede un’autorità, una legge paterna, un taglio / circoncisione.
Il fratello / sorella non basta. Può alimentare i miei fantasmi, divenire sfogo proiettivo delle mie fragilità oppure soggetto da cui proteggermi e tenermi distante. Non sentirmi figlio, non sentirmi amato e amabile, proietterà sull’altro la mia trave interiore facendomi soffermare sulla sua pagliuzza.
Il sentirmi mancante, l’accedere al mio vuoto ombelicale, può infatti divenire origine di una ricerca matura e realistica dell’altro/a oppure una ricerca spasmodica di copertura di quel vuoto a danno degli altri, anche se camuffato da belle parole e buone intenzioni.
Un soggetto usa le risorse che ha a disposizione in un dato momento sia per fare il bene sia per fare quel male che non vorrebbe. Come Caino usa le risorse di cui dispone e persegue quell’unica via che in quel momento è in grado di vedere per colmare il vuoto che gli si è incuneato dentro le viscere.
Uccide l’altro uccidendo se stesso. Uccide l’altro perché non si sente ‘a posto’, non si sente ‘abbastanza’. Non si sente amabile abbastanza. Qui scatta la violenza fratricida.
La misericordia non è un semplice sentimento come ci ricorda Lc 6, 36-38. Nasce anche dalla riflessione, dalla ragione, dal misurare. Riconoscere che l’altro fa ciò che è in grado di fare dentro i suoi limiti. Che l’altro dispone delle risorse che ha. Non giustifico il male ma posso riconoscere misericordia all’altro malgrado tutto. La misericordia consiste in una pratica di consapevolezza. È una volontà mossa non solo da un sentire ma anche da un sapere. Da un ampliamento di consapevolezza.
Siamo generati per essere fratelli e sorelle? Umanamente facciamo ciò che possiamo. Lottando con la nostra ombra interiore. E la presenza di uomini e donne che fanno una scelta di consacrazione per vivere questa condizione in modo non naturale – ma spirituale! – mostra una via escatologica a cui l’essere è chiamato per riconciliarsi a sé al Padre agli altri. Per questo vale la pena una consacrazione, per testimoniare ciò che naturalmente non è facile vivere. È per questo che vale la pena dare la vita in risposta a quella irrazionale – ma logica – chiamata di amore.
Vie di fraternità / sororità: abitare la tensione e l’incompletezza
La Parola agisce se ci sono le condizioni. Come del resto sappiamo che la Grazia presuppone l’umano e non può agire indipendentemente da esso… perché lo ama. Non indipendentemente dalla nostra partecipazione. Non ci rende oggetti ma soggetti di una relazione. Non ci strumentalizza come del resto non dobbiamo farlo con Lei. Dispone uno spazio terzo. Un luogo simbolico in cui sperimentare un agone, dove fare simbolicamente la lotta con l’altro da me, con il mio fratello / sorella, per poterne uscire con una benedizione. È il luogo dove torna a noi un ‘io’ che è ‘non-io’, in quanto è transitato nell’altro e purificato mediante il Padre. Un’aggiunta. È il Regno in mezzo a noi.
La Parola è quel luogo dove affermare noi stessi non a noi ma come un dirsi in Dio, mediante un altro che genera. “Così pure questo amore di sé, che risulta in noi dal dirci noi stessi e che ci blocca in noi, questo amore in Dio si espande in un altro, esalato come soffio vivente” (M. Zundel).
Non basta l’amore, serve una legge. Serve un padre. L’amore crea e, se occorre dover liberare una vita ingabbiata, l’amore distrugge. La legge custodisce dalla morte, impedisce il fratricidio, un orientamento disordinato di quelle pulsioni non purificate. La legge custodisce e purifica, forma il soggetto per renderlo libero responsabilmente.
La legge quindi può esprimersi solo in negativo. L’amore crea, non la legge. Non mettiamo in relazione quindi i dieci comandamenti con il ‘comandamento’ dell’amore. Il secondo non è compimento del primo in termini positivi. Infatti, come ci ricorda Maurice Bellet ‘la legge dell’amore’ è la peggiore di tutte le leggi. Provate a tradurre una legge in positivo. Capireste che perde ogni sua valenza… non uccidere come lo tradurreste? Ama tutti? Mentre la prima è concreta la seconda esprime un assoluto ideologico, invivibile.
Tante volte sento parlare di fraternità presbiterali come se potessero realizzarsi dalla semplice buona volontà dei singoli. Oppure, come se fossero possibili a condizione che i presbiteri siano già dentro un legame di stretta amicizia. Intanto è bene parlarne solo con un numero minimo di tre persone, per evitare dinamiche divisive e bloccanti. Secondo, è possibile divenirlo piano piano dandosi una regola di vita comune. Una legge. Anche poco, ma quel poco regolato e custodito per far sì che si esca dal proprio io e si acceda purificandosi nel noi.
Le costituzioni, i regolamenti, la formazione, possono svolgere questo compito se sono liberanti, altrimenti vanno ripensati nell’oggi. Se sono connessi alla vita nel suo fluire favorendo la sequela e non un’immagine ideale.
“Solo l’ideale di ogni uomo è Gesù Cristo, che non è un concetto astratto, non una vuota forma della umanità in genere, o schema per ogni persona. È un modello, una idea di ogni persona con tutto il suo contenuto vivo. Gesù Cristo non è una regola morale ambulante e nemmeno un modello da copiare. Egli è il principio della nuova vita che, una volta accettata da Lui, si evolve secondo leggi proprie. In questo modo fermenta nell’uomo la sua personalità empirica in conformità all’immagine di Dio in lui” (P. Florenskij, corsivi miei).
Favorire la sequela vuol dire accogliere il soggetto laddove è e valutare insieme il passo successivo verso la sua personale liberazione in Cristo. È vederlo e non immaginarlo ‘come se’… è vederlo ‘anche se’.
Concedersi spazi e luoghi dove narrarsi. Recuperando anche un tema spirituale come quello dell’ironia e dell’autoironia. È abitare la tensione a partire dalla fraternità. In una relazione fraterna i nostri ‘io’ possono operare una prensione sull’Essere, accedere all’unità, per poter tornare al molteplice, arricchiti dentro una diversità armonica e non uniformante. L’unità è quell’essere da cui coloro che sono ‘due o tre’ divengono. L’unità è quindi un atto, un prodotto mistico della vita da cui scaturisce l’essere che si contrae nel molteplice di ogni io complessificando la realtà.
Accogliere sé e gli altri con quella sana leggerezza che nasce dall’essere stati saggiati nel fuoco del Padre è abitare la tensione a partire dalla filiazione. È da lì che poi anche le rinunce acquistano un valore. Non si parte mai spiritualmente da una rinuncia (San Giovanni della Croce), altrimenti sarebbe solo un puro esercizio di volontà individuale e non terrebbe realmente in conto gli altri ma solo il proprio sé. Si parte sempre da un amore, il solo in grado di disporre anche ad un sacrificio oblativo.
Mentre finisco la mia birra il tavolo di fronte si è svuotato. Restano stoviglie e posate alla rinfusa, testimoni di un passaggio di vita che mi sorprende. Tutto disordinato, spettinato come il capo di quei genitori che ho visto partire sorreggendo i bimbi oramai sonnecchianti sul petto. La vita insieme è un disordinare continuo tenendosi indosso il peso dell’altro e il suo calore trasformante. Notte bimbi e grazie per quanto mi avete insegnato stasera.