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RIFLESSI. Perché siamo ancora a parlare della catechesi dei fanciulli?

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Tempo di lettura: 6 minuti

In un suo saggio dal titolo Questione di sguardi, il critico d’arte e scrittore John Berger sottolinea come il nostro vedere le cose sia influenzato da ciò che sappiamo o che crediamo. “Vediamo solamente ciò che guardiamo. Guardare è un atto di scelta”. Ed “ogni immagine è una visione ricreata o riprodotta. È una apparenza o un insieme di apparenze, isolata dal luogo e dal tempo in cui si è manifestata la prima volta e conservata, per qualche istante o per qualche secolo”. Questa immagine che si conserva nel tempo rischia di produrre un processo di mistificazione, che come l’autore ricorda “è il processo che liquida attraverso un atto di spiegazione ciò che altrimenti potrebbe essere evidente”. È un atto di scelta, più o meno conscia, di vedere ciò che ci aspettiamo, che, dentro noi, desideriamo. A volte è un atto necessario, a volte un atto degenerativo.

Riflessioni allo specchio

Perché siamo ancora a parlare della catechesi dei fanciulli? Che ci azzecca con questa introduzione? In molte diocesi si riconosce la necessità di impegnarsi seriamente sulla proposta di annuncio rivolta a bambini e ragazzi. Dall’altra parte emerge la fatica nel trovare catechisti a sufficienza per svolgere questo compito oltre le difficoltà che si hanno nella relazione con le famiglie. Perché il nostro sguardo mette a fuoco questo tema? Perché questa è la scelta di impegno e di impiego delle risorse in questo tempo? Forse proprio perché ci mostra un riflesso appagante, rassicurante. Ci fornisce l’idea che ancora siamo importanti per le persone, che ancora siamo il centro delle loro richieste, delle attese delle famiglie verso i loro figli. Ci permette di fare riunioni ad inizio anno pastorale, mettendo seduti tutti i presenti di fronte al sacerdote e ai catechisti così da poter finalmente spiegare loro come stanno le cose. Ci fa sentire ancora il centro di quel paese dal quale giungono a noi adulti e bambini per informarsi ed iscriversi. Il nostro sguardo si appaga di questi riflessi. Riflessi allo specchio. È atto di mistificazione, che ci permette di non vedere realmente ciò che è oramai evidente.

Come suggerisce il teologo Maurice Bellet, possiamo agire ‘come se’, restare cioè tra le braccia della mistificazione del reale, vivere del riflesso rassicurante, restando però a lamentarsi dello scarto, etichettare il buono e il cattivo, il non corrispondente alle nostre riflessioni.  Oppure muoversi ‘anche se’, assumere il reale per attraversare lo specchio. 

Dapprima gli alberi, le nuvole, le montagne; poi le loro immagine riflesse capovolte sulla superficie del lago.
Ma tutti sappiamo che i riflessi non hanno nulla di reale. Non sono altro che luce che gioca con i nostri occhi. Non hanno poteri. Solo significato. Sono il dito che indica la luna, ma si beffano di chi prenda il dito per la luna.
Sono le chiavi che non possediamo, invece, a condurci attraverso lo specchio… Ci si tuffa nella splendente superficie del lago, ed ecco che le parole cessano di essere riflessi, e assumono invece le sembianze di pesci intenti a nuotare in acque scure: in un universo magico e sacro, nascosto nella nostra carne. Queste parole sono più reali delle cose (R.A. Alves, Parole da mangiare, 1998).

La forma (o paradigma) attuale di catechesi dei fanciulli è la forma residuale della dottrina, di quel modello che risultava opportuno in un epoca di cristianità, dove l’iniziazione al cristianesimo  era di natura sociologica. La realtà è profondamente mutata, la religione cattolica per la prima vola nella sua storia non è più una religione culturale, ma spesso si tende a fare ‘come se’, a mistificare. Come scriveva il sociologo Simmel (Forme e giochi di società. Problemi fondamentali della sociologia, 1917), lo stesso potere formativo viene meno con l’autonomizzazione delle forme e dei prodotti culturali della vita. La realtà fittizia dello specchio si separa dall’elemento vitale che l’ha posta in essere: vi è una perdita di senso della realtà, in quanto si pone come illimitata. È la cultura moderna che non viene più «giocata», come si esprimeva Huizinga (Homo Ludens, 1938) in quanto non riconosce più i suoi limiti originari. Intrappolati nella forma, nel riflesso di una vita che non è più. 

Attraversare lo specchio

La realtà oltre lo specchio è realtà che trascende l’ordinario, lo rielabora sperimentalmente, creando luoghi e tempi in cui realizzare esperienze significative e creative del sé, del gruppo, della realtà, all’interno di una transitoria comunità liminale/sperimentale. Siamo sulla soglia dei processi.

Nel racconto Lo specchio e il bersaglio (in Romanzi e racconti, 1994), Italo Calvino scrive: 

Nella terza lezione Corinna mi disse:
“Immagina d’essere una freccia e corri verso il bersaglio”. Io correvo, fendevo l’aria, mi convincevo di somigliare a una freccia. Ma le frecce a cui io somigliavo erano frecce che si perdevano in tutte le direzioni tranne che nella giusta. Correvo a raccogliere le frecce cadute. M’inoltravo in distese desolate e sassose. Era la mia immagine rimandata da uno specchio? Era la luna?E lì in mezzo c’era Ottilia. Ottilia: “Siamo sul rovescio del bersaglio”.
Io: “ E tutti i tiri sbagliati finiscono qui?”.
Ottilia: “Sbagliati? Nessun tiro è sbagliato”.
Io: “Però qui le frecce non hanno nulla da colpire”.
Ottilia: “Qui le frecce mettono radici e diventano foreste. Passa tra bernoccolo e bernoccolo, granello e granello, venatura e venatura. Troverai il cancello d’un giardino, con verdi aiuole e vasche limpide. Io sto là in fondo”.

Le incrinature della compatta superficie dello specchio, le infrazioni alle regole e le reazioni dei soggetti da queste provocati, costituiscono un mezzo privilegiato per ritrovarsi “sul rovescio del bersaglio”, dietro l’autoevidenza delle cose. Mostrano la fragilità dell’artifizio culturale/pastorale, ci rendono consapevoli, ci guidano verso una realtà liberata dalla narcisistica morte nel riflesso.   

Questo è stato il tentativo che mi ha portato insieme a Stefano Borghi direttore dell’UCD di Reggio Emilia e una équipe di ricerca diocesana e poi con don Francesco Vanotti direttore dell’UCD di Como e la sua équipe, prima a riflettere e avviare una sperimentazione che generasse una forte discontinuità dal riflesso, e poi ad elaborare una sussidiazione catechistica ‘Domande sulla Via” edito da LDC. (Puoi leggere un approfondimento nel seguente articolo ‘Convertire la catechesi’).

Le comunità che stanno attraversando lo specchio (alcune esperienze ora anche a Genova e Vigevano), si rendono conto della sfida del superamento della mistificazione rassicurante, delle spiegazioni che vanno a delimitare i confini del visibile cercando conferme nel solo riflesso. Si liberano dalla trappola di cercare catechisti che mancano non perché non ci sono più persone di buona volontà ma perché non si sentono più di essere coinvolti nello forme tradizionali. O dalla trappola di cercare soluzioni in scelte che da sole non modificano la forma in essere (ordine dei sacramenti, abolizione di padrini e madrine,…). Chi sperimenta comprende l’importanza del rinarrarsi continuamente quello che sta vivendo, della necessità delle ripetizioni: di fare esperienza per capire gradualmente il nuovo modello di stile narrativo kerygmatico.

È quindi possibile fare ‘anche se’, e le testimonianze di chi lo sta facendo lo dimostrano. È possibile, come Alice, attraversare lo specchio e farne ritorno per narrarlo agli altri:

«Svegliati, Alice, cara!» diceva sua sorella. «Che dormita hai fatto!»
«Ho fatto un sogno così curioso!» disse Alice. E raccontò alla sorella meglio che poté tutte quelle sue strane Avventure […]. Così Alice si alzò e scappò via, ripensando meglio che poteva durante la corsa a che sogno meraviglioso era stata. Ma sua sorella sua sorella rimase ferma a sedere proprio dove Alice l’aveva lasciata, con la testa appoggiata sulla mano, a guardare il sole al tramonto e a pensare alla piccola Alice e a tutte le sue meravigliose Avventure, finché anche lei non si mise a sognare in un certo modo, e questo fu il suo sogno.
Dapprima sognò proprio la piccola Alice in persona: la riebbe lì ad abbracciarle le ginocchia con le manine, gli occhi lucenti e pieni di desiderio fissi nei suoi… udì ancora l’esatta intonazione della sua voce, e rivide quel suo strano vezzo di buttare indietro il capo per respingere i capelli capricciosi che le scendevano sempre sugli occhi… e mentre ascoltava, o le pareva di ascoltare, tutto il luogo intorno a lei divenne vivo delle strane creature del sogno della sua sorellina.
[…] Così se ne restò lì a occhi, quasi credendosi nel Paese delle Meraviglie, pur sapendo che le sarebbe bastato riaprirli e tutto sarebbe ridiventato la prosaica realtà… […] Infine, si immaginò come questa sua stessa sorellina sarebbe diventata anche lei una donna adulta, nei tempi a venire; e come durante gli anni più maturi avrebbe serbato il cuore semplice e affettuoso dell’infanzia; e come avrebbe riunito intorno a sé altri bambini, e avrebbe fatto a sua volta brillare di desiderio i loro occhi con molti racconti strani, forse perfino con il sogno del Paese delle Meraviglie di tanto tempo prima; e come avrebbe diviso tutti i loro semplici doloro e goduto di tutte le loro semplici gioie, nel ricordo della sua fanciullezza, e dei felici giorni d’estate.
L. Carroll, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie – Attraverso lo Specchio, Mondadori, Milano 2003