Scroll Top

Voglia di Volare

greece-1660546_1920
Tempo di lettura: 9 minuti

PER UNA PARROCCHIA ANTIFRAGILE

Prosegue la riflessione del Centro Studi sul modello antifragile. Questa volta il paradigma antifragile viene usato per esplorare mediante prospettive nuove la realtà della parrocchia. Quale forma, configurazione, può assumere una parrocchia in tempi complessi, mutevoli, incerti per mantenere la sua fedeltà neall’abitare un territorio ed essergli prossimo? Può ancora far affidamento su progetti e strutture burocratizzate e rigide? Può liberarsi da tanti schemi, spesso mentali, per poter prendere il volo?

Il cuore della parrocchia (paroikìa) palpita attraverso due movimenti: la “prossimità” (parà) e l’“abitare” (oikèo). Questo battito ha accompagnato la vita della parrocchia per più di 1500 anni. Potremmo dire indiscutibilmente: “un’istituzione robusta”; o ancora: “un’istituzione che sa adattarsi ai tempi” … già, ma oggi sono evidenti i segnali che mostrano una crisi di questa istituzione; come se i movimenti del “battito cardiaco” parrocchiale si stessero arrestando, provocando in molti cristiani e in diverse comunità una sensazione di disorientamento.

Per comprendere meglio la situazione in cui versa la parrocchia di oggi pensiamo agli stati di un elemento naturale. Prendiamo ad esempio l’acqua: allo “stato solido” essa si presenta come ghiaccio e muoversi su di essa vuole dire in sostanza “camminare”. Ma se lo stato dell’acqua cambia, e assume la tipica forma liquida, per muoversi in essa non sarà più possibile camminare, sarà invece indispensabile “nuotare”. Se, ancora, lo stato dell’acqua cambia ed essa si trasforma in vapore, assumendo la forma gassosa, allora sarà necessario un altro tipo di movimento: occorrerà saper “volare”.

Uno dei problemi della parrocchia di oggi è che per essa si continuano a ricercare soluzioni di “rianimazione” continuando a far leva sulla prospettiva del “camminare” o del “nuotare”. Non si comprende, invece, che oggi ci troviamo di fronte ad un “cambiamento di stato” della realtà: non siamo più in una società solida, che richiede la “resilienza” di una robusta colonna vertebrale e il passo deciso del cammino; non siamo neanche più in una società liquida, che richiede un continuo movimento di “adattamento” del corpo per restare a galla; oggi siamo in una società che alcuni descriverebbero con l’acronimo “V.U.C.A.” (dalle espressioni inglesi: volatile, incerto, complesso, ambiguo). In tale situazione non si può continuare a camminare o a nuotare, ma è necessario imparare a volare.

Se la parrocchia non vuole che il suo cuore si arresti, dovrà ripensarsi alla luce di un nuovo paradigma. Non sarà sufficiente cercare strategie di ristrutturazione per conferirle maggiore resilienza e permetterle di camminare ancora, o ripensare a diversi adattamenti che le diano l’impressione di “stare a galla”: la parrocchia dovrà imparare a volare!

La mia proposta è che questo necessario cambio di paradigma possa essere ricercato in una nuova prospettiva, che superi i modelli della resilienza e dell’adattamento, ispirandosi all’idea dell’“antifragilità”. La prospettiva antifragile, più che un modello o una teoria, è un modo di vedere la realtà e di abitarla con uno stile adeguato. Essa favorisce una rilettura positiva di quella “vertigine” sperimentata di fronte alle crisi attuali: alla luce della prospettiva antifragile il sintomo del disorientamento non rivela principalmente la “paura di cadere”, ma la “voglia di volare”. Come abilitare la parrocchia al “volo” in quel contesto altrettanto volatile che segna la realtà attuale? Come cambiano i movimenti del “battito cardiaco” parrocchiale – la prossimità e l’abitare – se la realtà le chiede di volare?

UNA PROSSIMITÀ SEGNATA DALLA DIVERSITÀ E DALLA PICCOLEZZA

Ivan Illich, teologo, scrittore, filosofo, storico e pedagogista del secolo scorso, in uno degli scritti raccolti nell’opera omnia di recente pubblicazione afferma: “le istituzioni producono certezze e le certezze, prese sul serio, anestetizzano il cuore e paralizzano l’immaginazione”. Una rete di piccole comunità a dimensione famigliare, nel contesto della quale le persone si prendano cura delle relazioni evitando il pericolo dell’astrattezza diviene la forma di prossimità concreta che una parrocchia antifragile può favorire per crescere nella capacità testimoniale e nell’efficacia evangelica. Solo così il “movimento cardiaco parrocchiale” della prossimità potrà ritrovare nuovo slancio vincendo il torpore anestetizzante che attualmente lo ostacola.

Una parrocchia antifragile è un luogo in cui le singole persone e le singole fragilità trovano un contesto favorevole in cui incontrarsi all’interno di una rete di relazioni. Affinché una realtà divenga antifragile, perciò, è necessario che siano messe in relazione le diverse fragilità. E per favorire relazioni reali, non normate in senso stretto e nemmeno programmate, sempre di più sarà necessario creare ambienti che le favoriscano: come?

Innanzi tutto non contrastando la diversità! Nella prospettiva antifragile la diversità è un valore aggiunto della rete. Non è più il tempo oggi dei “cristiani fatti con lo stampino”. È bene che ci siano pensieri diversi, è bene che si creino tensioni e che accada qua e là un po’ di caos. Solo così possono crescere relazioni reali anche nel contesto di una comunità cristiana.

In secondo luogo favorendo dei contesti relazionali piccoli. I piccoli aggregati, cioè l’insieme di piccole unità sono più antifragili del grande. Oggi non sono necessarie le grandi sale o le grandi chiese o comunque non sono più adatti a questo tempo gli spazi per gli incontri di grandi gruppi. Infatti, come è possibile vivere quelle relazioni calde e curate così necessarie al Vangelo in un contesto relazionale di massa? Ad esempio, non si può negare che nelle celebrazioni domenicali di molte nostre comunità sia proprio una sensazione di estraneità a determinare il percepito. Il presente ci consegna l’opportunità di favorire uno stile più “caldo” della fede vissuta nella comunità, dove il sapore delle relazioni ritorni ad essere autentico. Per fare questo c’è bisogno di piccolezza: piccoli gruppi che tessono relazioni vive, al proprio interno e tra di essi.

Nel piccolo, inoltre, si evita di correre il rischio dell’astrazione. Si impara nella prassi a mettere in atto processi di discernimento centrati sui segni concreti dello Spirito. Soprattutto si evita di sentirsi e di agire come una mera istituzione. Infatti, siamo consapevoli del fatto che la realtà ecclesiale non sia una semplice istituzione che persegue lo scopo di auto-preservarsi, ma sia costituita invece dalla carne viva (pietre vive) delle persone che formano la comunità.

L’esperienza dell’Amore di Dio plasma per il cristiano lo stile di tutte le sue relazioni esigendo che il Vangelo si viva nella concretezza della prossimità e della testimonianza. (cf. Gv 13,34: “così amatevi anche voi”). La sua forza vitale passa attraverso la cura delle relazioni. Questo aspetto non si può ridurre – come di fatto è nella realtà delle parrocchie – ad una burocratica delimitazione di territori geografici: i confini delle comunità cristiane non possono essere definiti con lo stesso stile utilizzato per delimitare le mappe del gioco del “Risiko”. Infatti, non è il territorio, ma il terreno dell’umano a costituire uno spazio di prossimità e di testimonianza cristiana e questo può passare soltanto attraverso la cura delle relazioni.

ABITARE UN SOGNO DI CHIESA

Una delle direttrici che sostiene la vita della parrocchia possiede un carattere squisitamente ecclesiale: c’è una reciprocità (cf. Gv 13,34: “gli uni gli altri”) che alimenta la vitalità della comunità ecclesiale e costituisce il suo centro antropologico, oggi troppo spesso occupato – suo malgrado – dalla figura del “pastore proprio”. Per questo si rende necessario oggi spostare il baricentro della dinamica evangelizzatrice dal presbitero all’intera comunità.

La prospettiva antifragile richiede che il leader di un’organizzazione si preoccupi in primo luogo di orientare le persone attraverso la cura di una crescita condivisa della visione unitaria, che nel nostro caso corrisponde al “sogno di Chiesa condiviso”. La parte principale delle risorse di un leader deve essere impiegata in questo intento e non nella gestione burocratica delle strutture, delle agende o delle norme che determinano la vita della comunità cristiana. Anche qui ci viene in aiuto il pensiero antifragile: “se quasi tutto ciò che è calato dall’alto (top-down) rende fragili, impedendo l’antifragilità e la crescita, d’altro canto con la giusta quantità di stress e disordine tutto ciò che viene dal basso (bottom-up) fiorisce”.

Per una parrocchia antifragile tutto ciò comporta la messa in atto di un deciso decentramento dei processi decisionali e delle prassi pastorali verso le “case”. Semplificando si potrebbe dire che il criterio orientativo di questo aspetto consista nel far sì che la maggior parte della vita della comunità parrocchiale accada in contesti de-istituzionalizzati e informali, non nelle sale parrocchiali o nelle chiese (tempio).

Questa scelta comporterà certamente il rischio, per chi presiede la comunità, di non poter controllare tutto ciò che accade nel contesto della stessa. Ma a riguardo la prospettiva della antifragilità ci avverte di un altro rischio: “un controllo leggero funziona, mentre un controllo rigido porta a una reazione eccessiva, a volte mandando il meccanismo in frantumi”.

Complesso a pensarsi? Sì, certo. Ma non complicato. L’antifragilità, infatti, prevede che la complessità non comporti complicatezza organizzativa e pratica. Contrariamente a ciò che si pensa, infatti, un sistema complesso non ha bisogno di strutture e regole complicate, né di strategie astruse: più semplice è, meglio è. Pensiamo all’ipotesi di un reticolato di piccoli gruppi dove i processi decisionali siano effettivamente distribuiti a tutti i livelli, nella logica della corresponsabilità, a partire dal sogno di Chiesa condiviso. Una rete in cui non occorra avere un “grado” per decidere – essere prete o diacono – ma semplicemente essere un battezzato e dove il ministro ordinato accompagni la vita delle piccole comunità domestiche come parte integrante delle stesse.

In altre parole si potrebbe descrivere questo necessario spostamento di baricentro come un passaggio dal ministero alle ministerialità. Uno sviluppo di nuove ministerialità creative – non tanto laicali o presbiterali, ma semplicemente ecclesiali – che siano di aiuto ad uno stile più “domestico” dell’abitare parrocchiale. Una ministerialità non legata ad un ambito o ad un servizio (catechesi, liturgia, carità), ma che si prenda cura insieme ai pastori della comunità stessa e in particolare delle piccole comunità domestiche diffuse sul territorio. Ciò che finora era concepibile solo al centro, negli edifici parrocchiali, dovrà essere vissuto sul territorio, in forme anche diverse. Questo potrà avvenire se al di là del domicilio geografico tutti abiteranno uno medesimo sogno di Chiesa. Se questa scelta porterà al tracollo di strutture e prassi, che hanno caratterizzato la vita ecclesiale fino ad oggi, sarà un bene, affinché si ricreino spazi generativi e nuovi dinamismi evangelici.

SPERIMENTARE: IL FUOCO SI ALIMENTA DEGLI OSTACOLI

Alla base della vita cristiana c’è un’esperienza. Il cristianesimo non è una religione, tanto meno un insieme di norme o di valori etici. È un’esperienza viva dell’Amore di Dio in Gesù Cristo (cf. Gv 13,34: “come io ho amato voi”). Ho già cercato di mettere in luce (cf. articolo “È tempo di voltare pagina”) come occorra oggi più che mai “rimettere al centro l’esperienza vitale della relazione tra la persona e il Signore Gesù, ricreando nuove condizioni che la favoriscano”. Quali sono queste condizioni?

La prospettiva antifragile suggerisce la via dell’errore e della sperimentazione, nella libertà. L’atteggiamento che genera la maggior parte delle crisi e che amplifica le fragilità di cui è intrisa la comunità umana è l’attitudine a non mettersi in gioco. La vita è disordine, caos, opzionalità. Ciò che fa prosperare in essa non è il benessere o il presunto equilibrio, ma la libertà. Solo con la pratica e l’esperienza si possono cogliere le cose importanti. Così diviene decisivo sperimentare e fare errori: privare una persona o una comunità di questa possibilità corrisponde a un indebolimento della vitalità stessa. Gli errori, lo stress, e persino le difficoltà incontrate sono fonte di informazioni e provocano un processo di innovazione, sono sorgenti di energia vitale.

La nostra mentalità parrocchiale è stata basata negli ultimi tempi da progetti e piani pastorali. Questo è andato bene per un certo periodo caratterizzato da una relativa stabilità. Oggi quel tempo si è concluso. Una parrocchia antifragile, invece, diverrà luogo in cui avviare processi senza la preoccupazione di approdare in breve tempo a risultati. Sarà luogo di esperienza condivisa – una rete di storie di vita illuminate dal Vangelo – e di sperimentazione di nuove prassi di annuncio, catechesi, celebrazione.

In una parrocchia antifragile sarà importante allora creare quelle condizioni che amplino gli spazi dell’esperienza, in particolare di quella esperienza vitale che è l’Amore di Dio. Perciò, sarà necessario poter essere liberi di sbagliare senza essere esclusi di fatto dalla comunione della comunità cristiana. Nassim Taleb, ideatore dell’antifragilità, afferma che “chi non ha mai peccato è meno affidabile di chi lo ha fatto almeno una volta. E chi ha fatto tanti errori, ma mai due volte lo stesso, è più affidabile di chi non ne ha mai commessi”. Non è forse questo il cuore dell’esperienza cristiana? Essere e sentirsi peccatori perdonati riscoprendo passo dopo passo la straordinarietà dell’Amore così da esserne permeati?

Nella parrocchia antifragile il sogno (la visione) di persona e di comunità che anima la prassi è legato strettamente a questa dinamica di morte e risurrezione. Occorre lasciare libere le persone di “scottarsi” con il fuoco delle crisi e degli ostacoli della vita. Non è necessaria un’eccessiva protezione o auto-preservazione né come persone né come comunità. Altrimenti l’unico risultato ottenuto – come di fatto avviene in molti contesti cristiani oggi – sarà quello di allontanarsi inesorabilmente dalla vita e dalla realtà. Soltanto rimettendo la vita al centro, con tutti i suoi interrogativi e la sua incertezza, la luce del Vangelo potrà illuminare con forza l’esistenza umana. Per questo sarà necessario favorire spazi di narrazione dell’esperienza, luoghi in cui le singole fragilità possano incontrarsi e raccontarsi, alla luce della Parola.

Così, la vita non verrà anestetizzata dallo stile “mulino bianco”, ma potrà rivelare tutta la sua potenza. Marco Aurelio ha detto: “il fuoco si alimenta degli ostacoli”. Mettere al centro la vita e l’esperienza, con libertà, potrà aiutare la parrocchia ad entrare più pienamente in questo dinamismo alimentando in essa il fuoco del Vangelo.

DOMANDE CHE INSEGNANO A VOLARE

Ci si potrebbe chiedere a questo punto: questi tratti di una parrocchia ripensata secondo la prospettiva dell’antifragilità costituiscono il modello del futuro? Le aperture proposte possono ritenersi “corrette”? Domande di questo tipo nascono una trappola autodistruttiva e, mi pare, molto distante dal contesto evangelico che ha avviato la vicenda ecclesiale.

Ritorniamo per un momento agli Atti degli Apostoli. Capita più volte, nel corso del racconto lucano della vita dei primi cristiani, di trovarsi di fronte a scelte decisive per lo sviluppo della vita della comunità. Pensiamo ad esempio alla vicenda iniziatica vissuta da Filippo insieme al funzionario etiope della regina Candace: ad un certo punto, da parte di quest’ultimo, emerge il desiderio di ricevere il battesimo. Egli non chiede a Filippo: quale corso dovrei frequentare per accedere a questo rito? Quali sono le norme per ricevere il battesimo? Domanda invece: “cosa impedisce che io sia battezzato?” (At 8,36). La sua attenzione è posta sugli eventuali ostacoli che potrebbero impedire la corsa dello Spirito.

Pensiamo, ancora, al Concilio di Gerusalemme descritto brevemente nel capitolo 11 degli Atti: Pietro risponde ai rimproveri degli apostoli e dei fratelli per aver condiviso il dono della fede con i pagani non tanto rispondendo tecnicamente e razionalmente alle singole obiezioni, ma raccontando la sua esperienza e ponendo una ulteriore domanda: “Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che ha dato a noi, per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?” (At 11,17).

Anche in questo ultimo caso, di fronte a possibili soluzioni inedite per la vita ecclesiale, non ci si chiede tanto se sia corretto o meno quello che la realtà prospetta, o se la soluzione emergente sia “il rimedio” ai problemi del presente, ma ci si chiede come non essere di impedimento al nuovo che lo Spirito sta suscitando, come non soffocare quei germogli di vita che emergono dall’arsura del deserto.

Propongo allora di continuare la riflessione attraverso queste domande: perché non iniziare a sperimentare piccole esperienze di parrocchia antifragile tentando di immaginare qualche applicazione pratica? Perché non sviluppare una riflessione più approfondita a riguardo? Quali dinamismi evangelici potrebbero essere favoriti nel contesto di una parrocchia antifragile? Come non ostacolare oggi la corsa del Vangelo? Domande semplici, in linea con lo stile delle prime comunità cristiane, che colgono i desideri del presente e insegnano a volare.