
L’ultima parte dell’Europa a concedere il diritto di voto alle donne non è stata qualche regione sperduta della Transilvania ma il piccolo ridente Cantone svizzero di Appenzell, vicino a San Gallo. Le donne furono ammesse al voto solo nel 1989 (parte protestante di Appenzell) e nel 1990 (parte cattolica di Appenzell). Non bastasse, va precisato che la parte cattolica del Cantone non ha mai approvato il diritto femminile al voto, ma solo preso atto della deliberazione della Confederazione elvetica accolta nel 1971, ultima tra le nazioni occidentali
Come si spiegano queste insospettabili e clamorose resistenze e ritardi in tema di diritti individuali e della loro parità tra donne e uomini? La risposta, stando a quanto sostengono gli studiosi, è la lunghissima relazione storica della Svizzera con la democrazia diretta, forma di partecipazione politica adottata e mantenuta fin dal XIV secolo, forse la più antica esistente. L’esercizio della democrazia diretta e relative espressioni di voto era associata alla pratica della Landsgemeinde: la convocazione di tutti gli uomini nella piazza o spazio designato, ciascuno con la propria arma, essendo il diritto di voto sempre stato collegato al servizio militare. Il possesso ed esibizione dell’arma svolgevano di fatto la funzione di ‘tessera elettorale’ e ‘certificato di cittadinanza’ (cantonale), e come tale in molti casi veniva tramandata di padre in figlio.
Così, la ottusa ripetizione della prassi consolidata della democrazia diretta ha finito per ostacolare un più completo e coerente impiego della democrazia stessa, come la lunga esclusione dal voto delle donne sta ad indicare.
‘Ripetere’: replicare vs richiamare
Fondamentalmente il ‘ripetere’ è una tecnica di apprendimento che mira ad aumentare controllo e perfezione su qualcosa, risparmiando energia (attenzione) e salvaguardando l’efficacia. In questo senso, sappiamo che l’atto e l’invito al ‘ripetere’ è una prassi presente e utilizzata in svariati ambiti, da scolastico a sportivo fino a diverse pratiche ascetiche. Per altro, il senso del ‘ripetere’ (il suo significato e direzione) si può meglio comprendere se si tien conto del paradigma in cui è inserito.
All’interno di un paradigma adattativo, l’atto del ‘ripetere’ indica la tensione ad appropriarsi di qualcosa in modo passivo, imitativo: Esso si esprime nel ‘rifare’ qualcosa in modo sempre più simile al modello originario proposto. Nell’approccio adattativo il ‘ripetere’ rimanda al «modellamento» (modeling). Si tratta di imparare le azioni principali di un dato compito (mentale, motorio…) imitando il modello dimostrato da un’altra persona (maestro, istruttore, guida spirituale …). L’autodisciplina richiesta al soggetto mira a riprodurre sempre più fedelmente un dato compito o azione: ‘ripetere’ è ‘copiare’.
In questa visione, il ‘ripetere’ porta alla appropriazione e controllo di qualcosa attraverso l’estraneazione: vita ed esperienze sono imprigionate in forme predefinite, impedendo al soggetto di inaugurarne di nuove. L’esito di questa modalità di ripetizione è il sorgere e consolidarsi di abitudini. Vengono ad instaurarsi cioè fattori di inerzia, riducendo nel soggetto l’atteggiamento critico. Alla persona vien fatto sembrare evidente ciò che è semplicemente familiare. Alla lunga, le buone intenzioni del ‘ripetere’ (possedere e controllare determinate sequenze di azione) finiscono per tradursi e cristallizzarsi nel ‘si è sempre fatto così’
‘Ripetere’ nella libertà
All’interno del paradigma antifragile, il senso del ‘ripetere’ assume altre valenze, passando dal ‘replicare’ al ‘richiamare’. Acquisendo valenze di liberazione, vien dato scacco al controllo ossessivo ed esorcizzante del nuovo/ diverso. Nel ‘ripetere’ adattativo si cerca e ritrova sempre l’uguale, in quello ‘antifragile’ il ‘ripetere’ entra in una logica processuale, ovvero assume valenza di esplorazione e scoperta del possibile e non del dato. Come afferma Jacques Lacan, in questo modo il ripetere non è mai e solo riprodurre la stessa cosa, come si è portati ad immaginare. Esso comporta anche il prodursi di qualcosa di diverso e di nuovo rispetto alla scena originaria, che attraverso spostamenti e trasformazioni porta con sé una dimensione simbolica e proattiva gravida di opportunità.
L’atto di ‘ripetere’ non solo come memorizzazione (‘rifare’) ma come ‘fare memoria’ (‘richiamare) è ciò che consente di attivare il processo del ‘ripetere senza ripetere’.
‘Ripetere senza ripetere’
Possiamo esemplificare questo diverso approccio ricorrendo all’ambito sportivo: nelle forme più innovative l’esercitarsi nel gesto sportivo non comporta riprodurre la stessa soluzione di un dato compito fino al suo completo automatismo, ma ripetere il processo in modo aperto, cercando di trovare soluzioni alternative sempre nuove (cioè senza ripetere la stessa soluzione).
Il ruolo e il compito dell’istruttore/educatore cambiano radicalmente: dal prescrivere e dimostrare all’atleta ciò che deve fare (introducendo varianti di movimento o di tattica secondo una progressione predeterminata) al facilitare e stimolare la ricerca attiva. L’atleta è così posto nella condizione di scoprire quante più soluzioni possibili in grado di generare spontaneamente un aumento graduale di difficoltà. Immaginiamo di volere insegnare ad un bambino a superare in corsa gli ostacoli. Nel modello adattativo è il bambino che si ‘adatta’ al compito: insegnare a saltare l’ostacolo in modo prescrittivo-riproduttivo prevede di scomporre il passaggio degli ostacoli nelle sue diverse parti. Quindi facciamo ripetere al bambino più volte il movimento; quando riesce a eseguirlo sufficientemente bene possiamo iniziare a variare l’altezza degli ostacoli e la distanza tra essi.
Nel modello antifragile, si adotta uno stile di facilitazione proattiva: l’obiettivo non è più quello di modellare uno specifico gesto tecnico per superare l’ostacolo, ma quello di aiutare il bambino a esplorare diversi modi di scavalcarlo. Nel processo del ‘ripetere senza ripetere’ il compito viene eseguito più volte, ma incoraggiando a trovare ogni volta un modo nuovo di scavalcare. Così pure, per non ostacolare l’esplorazione delle possibilità da parte del bambino dobbiamo evitare ogni dimostrazione, perché altrimenti si limiterebbe a imitare i nostri movimenti.
Verso un ‘flow sinodale’
In molti casi la pastorale si trova ancora ad operare nel dominante paradigma adattativo, in cui i gesti e le credenze ( in ambito catechistico, liturgico, morale …) sono il frutto di abitudini indotte dal ‘copiare e rifare’ quanto indicato e richiesto dai vertici clericali e dalla tradizione. E’ giunto tuttavia il tempo (ormai da tempo, si dovrebbe ammettere) di cambiare paradigma: una scelta di ‘uscita’, dal carattere esodale e sinodale, che renda possibile, anche nella pastorale, perseguire la cosiddetta «condizione di flow», ovvero quello stato di esperienza ottimale che si raggiunge non solo massimizzando la propria concentrazione sull’obiettivo da raggiungere, ma andando oltre la consapevolezza di sé stesso.
Nel ‘flow pastorale’ non si tratta di replicare i gesti e gli atteggiamenti di una religiosità ormai superata. Si tratta di «abbandonarsi » alla prospettiva sinodale del camminare insieme, così da viverla sempre più in modo totalmente naturale: una condizione di « autodimenticanza» caratterizzata da sensazioni di gioia spontanea, dove il controllo ossessivo e difensivo (di sé, dell’altro, delle forme, delle abitudini …) diventa un ostacolo, l’ultimo limite da superare per «lasciarsi andare» nella Speranza.
Apologo finale
In un esperimento, cinque scimmie erano state chiuse in una stanza dove c’era un palo con in cima a un casco di banane. Subito le scimmie corrono in direzione del palo per impadronirsi delle banane. Ma quando una di esse comincia ad arrampicarsi, una doccia d’acqua gelida la investe, costringendola a ritirarsi.
Lo stesso accade alle altre scimmie che ripetono lo stesso tentativo, fino a che le scimmie rinunciano ad appropriarsi delle banane. A questo punto una delle scimmie viene fatta uscire dalla stanza e sostituita con un’altra. Ignara delle conseguenze, non appena vede le banane, la nuova scimmia si comporta esattamente come le altre scimmie. Ma queste, memori di quanto potrebbe accadere, la bloccano prima che raggiunga il punto critico e che si attivi la doccia d’acqua fredda.
Una alla volta le scimmie di ‘prima generazione’ vengono fatte uscire e sostituite. Si arriva così a questo esito paradossale: un gruppo di scimmie che impedisce a un proprio simile di arrampicarsi lungo il palo che condurrebbe a un casco di banane senza conoscerne la ragione!
A volte anche le nostre comunità finiscono per comportarsi in modo analogo: il desiderio viene frenato da abitudini e timori acquisite passivamente, di cui non conosciamo l’origine, con buona pace della speranza e del cambiamento.