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Ri-sognare l’oratorio

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Un nuovo modello per evitare che la tradizione ci renda ciechi 

È ancora attuale per l’oratorio il ‘sogno’ di don Bosco?

Il sogno profetico è uno dei linguaggi preferiti da Dio nella Bibbia, come ben sappiamo. Sappiamo anche però che non si sogna mai due volte la stessa cosa. Oggi don Bosco con ogni probabilità avrebbe altre fertili intuizioni, diverse dal metodo preventivo e formazione professionale. Il ‘sogno profetico’ di don Bosco raccoglieva la sfida della nascente questione giovanile legata all’affermarsi della modernità industriale ed urbana. Oggi la questione giovanile, nella modernità liquida in cui ci troviamo, si pone in termini molto diversi.

Quello che rende ancora attuale – addirittura urgente – il sogno di don Bosco per l’oratorio (e più in generale per la pastorale giovanile) è soprattutto la disponibilità e possibilità di sognare profeticamente. Il sogno di don Bosco è attuale soprattutto perché ci stimola ad avere il coraggio di sognare.

Il punto critico tuttavia è un altro, ovvero nel fatto che da tempo gli oratori hanno smesso di sognare: ostaggi non sempre consapevoli della tradizione, essi cercano segnali di futuro guardando al loro passato. Così facendo l’oratorio finisce per accentuare lo scollamento tra azione pastorale e vita reale dei giovani. Parafrasando l’epistemologo Michel Serres, gli oratori brillano e ci inviano una luce simile a quella delle costellazioni che gli astronomi ci dicono morte da tempo.

Quale oratorio verrà?

L’oratorio che verrà non sarà un ‘oratorio’, almeno nel modo in cui oggi lo conosciamo. Il cambio d’epoca che la Chiesa sta attraversando ha messo in crisi i quattro pilastri del modello su cui l’oratorio da sempre si reggeva: la figura carismatica del sacerdote, il protagonismo giovanile, il radicamento territoriale e l’identità cristiana condivisa. Oggi “l’oratorio è nudo!”, per parafrasare la nota fiaba di Andersen, essendo venuto meno il “mito” fondativo oratoriano, al di là delle argomentazioni apologetiche e doverose difese d’ufficio.

L’oratorio che verrà non potrà essere l’ennesimo aggiornamento o restyling del modello tradizionale, come più volte si è cercato di fare. Non si tratta più di “ripartire meglio”. Si tratta di cambiare paradigma, ovvero operare su quei presupposti ‘invisibili’ in quanto dati per scontato che ci rendono ciechi di fronte alle esigenze di cambiamento. Occorre lo slancio profetico di immaginare nuove forme originali di presenza e di azione pastorale giovanile, capaci di intercettare le sfide della “modernità liquida”.

L’oratorio potrebbe diventare un campo base?

L’oratorio, al pari di altre realtà ecclesiali, è una forma pastorale storicamente connotata, appartenente a un’epoca ormai finita. Il termine ‘campo base’, al contrario, indica l’esigenza di individuare diverse forme pastorali come il già citato cambio d’epoca richiede. Oggi l’oratorio non è un ‘campo base’, ma lo potrebbe diventare accettando di rinascere su altre basi e premesse pastorali, metodologiche e organizzative.

Campo Base rimanda all’emergere dei cosiddetti ‘terzi luoghi’ pastorali, piccole strutture e spazi di ospitalità e di innovazione molto più flessibili rispetto alle solide tradizionali strutture pastorali cui siamo abituati. Un Campo Base si caratterizza per la sua essenzialità, leggerezza, accessibilità, apertura. Esso nasce dalla volontà di coltivare il desiderio e non dal bisogno di risolvere problemi. Un ‘oratorio terzo luogo’ è una realtà leggera, simile più ai moderni coworking che all’organizzazione catechistico-familiar-sportivo che solitamente caratterizza gli oratori attuali.

Campo Base è un modello tras-formativo, fortemente esperienziale, che mira a coniugare fraternità (lo stare insieme) e grandezza (sperimentare imprese condivise): proprio ciò che rende attraente la metafora del Campo Base.

Quale pastorale oratoriana è necessaria per attrarre i giovani?

Puntualmente, quando si affronta il tema del cambiamento pastorale, arrivano domande come questa. Benché esprimano una esigenza comprensibile, va detto simili domande sono mal poste. In questo caso essa riflette la classica impostazione centripeta oratoriana che la realtà giovanile attuale rende inapplicabile. Non si tratta di attrarre i giovani, di farli venire in oratorio ma di incontrarli in chiave missionaria: si tratta di creare condizioni per ‘uscire’ e non ‘far entrare’, essere sinceramente co-involti nel e dal mondo giovanile.

L’immagine e modello del “Campo Base” rimanda non più una realtà (quella dell’oratorio) scelta e proposta perché solida e rassicurante. Essa indica piuttosto un punto di riferimento aperto e flessibile, luogo di partenza per nuove ascensioni e di ritorno per rielaborare le esperienze vissute e favorire nuove tessiture di senso. In breve, una ritrovata unità di corpo, vita, spirito. ‘Campo Base’ è un modello che privilegia la valenza trasformativa dell’esperienza, il primato dei processi rispetto ai progetti, l’utilizzo di metafore e situazioni di tipo “iniziatico”. Il tutto per favorire una rilettura critica delle proprie esperienze umane e spirituali per una nuova tessitura di senso.

In quale modo si può far sprigionare la creatività dei giovani?

Rendendoli e facendoli sentire davvero soggetti e non oggetti dell’azione pastorale, valorizzando la loro sete di libertà ed esplorazione. La creatività giovanile scaturisce quando parte dal desiderio di coniugare ricerca di senso e bellezza, nella libertà, attraverso esperienze sfidanti e la loro ri-narrazione trasformativa. Vale la regola sinodale del camminare insieme. Solo così saremo in grado di entrare in contatto con la sana inquietudine dell’incompletezza, con la consapevolezza che ci sono ancora molte cose di cui non siamo in grado di portare il peso.

La creatività dei giovani si sprigiona a partire dall’assumere una postura spirituale di ascolto, dalla consapevolezza di avere molto da imparare per rigenerare attorno a sé fiducia e credibilità.