SFIDE PER LA RICERCA TEOLOGICA
A partire da una metafora calcistica, ci si chiede in questo articolo quale ‘sistema di gioco’ la Chiesa è chiamata ad adottare per abitare questo tempo di cambiamenti. Andare oltre ‘il catenaccio’ pastorale, ripensando nella Chiesa la sua architettura magisteriale, il suo impianto giuridico e le sue prassi.
Il ‘catenaccio’ è uno schema tattico molto utilizzato nel calcio italiano del secolo scorso, che aveva lo scopo di implementare le ‘coperture’, cioè di rendere più efficace l’azione difensiva. La forza di questo impianto tattico consisteva sostanzialmente nella presenza di molteplici linee e modalità di ‘schermatura’ che avrebbero dovuto impedire agli avversari di penetrare nelle proprie retrovie. Il limite di questo sistema fu messo in luce in particolare nella Coppa dei Campioni del 1971/1972, dove le squadre che utilizzavano il catenaccio furono spazzate via da quelle che stavano sviluppando schemi tattici diversi – si pensi ad esempio al ‘calcio totale’ olandese – che consentivano di compiere molteplici attacchi diversificati e improvvisi, che mandavano in tilt il sistema del catenaccio.
Questa ‘parabola calcistica’ mi fa pensare oggi alla Chiesa e mi interroga sul suo ‘schema tattico’ o meglio sul suo ‘sistema di gioco’. Come viene giocata, ancora oggi, la partita dell’evangelizzazione? È uno schema vincente quello che – spesso senza saperlo – viene utilizzato? Per rispondere a queste domande penso sia utile fare qualche passo indietro nel tempo. Quello che cercherò di descrivere sarà molto semplificato nella sua argomentazione. Il mio interesse infatti è mettere in luce il ‘dinamismo di fondo’ e la ‘cornice’ in cui ci troviamo oggi nel contesto ecclesiale, perché penso che questa consapevolezza possa offrire una chiave di lettura ‘liberante’ sia per la teologia che per il dinamismo dell’annuncio evangelico.
Possiamo dire che a seguito delle spinte illuministe e con l’avvento della modernità l’autorità della Chiesa si è trovata in un modo nuovo e significativo messa in discussione. Questo ha innescato un movimento ecclesiale che ha concretamente messo in atto un ripensamento dell’‘architettura magisteriale’ che fino a quel momento non era stata pensata secondo quel paradigma. Infatti, il Concilio Vaticano I – riprendendo la parabola calcistica sopra descritta – ha messo in atto un vero e proprio ‘catenaccio’. Per prima cosa ha favorito il fraintendimento che la ‘dottrina dogmatica della Chiesa’ fosse la ‘dottrina della Chiesa’ stessa, quando invece ne costituisce soltanto una forma specifica e perciò ha operato un restringimento di particolare rilevanza. Inoltre, introducendo il concetto di ‘infallibilità’, si è arrogata il diritto di definire ciò che è vero e ciò che le persone devono credere in ordine alla propria fede, rafforzando tutto questo in seguito attraverso decisioni giuridiche, vincolanti e definitive, con la redazione del Codice di Diritto Canonico del 1917.
Questa operazione di ‘catenaccio’ aveva un’intenzione positiva: cercava di salvaguardare il prezioso deposito della Rivelazione. Infatti, l’infallibilità e l’introduzione dei ‘reati penali contro la fede’ del Codice del 1917 erano circoscritti all’ambito delle verità appartenenti all’ambito della Rivelazione. Il Concilio Vaticano II poi cercò di migliorare questa architettura collocando il Papa e la sua infallibilità nella totalità della Chiesa stessa. Si potrebbe dire che fu effettuato un up-grade dello schema del catenaccio ecclesiale – come avvenne nel caso della tattica calcistica allora chiamata ‘zona mista’ – ma in sostanza l’impianto rimase invariato. Anzi, la traduzione giuridica del Concilio Vaticano II inasprì la difensiva e allargò l’ambito dei reati penali contro la fede e dell’infallibilità non soltanto alle verità direttamente situate nell’ambito della Rivelazione, ma anche a quelle secondarie (cf. CIC 750 §1 §2).
Possiamo dire che di fronte alle spinte che minavano l’autorità della Chiesa negli ultimi secoli essa abbia reagito inasprendo le forme autoritarie – anche in ordine alla verità – e difensive, e mettendo in secondo piano il suo essere custode e testimone di una realtà preziosa quale è la Rivelazione. Il fatto è che oggi ci troviamo ancora in questa situazione: il paradigma non è cambiato e la situazione ecclesiale in cui ci troviamo a vivere porta in sé stessa alcune conseguenze significative che provo ora a descrivere brevemente.
a) L’architettura magisteriale della Chiesa attuale non è così profondamente radicata nella sua Tradizione: riprendendo un adagio evangelico potremmo dire che «da principio non fu così» (Mt 19,8). Cioè oggi ci troviamo ad avere un impianto magisteriale, giuridico e perciò anche un modo di agire nella prassi ecclesiale – difensivo, chiuso, autoreferenziale – che è stato introdotto da poco più di un secolo. Siamo proprio sicuri che procedere in questo modo ci dia una garanzia di fedeltà al Vangelo e a Gesù Cristo?
b) La ‘dottrina della Chiesa’ è una realtà viva e non uno scrigno chiuso e sigillato in un museo: far coincidere l’insegnamento della Chiesa con il suo Magistero è un autogol da paura. L’insegnamento della Chiesa deve cambiare nel tempo per essere sempre fedele al Vangelo e a Gesù Cristo! Fissare dei vincoli troppo stringenti rispetto alla ricerca della Verità è come ‘legarsi le mani da soli’. Davvero è opportuno continuare così?
c) La teologia non è il Magistero: il discorso e la ricerca teologica e il Magistero sono realtà interconnesse, ma non sono la stessa cosa. Con l’attuale impianto, ad esempio, se un teologo sostiene la possibilità di ordinare le donne aprendo un dibattito e andando oltre un impianto giuridico che pone dei vincoli rispetto alla questione, il teologo può incorrere in una pena di censura o commettere altri reati contro la fede. Perché allora continuare a fare teologia se già c’è il Papa che dice ciò che è giusto e i canonisti che danno forma giuridica alle verità?
Queste considerazioni – credo decisamente di nicchia e forse un poco noiose – sono utili a mio avviso per sostenere l’opportunità oggi di un cambiamento profondo per la Chiesa, che tocchi anche la sua architettura magisteriale, il suo impianto giuridico e le sue prassi. Ciò è importante per non restare chiusi in un sistema autoreferenziale e difensivo, di catenaccio, che di fronte all’imprevedibilità del tempo presente si rivela decisamente inadeguato. Non è la fedeltà alla Tradizione che ci chiede di essere così. Non è il valore prezioso del Vangelo di cui la Chiesa è custode che chiede di essere così. Per rendere possibile l’attuarsi di reali cambiamenti, che tocchino il pensiero ma anche le prassi ecclesiali, c’è la necessità oggi di un cambiamento sistemico, una liberazione strutturale che conceda la possibilità di ricercare strade nuove e di sbagliare cercandole.
In questo la ricerca teologica deve tornare ad osare, ad andare oltre. Come ha ricordato il Papa recentemente alla CTI: “Il teologo deve andare avanti, deve studiare su ciò che va oltre; deve anche affrontare le cose che non sono chiare e rischiare nella discussione. A questo è chiamata la Teologia: non è disquisizione cattedratica sulla vita, ma incarnazione della fede nella vita” (Francesco, Discorso ai Membri della CTI, 29.11.2019). Il nostro tempo è un tempo di superamento di sé delle forme ecclesiali, è un tempo di ri-forma o meglio – a me piace utilizzare il termine greco corrispondente – un tempo di ‘metamorfosi’, dinamismo proprio del pensiero e dell’agire del cristiano come afferma l’Apostolo Paolo: «Lasciatevi trasformare (metamorphéo) rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio». È giunto il momento di cambiare strategia, uscendo da una logica difensiva e di controllo per fare spazio al dinamismo liberante dello Spirito.