Per una pastorale “de-moralizzata”
Che buona parte della pastorale si senta oggi un po’ giù di morale è un fatto acquisito. Tuttavia, non è in questo senso che va letto il nostro invito: non c’è nessuna particolare soddisfazione nel constatare le difficoltà pastorali nell’affrontare il cambio d’epoca che investe il mondo ecclesiale. Nemmeno, però, alcun intento consolatorio. Possiamo invece provare a sorridere amaramente nell’osservare come ripetutamente l’azione pastorale, ai diversi livelli, si illuda di cambiare senza cambiare, ovvero affrontare il cambiamento continuando a utilizzare approcci rassicuranti ma sterili e paradigmi di riferimento inadeguati.
La richiesta di una pastorale ‘de-moralizzata’ va intesa come invito alla pastorale a smettere di operare secondo una logica difensiva, legalistica e omologante, normativa e normalizzatrice, di rinunciare al suo procedere in modo giudicante e moraleggiante, dividendo i ‘buoni’ dai ‘cattivi’ prima del tempo, ammesso e non concesso che tale incarico tocchi alla pastorale. Nel cambio d’epoca e di paradigma che viviamo, abbiamo bisogno di una pastorale che sappia accompagnare in spirito sinodale, anteporre il discernimento al giudizio. Vogliamo una pastorale non moralizzante ma motivante, che non punti il dito ma tenda la mano, che non veda solo il ‘peccato’ da condannare ma riconosca le fratture umane e spirituali da sanare.
Chiediamo una pastorale che non divida ma ricomponga, che non pretenda di plasmare l’esistenza dell’altro in forme predefinite ma sappia ritessere relazioni e legami nelle e tra le persone, nelle e tra realtà e situazioni comunitarie, in entrambi i casi smarrite e fragili. Riprendendo una immagine biblica, oggi l’invito alla pastorale è quello di ‘cambiare mestiere’: dal ‘vasaio’ al ‘tessitore’, dal dare una forma (morale) all’intrecciare disegni di vita.
Peccati o fratture?
Queste riflessioni mi sono sorte ascoltando il brano della peccatrice che piangendo lava i piedi di Gesù in casa di Simone. Sembra proprio che la pastorale si trovi nella invidiabile e al contempo scomoda posizione di Simone il fariseo, padrone di casa lusingato di ospitare un commensale di eccezione come Gesù ma insieme imbarazzato per l’arrivo di un’ospite imprevista e sgradita, la peccatrice appunto ed i suoi gesti fuori dall’ordinario, fuori dal ‘paradigma dominante’, potremmo dire.
Un racconto che interpella la pastorale nell’oggi, di cui Simone diventa figura, e le sue cornici di riferimento, come nella storia di cui sono venuto a conoscenza. La nostra ‘peccatrice’ è una consacrata. Persuasa a diventare religiosa quando era appena adolescente, vergine non solo sessualmente ma soprattutto della vita. Una ‘vocazione assistita’, potremmo azzardare, per certi versi analoga alle tecniche di fecondazione cui oggi si ricorre (per una volta forse la chiesa è arrivata prima della scienza…). Quindi l’ingresso in una congregazione carismatico-maschilista, un noviziato severo, ottuso, con il costante richiamo all’obbedienza al ‘Padre’ (non Dio ma il fondatore). Quindi la sistematica sottomissione, prevista dalle costituzioni e dalle norme capitolari, del ramo femminile a quello maschile dominante, moralistico-sessuofobico, che traduce la loro vocazione al servizio in termini di addette ai servizi di pulizia, riordino, cucina…
L’impegno alla fedeltà vocazionale in queste condizioni si traduce nella ricerca di un equilibrio precario tra vita e relazioni, anima e corpo, libertà e costrizioni che portano fin dagli anni della gioventù ad una serie di dolorosi disturbi psicosomatici. Perché, parafrasando Pascal, “il corpo ha delle ragioni di sopravvivenza che l’anima rifiuta per poter sopravvivere” …
Dopo trent’anni, ormai vicina ai 50, l’equilibrio si rompe. Il maschilismo insopportabile, il soffocamento delle istanze di rinnovamento, e soprattutto la sete di riconoscimento e amore si fa insistente: aprono prima crepe poi brecce sempre più ampie, fino a diventare fratture interiori e comunitarie, dividendo l’anima dal corpo. L’amicizia social diventa curiosità, poi confidenza; poi il passo si fa sempre più veloce ed il desiderio vorace. Fino ad avere cinque amanti, cinque diverse maniere di sentirsi donna, anima e corpo, stavolta partendo dal secondo.
Oltre il moralismo alienante
La ‘peccatrice’ conosce bene la ‘Legge’, ne sente il peso ed il giudizio: “sto peccando e sarò certamente condannata all’inferno”. È quanto in modo assillante essa si ripete ogni giorno, dopo ogni incontro d’amore, a cui tuttavia non sa e vuole rinunciare, perché in questi incontri si sente viva, ascoltata, e capace di ascolto, riconosciuta e riconoscente, ‘amata’ e ‘amante’.
Nessuno in comunità e congregazione conosce questa sua doppia vita, questa sua profonda frattura esistenziale, nessuno comprende il suo sforzo di trasformare, senza successo, la ferita in feritoia sulla vita. Non può e non vuole confidarsi: non col confessore, maschio e maschilista come prevede il ‘carisma’ della congregazione, non con la ‘madre’ Superiora, che forse la capirebbe ma non difenderebbe, temendo danni per la comunità. Il suo disagio, tuttavia, sempre più evidente, rende la situazione nel tempo insostenibile. Così viene presa la decisione di ‘rimandare in segreto’ la ‘peccatrice’, con il suo consenso, ovvero trasferirla in una struttura di accoglienza e sostegno ad impronta religiosa, dove capire come affrontare il futuro. Lì, sperano tutti, avrà occasione di versare le sue lacrime e soprattutto provare a ricomporre la sua identità in modo unitario.
Fratture da ricomporre
Qualcuno potrebbe domandarsi cosa c’entra questa triste vicenda con la pastorale. Dopotutto, si tratta di uno dei purtroppo tanti casi di fragilità umana che possono colpire anche persone consacrate. Il punto invece è proprio questo: situazioni critiche come queste non si possono ridurre e tentare di risolverle come questioni di debolezza individuale, ma interpellano il sistema pastorale e gli approcci adottati, irrigiditi sul rispetto della norma, della ‘legge’, nel tentativo di trattenere o riportare persone e comunità all’interno di un recinto sempre più illusorio.
La vicenda della nostra ‘peccatrice’ non è un caso isolato. Altri/e consacrati/e, anche se per ragioni ed in modo diverso, dopo un penoso travaglio si sono allontanati/e dalla congregazione, fratturati/e nel proprio intimo. Congregazione divenuta nel frattempo sterile: nessuna nuova vocazione è nel frattempo da tempo arrivata, tanto da spingere ad ‘adottarne’ in paesi extraeuropei, come fanno le coppie senza figli. Se la sofferenza è sempre personale, le cause e le ‘colpe’ non sempre sono imputabili al singolo ma rimandano ad approcci, forme e mentalità pastorali istituzionali, la cui preoccupazione è di non perdere il controllo dell’esistente.
Al di là delle situazioni e responsabilità soggettive, la frattura tra fede e vita che il cambio d’epoca evidenzia ed accentua si riflette nella vita dei singoli e delle comunità ma non può più essere considerata e affrontata scaricando le colpe sui singoli o le comunità stesse. Essa piuttosto rimanda alla pastorale ed alla sua conversione: abbiamo necessità di gesti e prassi nuove (la peccatrice), di linguaggio e parole nuove (Gesù) per ricomporre il legame spezzato tra fede e vita. Se è vero che un peccato è una frattura spirituale, personale e comunitaria, non tutte le fratture sono ‘peccati’ ed il vero peccato sarebbe trattarle come tali.
Massaggio cardiaco pastorale
Peccati da perdonare o fratture da ricomporre, dunque? Perché di una donna frantumata dalla violenza di una religiosità istituzionalizzata nevrotica e plagiatrice si tratta, al di là di giudicarla e liquidarla ‘peccatrice’, come i canoni di una certa pastorale pretenderebbero. Mi piace pensare che le parole di Gesù non siano state dettare dal solo superamento della Legge, ma dalla volontà di restituire alla donna la sua unità interiore profonda, in cui trovare pace e libertà. Mi piace immaginare che Egli intendesse “Donna le tue ferite si possono richiudere “, “Va e non essere più divisa in te stessa, ma una sola persona in unità di vita”: parole che il ‘pastoralista’ Simone, faticherebbe a capire ed a praticare. Si sentirebbe de-moralizzato, privato delle sue certezze e riferimenti normativi. Vogliamo una pastorale capace di occupi delle fratture ecclesiali prima ancora di giudicarle in modo legalistico. Chiediamo una pastorale che accetti una diversa visione del ‘limite’: non in senso negativo e punitivo, richiamo a ciò che non puoi superare, ma stimolo ed opportunità creativa ad andare oltre. Una pastorale che operi non indicando quello che non puoi fare ma, al contrario ciò che ancora ti resta da superare, ciò che puoi fare, ciò a cui puoi arrivare.
Ci hanno insegnato il gesto del battersi il petto come atto di contrizione ed accusa dei peccati. Vogliamo rileggere pastoralmente questo gesto come atto di pressione sul petto alla stregua di un massaggio cardiaco spirituale, per risvegliare un cuore pastorale irrigidito e indurito.
Sia che tu taccia, taci per amore.
Sia che tu parli, parla per amore.
Sia che tu corregga, correggi per amore.
Sia che tu perdoni, perdona per amore.
Ama e fa ciò che vuoi
(Agostino d’Ippona)