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Pastorale e formazione esperienziale: idea o realtà?

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Tempo di lettura: 6 minuti

DAL FARE ESPERIENZE AD ESSERE ESPERIENZA

È interessante vedere in ambito pastorale pronunciare l’attributo ‘esperienziale’ all’annuncio di qualche nuova proposta. Detto con il sorriso fermo e la convinzione di chi prende le distanze da un passato concettuale e scolastico, per introdurre una novità saliente e risolutiva: formazione esperienziale, catechesi esperienziale, laboratorio esperienziale, itinerario esperienziale. Cosa intendiamo veramente per ‘esperienza’? Quali presupposti sono presenti nelle nostre proposte che possono derubricare quello che annunciamo come ‘esperienza’ in una mera attività?

Palazzo delle Esposizioni a Roma. Visito la mostra “Don McCullin a Roma” dedicata al lavoro di reporter del fotografo britannico Donald McCullin. Una targa introduce la prima sala dove si possono ammirare grandi foto di antichi ruderi di epoca romana presenti in Turchia, in Persia e ovviamente a Roma:

“Quelle colossali strutture di pietra di epoca romana risalenti a duemila anni fa mi riempivano di meraviglia, poi mi sono reso conto di come erano state realizzate. Tramite la crudeltà. Tramite la malvagità e la schiavitù. La loro incredibile realizzazione era frutto della brutalità. Mi hanno fatto pensare ai campi in Germania dove le persone lavoravano fino a stramazzare a terra. Nello stesso momento in cui la guardavo questa meraviglia mi veniva sottratta. Mi sembrava quasi di riuscire a sentire le grida delle persone schiacciate sotto quei pietroni enormi. Uno se ne va con sentimenti contrastanti, e sono emozioni che hanno un valore”.

 

Le ombre. Mi colpisce in quelle foto la onnipresente presenza delle ombre. Colonne d’ombra che occupano uno spazio fisico. Presenza immanente che grava sulle macerie o sulle rovine antiche. Si allungano, protese accanto agli scheletri di pietra morsicati dal tempo. In quell’ombra rileggo il senso di quella citazione. Il valore emerso da quella esperienza che lui ebbe nell’osservare quella tragica meraviglia. Una visione in grado di rompere il semplice sguardo descrittivo, analitico, permettendo a quel passato di venirgli incontro con un eccedenza di senso da lasciare nudi, spogliati dalle proprie ordinarie categorie di lettura. Un’ombra di sofferenza e dolore, come l’impronta di tanti sacrificati. La stessa ombra che forse un reporter ecclesiale tra qualche decennio fotograferà accanto ai resti dei nostri edifici ecclesiali. Oppure no, se l’esperienza si farà largo tra le nostre precomprensioni.

Trattare di ‘esperienza’ ci introduce ad un tema complesso e non si vuole in questo articolo analizzarlo in modo sistematico, ma ci si limiterà ad uno dei possibili percorsi interpretativi.

Il filosofo Walter Benjamin opera una interessante distinzione tra ‘esperienza’ ed ‘esperienza vissuta’.

L’esperienza vissuta è frutto del ricordo, è esperienza fatta, frutto di costruzione di una narrazione di sé di quanto accaduto. Atto di volontà soggettivo che fissa e si fissa in una maschera. Il soggetto intende conservare qualcosa di quanto accaduto e per farlo costruisce la sua memoria del mondo, con la conseguente perdita dell’esperienza stessa mediante una oggettivazione del passato.

L’esperienza, invece, è frutto di una memoria involontaria, è uno shock che ci mostra senza difese, nudi. È esposizione radicale, senza mediazioni o intercessioni che supera la pura dimensione individuale mettendola in crisi.

L’esperienza offre senso non tanto tramite il metodo causale scientifico, la valutazione tecnica di impatto, ma attinge da una storia collettiva per somiglianze, confronti dialogici. Non si va al passato per conoscerlo e pensarlo… sarebbe una appropriazione oggettivante di quanto avvenuto. È il passato che si fa incontro con prospettive impreviste e domande aperte. È dall’accadimento passato che può sorgere una domanda, un’interrogazione sul presente per aprire nuove possibilità. Per cui l’esperienza come incontro non è il risultato di una intenzione ma “l’effettività del darsi di tale incrocio”. È fuori dalla progettualità e dalla pianificazione.

Il fotografo Don McCullin è stato questa esperienza, non ha vissuto un’esperienza.

I concetti e le parole chiave di una epoca producono forme e modi di dire tipici di quell’epoca. Rappresentano il modo in cui una esperienza può avere luogo in essa. L’esperienza, tuttavia,  smaschera l’insufficienza di ogni linguaggio. Porta con sé un’eccedenza, un eccesso che non si cancella nella sua narrazione e porta con sé la promessa che qualcosa di nuovo può avvenire.

Altra caratteristica dell’esperienza che Benjamin sottolinea è il suo legame con la morte. Il morente acquisisce un’autorità unica nel poter narrare un’esperienza come eredità sapienziale. Possiamo estendere questo a quelle esperienze pasquali che ci troviamo a vivere, che forniscono autorità al testimone per divenire una voce che non è più solo sua. Per aver sottratto dall’aldilà del Vivente un frammento di verità. L’esperienza si lega alla soglia: un attraversamento, una porta di passaggio per accedere alla realtà. Più che una linea è una zona da abitare dove qualcosa avviene, deborda. È anche una sospensione della routine.

È risveglio da una condizione precedente, che permette di fare dell’incompiuto il compiuto (felicità) e del compiuto l’incompiuto (dolore). Depotenzia il dolore sospendendone il condizionamento che esercita nel vedere e percepire la realtà auto-narrata.

È una rottura che permette di mostrare il vero volto delle cose.

In un cambio d’epoca, non è di aiuto porci di fronte agli eventi da esperti. Con l’approccio di chi sa, che ha fatto esperienza e conosce e descrive, spiega. Il presente spiegato è punto di arrivo, per chi è già arrivato e invita gli altri a raggiungerlo senza muoversi oltre. Un po’ come i sapienti alla corte di Erode.

Eppure la formazione più che abilitare l’apertura al totalmente nuovo e altro, si preoccupa di proporre in un breve tempo tante esperienze per formare esperti. Pensiamo all’ansia nei seminari di proporre quante più esperienze possibili ai candidati al sacerdozio. Sapranno di certo indicare dove Gesù potrà nascere senza mai raggiungerlo realmente.

Perché la Chiesa è ‘esperta di umanità’! Così ci si definiva. Se ci guardiamo almeno un poco intorno, nelle nostre esperienze di vita comune, religiose, parrocchiali, non possiamo non sorriderne. Un sorriso amaro ma forse anche necessario e liberatorio.

Il perito è colui che tenta, prova, esplora, per cercare dentro le cose. Il presente è tempo di inizi. Ci consente, ci permette un altro ancora. Si cerca la differenza, il differenziale, la frattura instauratrice che un’esperienza è in grado di realizzare. È un eccesso che apre a nuovi inizi. Un po’ come i re magi che inseguono la stella per incontrare l’inizio degli inizi, colui che era presente fin dalla creazione del mondo.

Abilitare periti, più che formare esperti. È atto prima di tutto spirituale.

È proprio dello spirituale. La spiritualità infatti mostra un vuoto o, come direbbero i mistici, mostra cosa non è qui. Mostra un assenza che chiama e non una conferma. Non è insegnamento religioso.

La crisi dell’esperienza si ha nell’irrigidimento, nella fissazione dei gesti, nel ripetere uno standard, tipico di una logica funzionale. L’esperienza ci invita a liberare il gesto: non atto deliberato soggettivamente ma più frutto del divenire di una esperienza.

La spiritualità non è altro che la descrizione di questa esperienza, mette a fuoco una pratica mostrando il non ancora, il possibile altro, la differenza che c’è tra la sua configurazione storica e il presente… in quell’evento c’è un eccesso, un differenziale che proiettano il cristiano in una regione di nuovi inizi e rischi… è questo che caratterizza la spiritualità cristiana. Coglie un assenza, un vuoto e smuove.

La volontà di fissare è tentazione o pia illusione: “Là dove Dio è rivoluzionario, il diavolo appare fissista” (De Certeau), lui non ha un piano B. L’esperienza è violazione.

La madre di tutte le esperienze: Adamo ed Eva e la loro violazione. Varcano un limite e ne colgono le conseguenze sulla loro pelle. Consapevolezza, apertura al discernimento mangiando il frutto del Bene e del Male. L’esperienza è violazione dell’Eden, dell’esperito finora, del fatto, del già nominato e posseduto. È andare incontro alla morte… ‘altrimenti morirete’. È assumere la propria nudità, la propria umanità, indossando il vestito di pelle.

L’esperienza è invito ad un gesto. Oltre il gesto ordinario e standardizzato, funzionale e servo delle aspettative proprie e altrui. Un gesto che ci pone all’interno del ritmo delle cose, ci fa partecipare al loro accadere. Rispetto ad un gesto non liberato che si muove sopra o sotto le cose per maneggiarle senza conoscerle e penetrarle. Cambia la cadenza, il modo in cui le cose cadono, accadono. Permette la trasformazione di una forma e ci permette di prenderne parte.

Il nuovo ritmo definisce una rottura dell’apparente catena causale dove si annida una promessa di felicità. Diviene una modalità inedita di significazione della realtà. Permette di trasgredire la narrazione corrente. Capovolgimento. Come toccare il lebbroso, lavare i piedi del discepolo, frenare la spada, gettare le reti dall’altro lato… si determina una pausa, sospensione del noto, apertura ad un vuoto rispetto alla continuità, al concavo sul convesso.

Nella scena finale del film ‘Foglie al vento’ del regista finlandese Aki Kaurismäki, la protagonista compie un gesto semplice e innocente verso il suo amato, mentre questi esce dall’ospedale e girandosi verso di lei la fissa da ebete. Un gesto: un occhiolino. In quel gesto è racchiuso tutto il film. Dopo un continuo susseguirsi di eventi che hanno portato i due protagonisti a perdersi per ritrovarsi e ancora perdersi, quello strizzare di occhi è un inno alla vita ‘malgrado tutto’. È un ‘eccoci’, siamo qui, possiamo provarci. Non sappiamo quale strada si distenderà davanti a noi ma eccoci. Un gesto. La sua potenza sta nella sua asciutta essenzialità in grado di ribaltare il tutto quanto accaduto fin lì, la trama ostile della vita. È sberleffo al regista, al fato, all’essere del mondo, agli eventi e al dolore. È esigenza di felicità. Un occhiolino. È segno di resistenza, di lotta. Più di un sopravvivere. È esigere un’esistenza.