
Appunti processuali sulla speranza
Il primo gennaio, mentre mi recavo a piedi a vedere una mostra di pittura a Roma, incrociai lungo la strada un bambino e un anziano. Il loro passo era lento e ciondolante. Sul momento, trovandomeli di fronte tirai dritto, soprappensiero, per restare poi appeso al filo rosso che dalle mani del piccolo raggiungeva in terra una piccola chiazza rossa, tremolante sulle sue quattro ruote di plastica. Un’auto da corsa giocattolo grande quanto il palmo di una mano, rosso brillante, che incedeva sobbalzando sui sampietrini, strattonata ritmicamente dai passi del bambino. L’uomo di fianco al piccolo era un anziano signore che con una mano teneva quello che penso fosse suo nipote, e nell’altra una stampella. Uno strano incedere, strozzato dalla zoppia del vecchio e dalla tensione della macchina giocattolo mantenuta in quel precario equilibrio.
Non so perché, ma associai quell’immagine alla speranza. Più esattamente, associai alla speranza quella piccola macchinina rossa. Una speranza che ti segue alle spalle appesa ad un filo sottile ma sicuro. Una speranza che si incammina con te se gli dai tempo, se ne accondiscendi il ritmo. Con una mano alla speranza e una a chi ci è di fianco, traballare in questa presenza claudicante.
Quando furono oramai alle mie spalle mi voltai per scattare una foto. Mi accolse irriverente una faccia tonda e gialla stampata sul dorso della giacca del bimbo, che mi faceva la linguaccia. Irriverenza liberante da tutte le mie congetture.
Il futuro alle spalle
Lo scrittore Alberto Manguel nel suo scritto sul tradurre (Il rovescio dell’arazzo, 2024) ci racconta della popolazione Aymara presente negli altipiani del Perù e della Bolivia. Una popolazione con una diversa concezione del tempo rispetto a noi: ritiene che il passato ci sia di fronte e il futuro alle nostre spalle. Il tempo è movimento e viene interpretato in due modi: il tempo che passa come movimento del singolo individuo, oppure il tempo che passa come oggetto in movimento, come sequenza di eventi. Tutti gli eventi si svolgono lungo una linea infinita, quelli precedenti davanti a noi e quelli successivi dietro di noi. Il parlante si sente all’inizio di questa linea o in movimento ai suoi lati. Per gli Aymara si possono vedere solo i giorni passati, si può vedere solo il passato, ciò che è accaduto; non possiamo vedere il futuro che fluisce eternamente da un luogo sconosciuto. Hanno la consapevolezza di essere immersi nel fiume del tempo che scorre inesorabilmente e ha sorgente in un eterno sconosciuto.
Vedere il passato di fronte è vedere il visibile e non darsi ansia per un futuro che non è in nostro possesso. Come occidentali abbiamo un’opposta percezione del tempo. Le progressive sorti in faccia, il passato alle spalle obliato. Eppure, un diverso modello di costruzione della realtà determina una diversa disposizione alla vita e alla speranza.
Non cambia solo il rapporto con il tempo, infatti, cambia anche la possibilità di sperare. Avere un futuro davanti, sempre più imprevedibile, ingestibile, incalcolabile, mobile e diafano, porta più a disperare che sperare.
È diverso sperare in un futuro alle spalle che in un futuro ammusato di fronte.
La speranza è tratto filiale: si eredita
Vedere la speranza alle spalle e non di fronte. È come dover rispondere, direbbe Derrida, ad un’ingiunzione che viene dal passato ma che riguarda il futuro. La speranza è dietro per aprirci l’avvenire. C’è un passato di fronte che interpella un futuro alle spalle che sta per gemmare. La speranza è nell’atto che compio in questo istante, se aperto oltre il ‘per sé’. La speranza è nell’atto, è una pratica di presenza. È incorporata, accolta. Non è una idea o un concetto altrimenti sarebbe irreale.
Mi richiama quello che lo stesso filosofo francese scrive a proposito dell’eredità: si è eredi quando si ha la forza di ereditare ciò che è mancato, che arriva a me e non ha avuto ancora luogo. L’erede è chiamato ad una risposta da qualcosa che viene dall’avvenire. Non è tanto la trasmissione di un sapere ma un’ingiunzione che arriva da un altrove assoluto. Testimoniamo ciò che siamo in quanto lo ereditiamo.
L’eredità, anche se ci fa chinare sul passato e ci interpella dall’avvenire, avviene nella libertà filtrando, scegliendo, scegliendomi. Libertà come filiazione: essere liberi significa imparare ad essere figli di un passato che viene dall’avvenire, perché l’eredità è un compito che mi sta davanti. Per Derrida si tratta di una doppia ingiunzione: “bisogna in un primo luogo sapere e saper riaffermare ciò che viene ‘prima di noi’, e che dunque riceviamo ancora prima di sceglierlo, e di comportarci a questo riguardo come soggetti liberi. Che cosa significa riaffermare? Non solo accettare questo eredità, ma rilanciarla, altrimenti e mantenerla viva. Non sceglierla ma scegliere di conservarla in vita”. Una infedeltà fedele.
La speranza è partecipazione all’atto
La speranza è nell’atto, ma non è necessariamente nell’atto eclatante. È nella pratica quotidiana dell’essere oltre il limite dell’Io=Io. È un’urgenza del passato che cerca una sua attuazione. È Regno. Regno che grida, geme, invoca. Generando una sana inquietudine.
Non è nostra. È data la speranza. È virtù che viene da Dio e che chiede di essere partecipata.
Per Florenskji “La persona creata da Dio possiede una volontà libera creatrice che si manifesta quale insieme di atti, cioè come carattere empirico. La libertà dell’Io sta nella libera creatività del proprio contenuto empirico; il libero Io ha coscienza di sé come sostanza creatrice dei propri stati d’animo e non soltanto come loro soggetto gnoseologico: si sente causa efficiente e non soltanto soggetto astratto di tutti i propri predicati. l’Io può trascendere le condizioni dell’empiricità e in ciò abbiamo la prova della sua natura superiore, non empirica, natura che è data come un fatto dell’esperienza vitale della propria creatività” (da La colonna e fondamento della verità).
Per l’autore infatti, le nostre azioni se esprimono la natura empirica dell’uomo racchiudono in sé una forza spirituale dentro il corpo materiale dell’azione, corpo visibile di un’anima invisibile, simbolo.
La speranza è ogni passo, per parafrasare il titolo di un libro del monaco Thich Nhat Hanh. Non deriva, non precede, è. È nell’atto.
Nell’atto che apre e non chiude, nell’atto che opera una prensione sulla sostanza eternamente in divenire dell’Essere. È l’atto evento, singolare e unico. È esperienza presente. In questo senso è virtù teologale, in quanto Dio è nell’atto, è atto in divenire. Non è kenosis, è contratto nell’atto presente. Si dà in una traboccante generosità e agisce per creare le condizioni del bene e del bello. È realtà piena. L’infinito esiste necessariamente nel finito. La differenza infinita dell’evento è immanenza assoluta. È la casella vuota, secondo il filosofo Deleuze: ‘l’occupante senza posto’, il Dio in atto, che seppur implicato nell’evento è sempre in eccesso rispetto ad esso, sovrannumerario, in quanto processo.
Sperare in un Dio da salvare
È diverso sperare in un Dio che salva rispetto ad un Dio che chiede di essere salvato.
Nel suo Diario dal campo di concentramento, Etty Hillesum ci narra di un Dio che non è in grado di salvare l’uomo dagli accidenti della vita, ma che ognuno può salvare un pezzo di Dio dal proprio cuore e restare così profondamente umano, malgrado tutto! Disseppellire Dio dal proprio cuore e di quello delle persone che si incontrano. Essere per lui una casa, come un ricovero. Accogliendo quella fragilità è come se la propria si faccia più forte, salvandoci.
Disseppellire, dissotterrare, è il contrario di scavare, come ci ricorda nel suo ultimo saggio l’antropologo inglese Tim Ingold (Il Futuro alle spalle. Ripensare le generazioni, 2024). “Scavare è svuotare di contenuto un passato che si è depositato” mentre dissotterrare è recuperare una storia non compiuta del passato per proseguirla. Non è compito di analisi e archiviazione, (l’archivista per Derrida è opposto alla figura dell’erede), ma è un potenziale rigenerante che rivoltando il terreno (non scavando) riaffiora permettendo la continuazione della vita. E’ un’anarchivio.
Questo Dio è deposto negli strati della nostra storia. Chiede di essere salvato, in atto.
È il Dio debole e sconfitto del filosofo Quinzio (La sconfitta di Dio, 1992): “Dio ama, nella vita, non ciò che è forte e necessario, ma ciò che è debole e mortale, bisognoso di consolazione”. E questo secondo l’autore è possibile proprio perché, richiamando la riflessione sull’Angelus Novus di Benjamin, “il tempo scorre dal futuro, che sta alle nostre spalle e non vediamo, verso il passato che abbiamo perciò davanti ai nostri occhi”. Il Gesù che viene divinizzato mediante l’estrema umiliazione della croce, pone sul piano escatologico (come più nella tradizione ebraica rispetto a quella ellenizzante) la salvezza che viene dal futuro dando senso al già trascorso che vediamo di fronte a noi. È speranza nel divino divinizzato. Non si torna al punto di partenza, non si chiude nessun ciclo. È riappropriazione della croce come atto concreto – non filosofia astratta – e di discontinuità ultima, senza la quale non è possibile sperare contro ogni speranza, dissolvendo la logica ragionevole e immutabile dell’essere. “Il Dio che sceglie la debolezza, ciò che non è nei confronti di ciò che è, è un Dio separato da se stesso, lacerato nei confronti di ciò che costituisce la pienezza della propria divinità”. Lacerazione come mistero che troverà alla fine il suo compimento. Intanto questa lacerazione persiste come la sua sconfitta in tutto ciò che non è e chiede di essere salvato. “La parte di Dio è la sconfitta. Dinanzi all’infelicità dei poveri, dei cuori spezzati, viene meno in Dio la stessa giustizia e avanza in suo luogo la misericordia. Vuole salvare il povero non perché sia giusto, ma proprio perché è povero e infelice”. Per cui l’azione di Dio non è basata sulla previsione dei suoi effetti, in quanto altrimenti sarebbe un’atto di volontà su ciò che è rispetto a ciò che non è. Ma nel momento in cui sceglie di assumere ciò che non è, la debolezza sulla forza, il suo atto “è la libera assunzione di un rischio totale”. E in questo rischio siamo chiamati a sperare. In questo amore. Avrebbe senso avere fede o sperare se Dio avesse già vinto? Non occorrerebbe. Avremmo la certezza che non è la speranza, in quanto i giochi sarebbero già chiusi. E allora dovremmo chiederci perché questo dolore? Questa indifferenza da parte di un Dio immobile, del logos eterno? Sarebbe sola apparenza e non sostanza.
La fede acquista un senso proprio perché non è indifferente alla sofferenza e al dolore. “Per la fede, finché la fede sussiste, la tenerezza, la pietà, la speranza della salvezza, anche se fossero destinate al più grande scacco, sono piene di senso”. Sono anticipo, primizia, sostanza reale e immanente della realtà escatologica. “La fede è sostanza [è un modo di possedere già, TILC] delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono” (Eb 11,1). Salendo anche noi sulla croce “Il nostro sacrificio infonderà vita, risusciterà Dio. Dio che si è offerto a noi, che aspetta da noi la salvezza, è un Dio che dovremmo perfettamente amare”.
Speranza pastorale
Quale ricaduta tutto ciò può avere nella pastorale? Intanto richiama un diverso concetto di eredità. Una concezione liberante e generativa.
Ci aiuta ad uscire dal si è sempre fatto così, o ‘hai miei tempi si faceva’… cogliendo che non c’è un modo giusto o sbagliato ma un modo opportuno, in connessione con la vita in questo tempo e in questo luogo.
Per le realtà carismatiche che hanno avuto e conosciuto un fondatore o una fondatrice è un passo vitale. Passare dall’archivista all’erede, dalla fedeltà cieca ad una infedeltà generativa è un’atto di maturità che non tutti riescono a compiere confondendo la fedeltà con un conformismo ignorante.
Ci chiede un’uscita dall’ansia di pianificare e progettare tutto. Perché la speranza è alle spalle e non davanti. È nell’attenzione e non nella proiezione. È nella tensione e non nell’idea.
Illuderci che con un nuovo piano triennale o quinquennale possiamo rilanciare una pastorale che fatica a respirare, sarebbe uccidere la speranza tra qualche anno. Assaporare il gusto amaro della disillusione sulle labbra. Voler indossare l’armatura pensante di Saul per restare trafitti dall’arma del futuro Golia, invece di disporsi vulnerabili ma agili, ma vivi.
Come? Come essere attenti e aperti? Quali pratiche di speranza?
L’attenzione, anche qui richiamo il testo di Ingold, ha due aspetti: la sintonizzazione e l’esposizione. Sintonizzarci è notare le cose che possono essere di aiuto o di ostacolo al nostro agire, raccogliendo quindi informazioni per comprendere ciò che le cose ci invitano a fare. E’ apprendimento: mano a mano ci si sintonizza come la mano e l’occhio dell’artigiano su di una materia da lavorare. La sintonizzazione è dal versante dell’azione. L’esposizione invece si lega al subire i moti del mondo attorno. Esporsi è mostrarsi vulnerabili e attenti a lasciarsi stupire anziché starsene fissi su di un obiettivo. Vivere pienamente è frutto di questa attenzione, di questa alternanza tra il comprendere e il subire. Ingold ci ricorda, però, che l’esposizione precede sempre la padronanza, prima l’aspirazione e poi la prensione. Questo determina l’autenticità dell’atto, il suo divenire luogo di speranza. Se invece la previsione, il calcolo, il comprendere precede l’aspirazione, si ha una chiusura al possibile. Il futuro anticipato ma non realizzato mediante l’esposizione resta inatteso.
Si possono mettere in atto delle pratiche di speranza? Sì, perché la speranza è nell’atto. Nell’atto aperto e libero. Quando assistiamo alla restituzione narrativa di alcune sperimentazioni, vedi i volti, il tono della voce, il brillo degli occhi che parla tutto di speranza. Un tono e una luce che prima del cammino era annuvolata. Le sperimentazioni frutto di un discernimento sono pratiche di speranza. Sono l’esposizione ad una realtà per sintonizzarci ad essa e saperne corrispondere in modo efficace. Evangelizzare. Esporsi al Cristo vivente per poter operare su di esso una prensione in grado di generare un’atto liberante.
Spesso nella vita religiosa si parla di ridimensionamento. Ridurre le case, le comunità, le strutture. Il rischio è di ragionare sulla base di un futuro che è davanti e non alle spalle. Questo toglie energia, desiderio, perché i grafici, le proiezioni numeriche, le curve tra gli assi delle ascisse e le ordinate ci ordinano di ridurre. Chiudere delle comunità e al contempo aprirne una nuova che segua altre logiche, altri stili, che sparigli le abitudini, è una pratica di speranza.
Comprare il campo come avvenuto al profeta Geremia quando si trovava in prigione e attorno a lui è guerra e povertà. Comprare il campo è una pratica di speranza.
Entrare in questa prospettiva è anche agire mediante piccole comunità di discepoli missionari in grado di discernere. Comunità che vivano l’esposizione e la sintonizzazione, e facciano scelte come artigiani attenti alla materia a cui dare forma. Comunità che ritrovino lo stupore prima ancora che la soddisfazione della riuscita.
Pensare in chiave intergenerazionale quando in realtà nella pastorale non viene quasi mai fatto. Si hanno progetti per i giovani, per gli adulti e proposte o servizi per gli anziani. Quando abbiamo visto sperimentare piccole comunità intergenerazionali, di circa otto componenti, a cui affidare non solo la preghiera e la Parola ma anche una missione, un atto di speranza da compiere, è stato di grande arricchimento per tutti.
Prendo in mano il filo rosso di quella speranza. Cammino prestando attenzione. In compagnia di ciò che non è ma che chiede avvenire. Possiamo salvarci Dio. Io e te. Tu e noi. Tu con la tua stampella. La ferita lacerante si rimarginerà in ogni passo, in ogni atto di speranza.