
Dalla gestione del territorio ad una presenza vivificante
Seduto sul treno in partenza dalla stazione di Massa Carrara mi concedo uno spazio di silenzio prima di accendere lo schermo del mio computer. La prima luce del giorno è quieta, timida. Smalta le case e i campi di una leggera patina lunare. Una luce che non si attacca al paesaggio ma semplicemente lo lascia avvenire. Attende minuto per minuto di partorirlo ogni volta dal buio, lasciando sullo sfondo lo scuro ritrarsi. Chiazze di notte si attardano ai lati delle pareti, al di sotto degli alberi, sui bordi delle nuvole. La luce agisce per sottrazione, non si impone, non colora. Ma è costante, diviene, scorticando lentamente le tracce di notte fino a spengere i lampioni e ad accendere l’acqua nei canali. Alcune nuvole sembrano trattenere il sole, per clemenza, lasciando ancora la terra coprirsi il volto per non restarne abbagliata. Mi chiedo se questo agire per sottrazione, questa forza gentile di disappropriazione del mondo per lasciarlo emergere, possa suggerirci qualcosa.
Perché la parrocchia? Rappresenta ancora una forma di presenza sul territorio adeguata all’annuncio? Se ne può realmente fare a meno? La risposta più frequente è richiamare il passo di Evangelii Gaudium dove si dice: “La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità” (EG 26-28). Cerchiamo allora di analizzare questa affermazione. La parrocchia è una struttura che può assumere molte forme diverse. Per forma intendiamo la determinazione di un discorso ecclesiale che va a definire il ruolo di alcuni soggetti, fissa dei tempi, indica dei compiti, si caratterizza per uno stile. Quella che conosciamo oggi è una forma caratterizzata dalla guida di un presbitero con dei collaboratori che gli danno una mano nelle mansioni operative; una forma che concentra in sé la vita di fede delle persone di un determinato territorio, sentendosi come l’unica autorizzata e designata a organizzare e accompagnare esperienze di fede nelle sue diverse forme (preghiera, lectio, annuncio,…); una forma ben organizzata dove la vita dei suoi partecipanti è programmata da una agenda fitta e dettagliata di corsi, eventi, orario di ufficio per i vari servizi. Questa rappresentava la forma opportuna di quando vivevamo in un epoca di cristianità, in cui la religione cattolica costituiva la cultura di fondo di tutta la popolazione italiana. La parrocchia era per un paese un’istituzione imprescindibile sul piano dell’inculturazione degli individui con il relativo senso di appartenenza ad un determinato luogo. Questa è stata ed è ancora la forma di parrocchia che abita nelle nostre menti. La frase di Papa Francesco ci parla di un carattere plastico della parrocchia in grado di permetterle di assumere ‘forme molto diverse’. Diverse in uno stesso territorio, diverso in uno stesso tempo, diverse tra territori e in tempi diversi? Personalmente sono per assumere tutte queste ipotesi come valide, sempre se sapremo essere in grado di modificare il discorso sottostante che le genera.
I pensieri guida
Gli immaginari culturali che abitano i nostri pensieri sono ancora caratterizzati dalle rappresentazioni che si sono nel tempo imposte: la fontana del villaggio (Giovanni XXIII), casa tra le case, famiglia di famiglie,… non ci interessa qui la definizione del diritto canonico. Ci interessano i modelli culturali interiorizzati, il discorso che se ne fa e che rende visibile solo una forma, quella che conosciamo. Il linguaggio attuale cerca di rendere questa istituzione sempre più simile ad una famiglia, categoria essa stessa frutto di un discorso e quindi caratterizzata da una cultura e da un’epoca. Eppure il pensiero sottostante, il pensiero guida non visibile è quello della gestione. La diocesi e la parrocchia sono enti che hanno il compito di gestire – più che custodire la cattolicità in quanto autorità apostolica – la fede in un dato territorio con tutte le implicazioni pratiche che questo comporta. Non ci si percepisce come una istituzione tra le tante, impensabile in passato. Tutto ciò che è altro gravita intorno alla parrocchia: religiose e religiosi, associazioni, movimenti, istituzioni. Un centro che però ha perso la sua forza gravitazionale e rischia di restare isolato e nell’indifferenza dei più. Le implicazioni sono anche di natura economica, il peso della dimensione amministrativa. Anche su questo ci possono essere soluzioni ma fuori da quel discorso.
Questo pensiero guida determina anche lo spaesamento e l’affaticamento di molti ministri. Quanto è presente nella testa dei presbiteri, più o meno inconsciamente, l’affermazione “Il risultato della parrocchia dipende da me che sono il parroco”? Se la parrocchia va bene sono bravo, se va male ne sono responsabile. Al di là degli aspetti teologici che questo implica, un parrocco non è la parrocchia. I risultati non possono, anzi, non devono, dipendere da lui che prima o poi dovrà trasferirsi in un altra comunità. La sposa è la Chiesa non la parrocchia. Mi risuonano in testa le predicazioni di Maurice Zundel fatte a Paolo VI e alla Curia romana nel 1972 per gli esercizi spirituali: “La sociologia sacramentale comporta la comunicazione totale ad ognuno del Bene che è la vita di tutta la comunità. Questa vita, che è eminentemente personale, poiché è Cristo in persona, infatti può essere ricevuta solo da persone alle quali essa si offre necessariamente nella sua intimità indivisa e non com oggetto del quale ciascuno potrebbe prendersi un pezzetto. Sotto questo aspetto ogni membro della chiesa la porta interamente, ciascuno ne è il centro, ciascuno ne è totalmente e ugualmente responsabile. […] Il sacerdozio ministeriale non si oppone al sacerdozio universale del popolo di Dio né lo restringe in nessuna maniera, poiché mira soltanto a suscitarlo, facendo di tutta la comunità ecclesiale il ‘corpo’ di Cristo, attraverso la permanente comunicazione della presenza del Signore che la costituisce”. Un ruolo di custodia della evangelicità e cattolicità dell’agire di quella porzione di Chiesa e di animazione di quel Popolo di cui è parte.
Andare oltre
Provare ad immagine nuove forme di parrocchia è difficile e rischia di essere poco produttivo. Perché saremmo sempre condizionati dalla nostra esperienza, la quale è niente altro che la derivazione dei discorsi dominanti di cui abbiamo discusso sopra.
Usciamo quindi per un attimo dalla riflessione sulla parrocchia perché rischieremmo di restarne invischiati per tutto il carico storico e culturale ad essa collegato. Torniamoci alla fine, come conseguenza più che come premessa. Proviamo a prendere la riflessione da un’altra prospettiva. Cosa poter garantire all’interno di un territorio indipendentemente dalla forma ecclesiale presente in essa?
Sono tre le domande che mi pongo:
- Come mi prendo cura di portare il Vangelo a tutti?
- Come mi prendo cura delle povertà presenti in questo territorio?
- Come mi prendo cura di garantire la grazia sacramentale a tutti coloro che ne fanno richiesta?
Portare il Vangelo in quel luogo. Creare legami significativi di comunione. Poter accedere ai sacramenti per tenere vivo il fuoco in me. Vivere la prossimità anche nella carità reciproca.
Questo è ciò di cui, nelle forme più diverse, secondo la creatività che suggerirà lo Spirito per quel determinato luogo in quel determinato tempo, sono chiamato come Diocesi a farmi carico. Il riferimento sullo sfondo è sempre quello del territorio, perché penso sia quello che oggi è più realisticamente comprensibile e accettabile. Non un territorio visto come spazio da gestire e controllare ma da animare e sviluppare.
Questa riflessione ci costringe anche a rileggere i pensieri sottostanti certe affermazioni che diamo per scontate. “La Chiesa esiste per evangelizzare”. Niente di più vero ma cosa si intende per evangelizzare? Portare a tutti e diffondere la Parola? Oppure mettere a contatto la Parola con ogni persona affinché la forza trasformante e liberante del Cristo possa agire in lei? Un conto è l’azione pedagogica e formativa che determina molti dei servizi pastorali, un conto è un’azione animativa, di apertura a se stessi e all’altro, alla vita piena che prende avvio dall’interno e non dall’esterno del soggetto.
In questa logica di ripensamento sono chiamato a prendere prima in considerazione tutto ciò che quel territorio presenta. Ci sono dei religiosi o delle religiose? Ci sono laici o diaconi o ministerialità? Quali strutture ho a disposizione per incontri, per celebrare, per la vita comune? Quale team o quali team posso generare per prendermi cura di questo territorio rispetto alle domande poste sopra?
Fare ritorno
Si tratta di ripensare profondamente la nostra presenza nel territorio. La parrocchia sarà il nome che daremo a questa composizione. Alla matassa annodata ma palpitante di nessi che si andranno a costituire.
Poi ci si chiederà giuridicamente come gestirla. Il diritto segue sempre la vita e i suoi processi, interviene dopo per regolarla e custodirla. Ma non è questo il primo cruccio altrimenti si continua a girare in tondo a qualcosa che non può dare prospettive, assecondando logicamente il discorso pastorale dominante.
Proviamo ora a tornare alla parrocchia e ancor prima alla Diocesi. Posso pensare il territorio diocesano come delle aree di vita. Delle aree di vita dove poter rispondere alle domande poste sopra e dove la gente si muove e trova ciò di cui ha bisogno e dove possa esprimersi e crescere. Non ricadiamo però nel fare questo nella ‘vecchia forma’ delle Unità Pastorali o simili. In quella Area di vita mi chiedo prima di tutto cosa c’è e cosa manca. C’è una presenza di religiosi, di associazioni, di luoghi di culto e di incontro?
Questo muterebbe anche l’atteggiamento che la Chiesa locale ha verso la vita religiosa, tradizionalmente vista come aiuto e supporto, in quando è la diocesi che ha potere e diritto di gestire quel territorio. Posso chiedermi quale azione può sostenere questa presenza in quell’aria di vita, riflettendo insieme attorno allo stesso tavolo, per garantire l’annuncio, i sacramenti e la carità. Senza sovrapposizioni o concorrenza. Non basta collaborare!
Il treno prosegue la sua corsa e, prima di iniziare a lavorare, mi attardo al finestrino. Ci sono istanti in cui basta scorgere e inseguire l’occhieggiare dei riflessi di luce di un uccello in volo, nel suo distendere e ritrarre le ali e tutto è pieno, tutto è giallo. Sento salire da dentro un impulso di vita che spinge. Che chiede di essere accolta e niente più.