
PERCHE’ QUESTO AVVENTO NON SIA UN TEMPO DI ATTESA MA UN TEMPO ATTESO
Propongo una riflessione che ieri sera ho avuto modo di condividere con gli amici del Centro Oratori Romani, che stanno intraprendendo un importante e significativo processo di cambiamento pastorale. Una riflessione che ci introduce al tempo di Avvento come tempo opportuno per promuovere segni di rinascita e di liberazione.
Stiamo per entrare in Avvento. È terminato un anno pastorale e ne sta iniziando un altro che abbiamo compreso non sarà un anno ordinario, dove poter proporre ciò che siamo stati finora abituati a fare.
Ma oggi abbiamo bisogno più di avventi che di eventi.
Oggi la vita sempre più è scandita da eventi. Appuntamenti, iniziative, programmi. Abbiamo la fortuna di disporre di strumenti che ci mandano notifiche per ricordarci di questi eventi, per guidarci verso di loro, per anticiparli se necessario con lo sguardo o la parola.
Cosa è un avvento? Non è un accadimento programmato, non è la destinazione di una scelta individuale che va a chiudersi in un determinato punto geolocalizzabile. Ma è un’esperienza di apertura, di ricreazione che ci viene donata. È un dono insurrezionale, paradossale, impertinente perché manda a carte quarantotto tutti gli eventi in programma. Ci costringe ad uscire. Ci provoca e ci invoca per assistere a qualcosa di nuovo, una novità che ha il sapore della vita. Ci apre alla vita e alla realtà in un modo letteralmente nuovo e diverso. Spiazzante. Abbacinante.
L’avvento è un esperienza di apertura alla vita e alla realtà. È un’esperienza di connessione, relazione, annodatura intorno ad un prisma lucente che frammenta la notte in uno spettacolo di raggi di bellezza, di misericordia, di bontà, di gentilezza, di tenerezza, di attenzione. È lì che tocchiamo la speranza come dimensione carnale, non ideale, perché la possiamo toccare, annusare, gustare, sentire vibrare dentro e raggiungere nel profondo un prisma piccolo ma potente custodito nella nostra natura. Che inizia a vibrare, tremolare, oscillare, sempre più intensamente in un silenzio che è sguardo. Occhi veri, aperti, pieni che invocano e ringraziano e chiedono.
Non è funzione, ma relazione. Non è luogo, ma presenza. Non è spazio, ma tempo.
E che c’entro io?
Ognuno di voi è una missione. Questo è il primo dato. Non avete una missione siete una missione.
Ognuno di voi è chiamato a riflettere e incarnare un brano del Vangelo nel mondo, far riflettere nel mondo un frammento di quel prisma. Che è nascere morire e risorgere con Cristo. Questo è essere missione. Perché Gesù è la missione di Dio per l’uomo. È il Gesù in noi che ama attraverso di noi.
Siete l’angelo che nel quartiere bistrattato di Roma o in quello fighetto, appare agli ultimi come ai pastori a Betlemme e dice: “non temete, ecco, vi annuncio una grande gioia che sarà di tutti i popoli” …. Che è l’invito di Gesù in Galilea dopo la resurrezione, il Grande Mandato: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28, 19-20). Che è l’invito di Canepa, vostro fondatore: “cristianizzare le masse”. Gesù aggiunge: io sarò sempre con voi, possiamo parafrasare, io sarò sempre in voi.
Laddove non c’è un oratorio si tratta allora di creare un Avvento. Non un evento ma un avvento. Perché gli eventi animano uno spazio, sono in funzione di una scelta educativa programmata ma un avvento anima la vita, è per la relazione, per la guarigione e la liberazione, è per un tempo nuovo e un cielo e una terra nuovi.
Scusate non voglio qui usare paroloni o mitragliarvi mezzora con frasi ad effetto. È che quello che c’è in gioco è una questione di visione, di sogno. È essere audaci e creativi per cui essere visionari. Gli oratori sono nati da visioni, quella di Filippo Neri, don Bosco, Canepa… Quello che voi state facendo è insurrezionale e audace, non state facendo un gioco tattico, un adattamento tecnico del Cor. Non è tattica cioè, non è problem solving ma cambio di strategia.
Quella che il Papa ci ha chiesto in EG al n. 15: “Missione come paradigma di ogni opera della Chiesa”. In questa frase c’è lo stimolo rivoluzionario che Papa Francesco fa alla Chiesa universale. Non si limita a dire alla pastorale di assumere uno stile missionario o di prendersi cura della missionarietà accanto alle altre attenzioni. E’ molto di più. E’ trasformare tutto dentro la dinamica missionaria.
È l’inizio del capitolo 1 di EG: La trasformazione missionaria della Chiesa. È la vostra mappa.
E la dinamica missionaria parte dal lasciare la propria terra, per poi alla fine saper lasciare anche il luogo in cui si è stati inviati. Vuol dire viaggiare con una tenda e non edificare strutture, andare leggeri senza trattenersi e senza trattenere. Perché è dinamica di libertà e di liberazione. Ma non si lascia per lasciare, si lascia in nome di una promessa, di un sogno. Per fare questo occorre prendere l’iniziativa, non aspettare ma mettersi in moto per amore. È questo il combustibile che mette in moto l’azione… non è l’agitazione del fare ma l’ansia di amare. Si lascia affinché si manifesti un avvento, quello che state iniziando ad intraprendere e che vi sta già attendendo oltre i vostri passi.