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COSA È SUCCESSO REALMENTE NELLA SECONDA ASSEMBLEA SINODALE

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Tempo di lettura: 6 minuti

Quando i processi mettono in crisi i progetti

Non si è ancora esaurito, almeno speriamo, l’eco di quanto accaduto nell’ ultima recente assemblea sinodale della Chiesa italiana, tenutasi poche settimane fa. L’assemblea aveva il compito di operare le ultime correzioni alle proposizioni frutto del cammino di questi ultimi tre anni, e soprattutto votarle con il più ampio consenso possibile. Nelle intenzioni dei vertici, quella doveva essere la seconda e ultima sessione di confronto: una via di mezzo tra un passaggio obbligato ed un ‘atto dovuto, una ‘celebrazione rituale’ in buona sostanza.

Non puoi girare il vento, allora gira la barca

Non è andata così, come sappiamo. L’assemblea ha sì ‘licenziato’ le proposizioni a larghissima maggioranza, ma per rispedirle al mittente, chiedendo una completa riformulazione del documento. Il testo consegnato ai partecipanti è stato giudicato superficiale, non incisivo e soprattutto non rispettoso di quanto emerso dal dibattito che lo aveva preceduto. Si è parlato al riguardo di assemblea ribelle, di malcelati mal di pancia rispetto alla sintesi offerta e di aperta contestazione alle autorità.

Il comitato preparatorio, a sua volta, ha reagito esibendo un coraggio rasentante la sfrontatezza. Per correre ai ripari, è in un primo momento intervenuto sulle prassi: dopo aver compreso che l’assemblea non recepiva il documento nel suo complesso e non solo in alcune parti, ha prospettato ben due mezze giornate (!) per lavorarci. Quindi, intuito che la pezza era peggiore dello strappo, ha ripiegato sul versante della narrazione, tentando di dare la colpa all’assemblea stessa perché non in grado di recepire lo stile espositivo delle proposizioni.

Se non sai uscire dal problema, sei parte del problema

Benché eclatante e scoraggiante, l’esito non avrebbe potuto essere diverso: ognuno ha agito e reagito con gli strumenti che aveva in quel momento a disposizione. Eppure, potremmo dire che sarebbe bastato tener presente che l’assemblea stava operando in un contesto di cambiamento e di apprendimento, proprio ciò che l’esperienza sinodale intende attivare e alimentare.

Sarebbe bastato ammettere una cosa molto semplice: “Ancora non siamo capaci, ma siamo sulla strada giusta”. La Sinodalità mette in gioco l’umiltà: solleva dalla necessità di dire l’ultima parola, di fornire la versione finale ‘corretta’, anche dall’ansia di rassicurare.

Bastava rendersi conto che lo spirito sinodale opera per processi e non segue la classica logica progettuale e prendere atto che – come è normale – ancora non sappiamo come gestire dei processi sinodali e che fa parte del processo l’apprendere per errori.

Sarebbe stato sufficiente considerare che una assemblea sinodale avente per tema la sinodalità, si aspetta di lavorare non sulla sinodalità ma dentro uno stile sinodale. Non si trattava di sintetizzare e votare dei contenuti (proposizioni) ma di proseguire nel processo sinodale.

Non aver saputo riconoscere la difficoltà e momentanea indisponibilità a comprendere questi aspetti, in quanto ancora inevitabilmente legati a cornici di riferimento e modelli del passato, ha così finito per creare brutti corto circuiti, portando alla necessità di rimandare tutto. Ma questi corto circuiti sono naturali e auspicabili nei processi di cambiamento, per cui vanno intesi come dinamica sana e non problematica.

 La nuova pastorale tra prassi, rituali e narrazioni

Quanto accaduto nei giorni assembleari è decisamente interessante e non andrebbe liquidato come ‘incidente di percorso’: al contrario esso evidenzia plasticamente lo scontro tra due paradigmi. Proviamo a fornire allora alcune categorie di lettura, ringraziando Fabrizio Carletti del confronto e dei preziosi spunti offerti.

Vi sono due diverse cornici di senso e riferimento al momento copresenti nello scenario ecclesiale: uno pre-sinodale, espressione dei modelli pastorali e formativi utilizzati negli ultimi decenni, un approccio basato sulla classica impostazione pastorale per progetti, centrata sulla catena ‘obiettivi-ottimizzazione risorse-risultati’; ed uno più recente, sinodale appunto, che inizia a farsi largo in questi ultimi anni e che mette in evidenza la centralità dei processi, della comunionalità, della condecisione.

In quanto paradigmi, essi offrono una cornice di riferimento che nel tempo e attraverso le esperienze diviene un modello interiorizzato cui attingere senso e criteri,  ma del quale si è relativamente consapevoli. Parliamo di paradigma come ‘cornice’ in quanto esso si caratterizza per avere al suo interno tre elementi chiave: delle prassi operative ed organizzative, messe in atto in funzione di ottenere o realizzare qualcosa; dei rituali che agiscono come ‘collante’, garantendo senso di appartenenza e reciproco riconoscimento; delle narrazioni, che rileggono quelle prassi e rituali fornendo loro legittimazione e motivazione ad operare e relazionarsi all’interno di questa cornice.

Questi tre elementi (prassi-rituali-narrazioni) costituiscono nel loro insieme un modello che si situa all’interno di un sistema che, grazie  alla cornice di riferimento, ordina e rende coerente ed in equilibrio il tutto. Va detto inoltre che queste tre componenti sono tra loro in stretta relazione, influenzandosi a vicenda. Si pensi al passaggio da parrocchia a Unità o Comunità pastorali, oppure alla catechesi della iniziazione cristiana e come un cambiamento in uno di questi aspetti finirà per modificare anche gli altri. Si pensi, ancora, alla pastorale giovanile e oratoriana: il cambiamento nella gestione delle strutture (prassi) cambia il ritmo e tipo di attività (rituali) e come l’oratorio viene raccontato (narrazione). E viceversa. Ciò che non viene toccata è la cornice fondativa di riferimento, almeno fino a che permane un equilibrio tra queste componenti. Una cornice di riferimento ed il relativo sistema ‘prassi-rituali-narrazioni’ mantiene la sua validità fino a che maturano dei cambiamenti che rendono la cornice non più sostenibile. A quel punti subentra una nuova cornice, un altro paradigma in grado di operare meglio della precedente.

Il cambiamento è l’emergere di una nuova cornice di riferimento

Non si cambia dunque cornice per il gusto di cambiare, per curiosità o assuefazione. il cambiamento è spinto dal cambiamento, e non dobbiamo dimenticare che stiamo vivendo un cambio d’epoca.

Operare un cambiamento della cornice, del paradigma all’interno del quale si opera, richiede un altro approccio, non più esposizione-assimilazione ma esperienza-narrazione: si tratta di un modello trans-formativo. Questo approccio non si limita a preparare delle persone a svolgere con competenza e motivazione il loro compito, ma desidera generare in esse un profondo cambio di prospettiva, aiutarle a vedere e sentire qualcosa che prima non erano in grado di sperimentare.

Per generare e sostenere questo cambiamento non è sufficiente una buona esposizione teorica, in quanto il soggetto è ancora abitato da categorie e strumenti interpretativi del precedente paradigma, ai quali riporterebbe tutto quanto. Occorre porre la persona, come pure la comunità, all’interno di una esperienza in grado di destabilizzarla: occorre interrompere le routine interpretative, liberare gesti, e da lì far scaturire un nuovo senso Questo agire  richiede tempo e ripetizione, per generare nuove prassi, rituali e narrazioni, finché il soggetto non sarà abilitato a guardare con occhi nuovi la realtà e ad interagirvi in forma diversa.

Per meglio intenderci pensiamo, come esempio, ai processi formativi. Alcuni di essi si concentrano sulle prassi, per accrescere la competenza dei soggetti nel loro servizio. Altri sui rituali, per sottolineare i legami, garantire la continuità e la coesione. Altri, infine, sulle narrazioni, per fornire la trama di senso di questo agire, e motivare le persone nello svolgerlo. Queste tre dimensioni sono co-presenti in varia misura in una stessa proposta formativa, in modo più o meno esplicito. Ad esempio, la componente rituale potrebbe essere veicolata attraverso l’uso di immagini, loghi, canti, espressioni che abbiano una particolare rilevanza per quella comunità, senza che siano esplicitati nel programma del corso. Questo approccio formativo ricalca il modello esposizione-assimilazione, in quanto l’obiettivo ultimo è aiutare i destinatari a fare proprie prassi, riti e narrazioni caratterizzanti una certa cornice.

Cambiare non è dichiarare ma rompere gli equilibri

Questa riflessione sulla formazione non è distante da quanto avvenuto nel cammino sinodale. Di fondo, il cammino stesso voleva rappresentare un processo trasformativo che portasse a ‘divenire sinodali’, e non un progetto formativo sulla sinodalità – anche se più volte ha rischiato di ridursi a questo.

Torniamo così all’Assemblea di fine marzo. Esiste sempre un legame fra il ciò che succede e il come succede tra le diverse componenti di un sistema. La reazione dell’assemblea è indice che la sinodalità per via esperienziale sta generando piano piano un cambiamento, sta innervando le menti, i cuori e la volontà del Popolo di Dio.

I partecipanti sono arrivati in un luogo dove hanno riconosciuto i rituali (tavoli circolari, canti e preghiere, gruppi misti …), hanno riconosciuto le narrazioni (termini e linguaggi usati nelle introduzioni e saluti) ma hanno trovato incoerenti le prassi: un documento su cui lavorare non prodotto in stile sinodale e non rispettoso del lavoro fin al momento sinodalmente sviluppato. Questo ha prodotto inevitabilmente un corto circuito interno all’impianto dell’assemblea, uno strappo che si è maldestramente cercato di ricucire. Fa sorridere pensare alla proposta di due mezze giornate di lavoro aggiuntive a fronte della messa in discussione generale del documento e non ad osservazioni mirate. Eppure, la cornice di riferimento in quel momento, basata sul rispetto delle scadenze, non avrebbe potuto essere diversa, consentire altre prassi.

Su questa stessa linea si può capire anche la giustificazione narrativa finale del vescovo Castellucci al termine dell’Assemblea. Anche qui viene da sorridere ma sarebbe stato difficile pensare una reazione diversa. Perché? Perché non ci si stava rendendo conto che il conflitto riguardava non lo stile linguistico ma un livello più profondo, quello della cornice fondativa.

Oltre l’adesione strumentale al cambiamento

Il precedente paradigma non è stato ancora scalzato, ancora non siamo una Chiesa sinodale ed è normale che sia così. Questi processi richiedono molti più anni. La cornice fondativa sinodale si basa su un chiaro e consapevole esercizio della corresponsabilità, del discernimento comune, dell’ascolto profondo, del dialogo e dell’incontro con tutti, del non chiudere ma mantenere incompleto l’agire e tenere vive le tensioni (criteri esposti nell’Instrumentum Laboris del cammino sinodale universale del giugno 2023).

Si stanno sperimentando delle prassi, delle narrazioni, e dei rituali ancora dentro la cornice fondativa precedente, dove la componente gerarchica, direttiva, progettuale, gestionale e prestazionale ancora abita le nostre menti e i nostri gesti.

Il cambiamento introdotto dalla nuova cornice di riferimento sinodale non stravolge ma trasforma: rilegge le stesse situazioni con premesse prospettive diverse. Un bagno di realtà che purifica e rende liberi, così da procedere passo passo verso una nuova esperienza di Chiesa, sapendo già che ci saranno altri intoppi figli della non ancora acquisizione dell’habitus sinodale.

Qualcuno la chiama ‘conversione’.