
ALZARSI DALLA PANCHINA E CAMBIARE PARTITA
Una risposta all’articolo uscito il 21 febbraio su Avvenire dal titolo “La pandemia educativa. Sport e oratori messi in panchina” dove sembra emergere una preoccupazione a racimolare denaro dallo stato per tenere in piedi un approccio allo sport in oratorio che non sembra più rispondere alle esigenze pastorali attuali.
“Le idee sono il capitale. Il resto è denaro”. Così recitava qualche anno fa la pubblicità di una importante banca. Quella banca aveva colto intelligentemente che – benchè essa lavorasse con il denaro – la sua prosperità e solidità non era data dal danaro ma dalla sua fertilità ideativa: il denaro genera denaro, ovvero lavora sul presente; le idee generano speranza, ovvero lavorano per il futuro.
Questo slogan mi è tornato alla mente leggendo il recente articolo “La pandemia educativa. Sport e oratori messi in panchina” in Avvenire del 21 febbraio scorso (https://www.avvenire.it/attualita/pagine/sport-e-oratori-messi-in-panchina), dal momento che vi si affermava l’esatto contrario: il denaro è ciò che conta, il resto si vedrà.
L’articolo riporta crudamente il netto calo subito dall’associazionismo sportivo di matrice cattolica in termini di affiliazioni, introiti, attività a motivo della pandemia, e le conseguenti gravi difficoltà e condizioni in cui versa, denunciando la discriminazione ed il disinteresse degli organismi federali nazionali e della politica più in generale. “Il Covid ha lasciato il segno anche sulle piccole realtà di volontariato cattoliche che da sempre mettono soldi e fatica al servizio dei più giovani, nel tentativo di garantir loro spazi e tempi dedicati a sport e tempo libero”.
Tutto vero. Ma il punto non è questo. Il punto è (far) credere che questo sia tutto e che sia la cosa più importante: tanta fatica e pochi soldi, appunto, sono i dati che contano, non l’aver trascurato, ormai da anni, idee e visione.
SPORT E ORATORIO, QUALE PARTITA?
Questo modo di ragionare mette a nudo la scelta di adottare criteri quantitativi ed organizzativi nell’approccio allo sport, anche di quello giovanile. Il criterio di verifica chiave per l’associazionismo sportivo di matrice cattolica sono i numeri e non la crescita formativa, non diversamente dagli altri enti e federazioni sportive.
Al di là del grido di dolore di risorgimentale memoria, questa impostazione evidenzia la resa ad una posizione sulbalterna, ancillare rispetto ad un certo modo di promuovere lo sport di base, anche quello che intende ispirarsi alla visione cristiana dello sport.
Lo sforzo di entrare dentro il sistema sportivo e le sue logiche economico-normative ha finito per creare omologazione invece che emancipazione, impedito l’elaborazione di una possibile visione alternativa dell’esperienza sportiva. Non a caso il problema diventa quello di garantire efficienza (adeguamento vincoli normativi, reperimento e organizzazione di volontari).
E quando la situazione si fa dura, quando i ‘trenta denari’ dello Stato tardano ad arrivare, ci si rende conto di essere inermi, nudi, incapaci di immaginare nuove visioni sportive. Peccato.
E’ colpa della pandemia, ci si sente rispondere. Anche questo è vero ma parziale: certamente la pandemia mette in grave difficoltà lo status quo, le tradizionali prassi cui ci si era abituati. Essa tuttavia rappresenta nel contempo una occasione unica e irripetibile per riflettere e attivare il cambiamento, una opportunità di ‘purificazione’ dalle scorie e da condizionamenti e compromessi passivamente accettati, l’occasione di fare pulizia nel rapporto tra associazionismo sportivo cattolico e oratori. Questo rapporto è diventato, seppur inconfessabile, tendenzialmente opportunistico e strumentale.
Gli oratori cercano nello sport una via d’uscita per tamponare l’emorragia di ragazzi e giovani; le associazioni cercano negli oratori una possibilità di sviluppo e sostegno. Al di là della grande onestà e buona volontà, assistiamo ad un ‘matrimonio di interesse’ più che d’amore, dove l’uno cerca di risolvere i suoi problemi grazie all’altro, e viceversa. E quando ciò accade si cerca di andare d’accordo, sostenersi a vicenda, mantenere l’equilibrio: non certo mettersi a pensare, innovare, distinguersi, formarsi.
UN MODO DIVERSO DI SCENDERE IN CAMPO
E’ possibile per contro credere che le difficoltà di oggi possono diventare la speranza per il domani. Se così non fosse il rischio di implodere e di finire seppelliti dalla pandemia diventa molto elevato.
Se la visione cristiana dello sport vuole essere significativa e non solo un esercizio retorico, essa è chiamata a raccogliere con gioia, senza ansia da prestazione, sfide che possono sembrare inimmaginabili e provare a cambiare orizzonti.
In altre parole, non reagire alla pandemia con nostalgici e illusori tentativi di adattamento organizzativo ma farsi interprete di nuove visioni del rapporto persona-sport-comunità-ambiente. Più ancora, oratori e associazionismo sportivo cattolico sono sollecitata ad essere ‘profetici’.
Chi oggi ritiene che, stante la crisi in atto, la priorità sia risolvere i problemi è in ritardo, quando non ingenuo. Non si tratta di esercitare il problem solving ma il problem setting, ovvero saper individuare e porre le giuste domande. Non si esce dalla ‘pandemia sportiva’ restando a livello del ‘cosa’ o del ‘come’ ma mettendosi al livello del ‘perché’, del saper chiedere e dare senso alle questioni, senza dare per scontato (regole, assetti, priorità, attività) ciò che scontato non è più.
DAL CONTROLLO ALLA LEGGEREZZA
Il ‘salto alla Fosbury’ è un bell’esempio di cosa significa cambiare radicalmente prospettiva ed atteggiamento, ovvero passare da una visione del mondo di un certo tipo – fino a quel momento data per scontata – ad una diversa visione, che ribalta le precedenti certezze.
Come molti ricordano, sorprendendo tutti ai Giochi olimpici del 1968, Dick Fosbury vince la medaglia d’oro nel salto in alto grazie ad una tecnica rivoluzionaria, ovvero superando l’asticella di spalle e non con lo scavalcamento ventrale fino ad allora in uso.
Il salto dell’asticella non avviene più grazie ad una spinta esplosiva delle gambe ma distribuendo il peso su tutto il corpo; non con lo scavalcamento verticale ad angolo quasi retto ma grazie ad una rincorsa a traiettoria semicircolare obliqua; non fronteggiando l’ostacolo ma voltandogli le spalle; non con lo sguardo verso il basso ma diritto verso l’alto, oltre l’asticella; non il più forte, ma il più agile…
L’impressione, dal nostro punto di osservazione, è che il mondo sportivo legato agli ambienti cattolici stia in larga misura ancora adottando una modalità di salto che ha dato buoni risultati in passato, pur consapevoli di trovarsi nell’impossibilità di continuare ‘come si è sempre fatto’. Esso sembra continuare a voler ‘saltare’ nella logica dello sforzo e del ‘controllo’, facendo appello alle risorse di resilienza rimaste; mentre invece potrebbe considerare un altro tipo di salto, quello del lasciar(si) andare, giocato sulla massima leggerezza, in prospettiva antifragile, facendo leva sulla fiducia nella libertà che ti solleva oltre l’ostacolo.
OLTRE LO ‘SPORT EDUCATIVO’… LO ‘SPORT EVOCATIVO’
A questo proposito forse si potrebbe proporre una piccola ma decisiva modifica nel modo di approcciare lo sport: da ‘sport educativo’ a ‘sport evocativo’. Lo sport prima ancora che educativo è evocativo: nessun ragazzo/a fa sport per educazione ma per divertirsi e ancora di più per esprimere non solo quello che sa fare ma quello che sogna e desidera diventare. Lo sport è una esperienza che non si esaurisce in se stessa: non serve ad imparare ma a rimandare ad altro, alla propria destinazione (destino + vocazione).
Come ci insegna Einstein, “nessun problema può essere risolto restando all’interno della cornice/logica che lo ha creato”: occorre uscire fuori, guardarlo da un altro punto di vista. Nessun problema organizzativo può essere risolto a livello organizzativo, nessun problema economico può essere risolto con il solo denaro, e così per gli aspetti progettuali… ed anche educativi.
Ritrovarsi in panchina oggi, può essere una bella occasione per avviare una nuova partita: guardare con occhi nuovi e diversi la partita, il campo di gioco, i giocatori, il pubblico… e così entrare per fare davvero la differenza.
Gli educatori sportivi cristiani
né per origine, né per voce, né per costumi
sono da distinguere dagli altri sportivi.
Vivono nel mondo agonistico, ma come forestieri;
partecipano a tutto con autentica passione sportiva
e da tutto sono distaccati come osservatori
Sono grandi tifosi, ma non si comportano da tifosi.
Obbediscono ai regolamenti stabiliti,
e con la loro pratica educativa superano i regolamenti.
Non sono conosciuti, e vengono criticati.
Mancano di tutto, e di tutto abbondano.
Sono ingiuriati e benedicono;
sono maltrattati ed onorano.
A dirla in breve, come è l’anima nel corpo,
così nel mondo sportivo sono gli educatori cristiani
impegnati negli oratori e società sportive”
(Lettera allo ‘sportivo Diogneto’)