
La violenza trasformatrice dei processi
Delle donne eseguivano in piedi movimenti lenti, ampi delle braccia, poi abbassandosi sollevavano una gamba e poi con tutto il corpo si protendevano verso l’alto. Mi trovavo nei giardini di piazza Vittorio a Roma, in attesa di recarmi in stazione Termini. Osservavo alcune anziane signore di origine cinese, e con loro, una giovane occidentale sui venti anni, capelli colorati bianchi, t-shirt a righe orizzontali bianche e nere e jeans. Scoprii più tardi che quello che stavano praticando era l’antica arte del Tai Chi. Poco distante, un signore cinese eseguiva anche lui dei movimenti con le braccia ma più brevi e circoscritti. Altri correvano costeggiando le aiuole del parco mentre io me ne stavo seduto su una panchina attonito di fronte a questo brulicare. Chi correva, chi passeggiava e poco distante di lato, la voce amplificata e cupa di una preghiera in lingua araba echeggiava tra le fronde dei platani. Tutti sembravano mossi da uno stesso spirito, nelle loro diverse attività è come se percepissi uno stesso scopo. Lo intuivo ma non lo coglievo. Intanto il cinguettio dei pappagalli tra le frasche delle palme si frangeva contro il battere di un pallone da basket. Arti marziali, danze, sport… pratiche. Dispositivi, meccanismi nei quali la mente è connessa intrinsecamente al corpo. Stasi. Sospensione del pensare proiettivo o del ricordo, per essere presenti al sé, divenire presenza.
Per vivere questo occorrono pratiche. Distendere il corpo e la mente. Sottrarsi dalla presa delle idee. Il corpo rotea, cerca complicati equilibri, ripetizioni, sospensioni. Il corpo in tensione con gesti lenti, rallentati o al contrario incalzanti e veloci. Una coreografia da ricordare e ripetere. Non è concesso alla mente una deviazione, la pratica la costringe a stare, la ripetizione la porta a liberarsi.
Non è una questione di fede, di devozione, è una questione di pratica. Pratica di consapevolezza: la base di un cammino spirituale.
La pratica della speranza
La nostra vita è fatta di ripetizioni, routine, abitudini. Le nostre pratiche di fede sono costituite da ripetizioni. Come la vita e i suoi cicli, come l’anno liturgico, così il nostro passaggio terreno ci conduce a più cicli di vita, morti e resurrezioni.
Siamo dentro ad una delle questioni più importanti dell’antropologia religiosa, quella dell’efficacia ‘simbolica’ […] Il rito e la preghiera hanno per l’orante una reale efficacia, portano al miglioramento, all’ascesi, alla guarigione, a una forma di salvezza dal tempo – e del tempo – che viene rimodellato dall’uso della ripetizione. (F. La Cecla, Convincere Dio. Note sul pregare, Einaudi)
Il filosofo Deleuze distingue tra due generi di ripetizioni: quella dettata dall’abitudine, come conferma di un dovere o di un valore riconosciuto dal soggetto; oppure l’atto che, se pur ripetuto, viene vissuto come esperienza di un evento singolare, di volta in volta sentito come nuovo e intenso. Facile portare ad esempio due diversi modi di ripetere e vivere la pratica della celebrazione eucaristica. La prima, mossa da una conoscenza, da un sapere. La seconda da una esperienza e che come tale è irriducibile al concetto, esterna ad esso. Nel secondo tipo di ripetizione il cristiano si fa cristiano, l’amore diviene amore. L’esperienza diviene processo. E nella ripetizione si diviene e ci si trasforma.
Le ripetizioni a volte sono lacci che ci fanno rivivere un dolore o riaprire una ferita in noi o negli altri. Le ripetizioni possono essere una maledizione oppure uno spiraglio di luce e di liberazione, se dalla sofferenza o dalla fatica ogni volta avviene uno spostamento. Se avviene una forma di riscrittura del sé che per spostamenti continui potrà dischiudere un diverso presente. Siamo di fronte ad una pratica di speranza.
Oltre il potere organizzatore dei discorsi
Cosa ha a che fare questo con i processi di conversione pastorale?
La forme (pastorali, organizzative, di governo, di comunità) sono determinazioni di un dato discorso.
La ripetizione è la pratica necessaria per uscire dal potere organizzatore del discorso in atto.
Per uscire dalle forme del passato è necessario scostarsi da quel discorso, rifondarlo. Generare una nuova narrazione. Per fare questo occorre uscire dal ‘due’, dalla dualità che ogni discorso genera: dentro-fuori, lontano-vicino, giusto-sbagliato… distinzioni affermative che hanno senso solo all’interno di quel discorso. Riscoprire il potere negativo della Realtà, che fa si che ogni elemento è in quanto non-è, perché se A=A si avrebbe solo una realtà morta, incapace di rigenerarsi e divenire. Se A=A è impossibile ogni altra determinazione, il riscatto, la speranza. Come scrive Florenskij in Colonna e fondamento della verità, la violazione di questa legge ci permette di accedere al potenziale della vita, diviene la potenza e l’energia del suo eterno ripristino e rinnovamento. L’identità morta come fatto, A=A, può essere e sarà necessariamente viva come atto. È legge carnale, morta e mortificante nella sua statica, mentre può essere intellegibile nel suo eterno crearsi spirituale, viva e vivificante nella sua dinamica. A è A perché essendo eternamente non-A trova in questo la propria affermazione come A. Invece di un A=A vuoto ed escludente abbiamo un A pieno di contenuto e di vita, una identità che continuamente rigetta se stessa (nel non-A) e così ritrova se stessa, attraverso l’assimilazione e l’appropriazione del tutto.
Il rischio delle ripetizioni
Il rischio delle ripetizioni si ha quando il predicato del discorso, la sua determinazione, ottunde il senso sottostante, il reale da cui ha origine. Il soggetto non sperimenta più un contatto (o non opera più una prensione, à la Whitehead) sull’evento singolare che ha generato quel atto, lasciando afono lo sfondo del discorso.
È ciò che avviene in molte prassi non più in grado di essere generative. La ripetizione in questo caso non fa più presa sull’evento vitale, i soggetti che la praticano sono inseriti in un discorso senza possedere le risorse per lasciarsi toccare e trasformare da quell’evento. Non risuona più il senso che quel discorso intendeva porre in relazione tra i soggetti. Ne risulta una prassi da cui si può trarre una utilità sociale, culturale, un riconoscimento, ma non un risveglio o un contatto con il reale. Lascia nell’autoreferenzialità del doppio. Ne deriva una poca presa in termini di trasmissione della prassi, un basso livello di ingaggio e coinvolgimento, che di fronte ad una difficoltà o ad una alternativa piega e sfugge in altre direzioni, oppure si irrigidisce su discorsi non più comunicabili e attrattivi. Anche qui è facile richiamare l’esperienza eucaristica o alcune prassi di evangelizzazione. Permettere ai soggetti una nuova prensione sul senso originario diviene allora necessario. Permettere ai fedeli una prensione sull’evento della morte e resurrezione del Cristo, non come un atto del passato, dato una volta per tutte, ma come atto in divenire, che si ripetere per originarsi nuovamente in ognuno.
La ripetizione processuale non presuppone una derivazione da un dato immutabile, da un vero fisso e immobile. Altrimenti le ripetizioni costituirebbero solo dei movimenti imperfetti, degradazioni da un vero e da un puro originario. C’è invece un accadere di un tema mediante le ripetizioni e le sue variazioni. Pensiamo al genio di Glenn Gould sulle Variazioni Goldberg di Bach. Non si tratta di un tema di approssimazioni. Ma di spostamenti ed inizi. Genesi.
Così come nell’azione di annuncio: passare da una concatenazione lineare di atti, ad uno spostamento continuo degli stessi, dove ciò che viene emesso da un soggetto viene ad esso restituito in forma di senso proprio dall’altro, richiedendo al primo un atto rispondente e quindi un ulteriore spostamento. Si va oltre la teoria classica della comunicazione: qui è il ricevente a fornire al mittente il senso di un’agire, costituendolo così soggetto, impedendo un riflesso vuoto, generando nell’altro uno spostamento dall’IO=IO. Riportando l’IO al reale come atto di divenire puro. Chi annuncia si consegna all’altro e all’Altro lasciandosi ricostituire da esso; chi annuncia annuncia sempre anche a se stesso, mediante l’altro, una nuova e bella novella, generando un evento singolo e irripetibile nella sua ripetibilità. E questo è possibile in funzione di un terzo, di una Realtà che viene, che si lascia raggiungere e mettere in relazione. In quanto è, direbbe Platone, dynamis tes koinonias, potenza relazionale. È allora che l’annuncio si incarna, che il dire diviene vero – Regno – e non solo corretto, giusto.
La via processuale delle ripetizioni
Nell’accompagnare processi pastorali come Centro Studi, è per questo che in un primo momento aiutiamo a superare la dualità inserita da un determinato discorso, per tornare all’abisso dell’’uno-trino’. Tornare al fondamento morfogenetico dal quale attingere quelle risorse utili per ridefinire un discorso in uso. Questa è la fase di discernimento volta a ridefinire una promessa, un sogno missionario, mediante la regola della conversazione spirituale.
In seconda battuta, iniziare a praticare questo nuovo discorso mediante ripetizioni in grado di generare scostamenti e da essi scorgere possibilità altre per essere.
Un processo fa uso delle ripetizioni per allargare la consapevolezza, creando un progressivo scostamento dal modello di partenza. È attraverso la pratica che un nuovo discorso si fa avanti e si percepisce possibile.
Il paradigma precedentemente interiorizzato ci riporta a pensare, agire, a concepire il tempo e il suo ritmo, a disporre e comporre la realtà dentro la struttura del suo discorso.
La ripetizione di un discorso nuovo porta a ricollocarsi in un evento che non era più percepibile nella ripetizione abitudinaria (il si è sempre fatto così) indotta dal precedente modello. Permette di tornare a vivere la singolarità dell’esperienza, tenerne viva l’intensità e la novità irriducibile a discorso.
La violenza quieta del processo
Ad ogni ripetizione, tuttavia, le costrizioni del precedente discorso tornano facendoci sembrare ogni progresso un fallimento, una debacle. Scoraggiano il proseguo. Proprio quando tutto sembra perduto è il momento di ‘fare memoria di me’, di tenere ferma la prensione sull’evento che stiamo vivendo nella sua originalità rigenerante. È questo il momento di insistere, di ripetere, di affidarci più alle pratiche nuove, frutto di un discernimento e non dipendenti da noi, che hai pensieri. Sono i tentennamenti di un bimbo che muove i primi passi, il balbettio nel pronunciare un discorso in una nuova lingua. Finché ad un certo punto, senza preavviso alcuno, più con l’irruenza di una evidenza, l’irruzione di un’annuncio, il vecchio modello resterà disarcionato a terra e una nuova cultura si sarà oramai fatta strada. È la violenza graduale, insistente del processo, insita in una pratica più che in un dispositivo teorico, come l’insistenza della vedova al giudice disonesto: poiché è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente ad importunarmi (Lc 18, 5).
Non sono sufficienti le idee, seppur valide e centrate a generare un cambio di paradigma. Non sono i convegni o i libri. Questi cercano di convincere dal di fuori il soggetto ad assumere al suo interno un’altra postura. Quando invece il processo punta ad attrarre, smuovere dal di dentro, evocare. Non riorganizza ma libera, libera da un linguaggio attingendo da una dimensione di non linguaggio, di non denotazione, non determinazione, non referenza, differendo significato e significante. Produce una violazione del discorso precedente generando un’esperienza autentica.
La pratica della ripetizione, genera un vortice. Un movimento carico di energia che custodisce al suo interno un vuoto, un silenzio, una quiete… in mezzo alla violenza una consapevolezza nuova si fa strada.
C’è un vuoto da disporre
Affinché la parola possa germinare
Un vuoto che rassodi il campo interiore
Un vuoto che liberi dai pensieri e da desideri o preoccupazioni
Un vuoto che lascia spazio
Che lascia Cristo
che narra accanto a noi
Un vuoto che lascia spazio
Quando rimasero soli
Che lasci spazio per rimanere soli con lui
Per entrare nella Parola e lasciarsi fecondare da essa
Che lasci.
Quando mi raccolgo
Ripeto ripeto ripeto
Mi stringo attorno a questo vortice
Ripeto una parola, un frase, un nome
Mi stringo attorno a questo vortice
Dove tutto ha inizio
E dove tutto ha fine
In quel lembo di vuoto
In quel lembo di vestito del Cristo che svolazza nel vento
E che toccando sottraggo al fluire della mente
All’evanescenza dei pensieri
Di altra densità è fatto questo centro
Di altra porosità
La realtà su cui mi sostengo.