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RIPENSARE LA PRESENZA

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PRESENZA SUL TERRITORIO E AUTOPERCEZIONE DI SE’ DELLA CHIESA

Nel 1500, in una piccola isola al largo della costa della Nuova Guinea, vivevano degli indigeni che parlavano una loro particolare lingua, la lingua di Salamandra, Questo infatti era il nome che gli esploratori olandesi avevano usato per denominare l’isola. Nel 1859 un missionario belga si recò presso l’isola per enunciare il Vangelo a quella popolazione e per diversi mesi si impegnò a conoscere la loro lingua per poi iniziare a tradurre la Lettera agli Efesini di San Paolo. Lavorò per molti anni per tradurre il testo Sacro nella lingua del popolo di Salamandra ma nel frattempo i nativi iniziarono a morire uno dopo l’altro, a causa di una forma di vaiolo che il missionario aveva contratto prima di mettersi in viaggio. Quando finì di tradurre la lettera, era rimasto un solo indigeno sull’isola. Anche lui poco dopo seguì i suoi conterranei in quello che chiamavano ‘il mare oltre il mare’. Il missionario aveva concluso la sua traduzione in una lingua che, tranne lui, nessuno ormai parlava più.
(Racconto tratto da A. Manguel, Il rovescio dell’arazzo. Note sull’arte della traduzione, Sellerio)

Una lingua sconosciuta, perché non ha più chi è in grado di comprenderla, è la triste metafora di quello che la Chiesa rischia oggi se non interpreta il tempo presente. Un’interpretazione, appunto, come l’oggetto del saggio dello scrittore argentino. Come interpretare e interpretarci in questo tempo? Come evitare che ciò che traduciamo dal grande libro della vita non sia più leggibile da nessuno? Quale interpretazione per rendere vivo il depositum  fidei e non infettarlo con i nostri virus, in quanto solo di interpretazioni possiamo disporre?

Il vescovo emerito di Bruxelles Josef De Kesel, nel suo recente libro ‘Cristiani in un mondo che non lo è +. La fede nella società moderna’, sottolinea come per la prima volta la Chiesa in Occidente si trova di fronte ad una cultura che afferma che la religione è qualcosa di facoltativo. Il secolarismo è questo: non nega la presenza della religione ma non la riconosce più sul piano culturale. Il Cristianesimo non ha più lo status di ‘religione culturale’. Le istituzioni ecclesiali, le forme di comunione e di missione erano pensate ovviamente per una epoca in cui il Cristianesimo era una parte integrante della società, in cui tutti ‘dovevano andare a messa. “Nell’inconscio collettivo continuiamo a considerare il Cristianesimo ancora una religione culturale” quando ormai i cristiani sono una minoranza. Per cui è normale che sia di molto diminuita la partecipazione alle celebrazioni liturgiche, in quanto non vi prende più parte il paese intero ma solo i cristiani. “Da  questo deriva la necessità di pensare ad una riorganizzazione della pastorale territoriale”.

La grande discussione che oggi facciamo sulla parrocchia e quindi sulla presenza della Chiesa nel territorio, credo sia falsata proprio da una traduzione non più adeguata e non più intellegibile, se non da pochi sopravvissuti, del termine territorialità: continuare a concepire la Diocesi come un ente che si prende cura e gestisce un territorio e che vede nei parroci i legali rappresentanti delle porzioni in cui esso è suddiviso per un suo adeguato controllo. Che poi non utilizziamo il termine controllo ma prossimità o vicinanza, segnala un modo per tradurre pastoralmente un desiderio che riconosco reale nei presbiteri ma che deve fare i conti e spesso scontrarsi con la preoccupazione della gestione e dell’amministrazione, dell’integrazione dei servizi e della progettazione. Questa autopercezione genera poi tutte le reazioni sui processi tesi ad integrare piccole diocesi tra loro, in quanto è dettato da tale pensiero guida. Prossimità è essere visto non guardato, essere ascoltato e non gestito, essere riconosciuto e non assolto, essere preso in considerazione e non coinvolto.

Associare alla territorialità il concetto di prossimità, infatti, ha senso solo nella logica della differenziazione e del decentramento. Per cui una diocesi o una parrocchia si fa prossima territorialmente quando non assume più la postura di colei che determina i destini delle sue parti, facendosi invece carico di un processo di diversificazione e di accompagnamento armonico delle singole soggettività, senza sentirsi in dovere di tenere più il controllo uniformando il tutto. In questa visione il vescovo e il  presbiterio sono custodi della rivelazione e della tradizione e ne accompagnano la sua traduzione (che inevitabilmente è sempre ‘tradimento’) in modo che la vita possa continuare. La territorialità è allora importante, sì, ma non nelle categorie oggi in uso. Parlare di territorialità come spesso sento fare, è solo una scusa – più o meno consapevole – per non perdere il controllo e non avviare una effettiva conversione missionaria.

Potremmo essere in grado di abbandonare questa narrazione? Di accettare di non dover più gestire e organizzare, in quanto non è questo che ci rende oramai visibili e significanti? Non essere più in una società cristiana non richiede più l’automatismo di molti servizi. I sacramenti dell’iniziazione, ad esempio, prima erano dati per scontati come il diploma di scuola elementare o di scuola media. Erano un tutt’uno con essi e la catechesi si configurava proprio secondo l’anno scolastico nei tempi e nella struttura. Questo non vuol dire “non essere per tutti”, ma essere per chi anche nella semplicità lo desidera.

Alcune proposte.

Seguono alcune proposte per aiutarci a ristrutturare le nostre narrazioni e quelle che gli altri fanno su di noi come Chiesa.

Superare la logica degli uffici nelle curie diocesane ma prendersi maggiormente cura dello sviluppo di ministerialità laicali, senza però cadere nella scissione spiritualità-mondanità. L’evangelo non opera questa distinzione ma indica una via per una buona vita e che lo sia per tutti. Quello che noi oggi chiamiamo ufficio, non sarà altro che l’incontro tra le ministerialità di ambito diffuse sul territorio (un coordinamento armonico, come indicato sopra). 

Riavviare processi iniziatici per adulti, riconoscendo che l’iniziazione non è mai stata antropologicamente un’azione che riguarda i fanciulli: richiede infatti un passaggio di morte-resurrezione (risveglio) e l’innesto in una comunità viva – mentre le nostre comunità sono per lo più assemblee di non iniziati. È inconcepibile parlare di iniziazione rispetto a dei fanciulli su un piano antropologico, così come di mistagogia (sperimentare la vita da uomini nuovi, risorti) in età preadolescenziale.  

De-programmare, de-progettare l’azione pastorale della parrocchia, senza l’ansia di assolvere a tutti i servizi e le attività. Discernere insieme come battezzati sulle priorità di quel territorio e fare magari poco, ma farlo verso tutti e con tutti coloro che si rendono aperti ad un cammino comune. Non occorre che tutte le parrocchie facciano tutto. Alcune azioni, anche quelle caritative, possono essere de-specializzate in presenza di comunità vive o realizzate in rete, o in chiave interparrocchiale. Vedere la parrocchia come comunione di piccole comunità in rete tra loro, che nell’unità sacramentale dell’eucarestia e del ministro, possano liberamente vivere l’annuncio, la carità e la preghiera in forme libere e più idonee.

Creare occasioni di evangelizzazione di  ‘bassa soglia’ – è un termine che prendo in prestito dalla tradizione oratoriana – per indicare quegli spazi e tempi che non chiedono iscrizione, tesseramento, ma uno stare dentro una cornice evangelica; dove l’uscire e lo stare è libero nelle forme e nei tempi; dove non è richiesto necessariamente nulla in cambio. Proposte che non rispondono ad un servizio ma ad un servire.

La parrocchia è una realtà per sua natura aperta a tutti, come si diceva sopra. Si sottolinea spesso di evitare una sua deviazione settaria… ma non è proprio quella che stiamo vivendo? La riconosciamo nel momento in cui vi operano un gruppo ristretto di persone, che come sappiamo sono sempre le stesse che fanno più cose (con la conseguente autonarrazione che tutti gli altri sono indifferenti o egoisti), oppure che parla a se stessa e che gli altri la riconoscono solo in funzione dell’assolvimento di alcuni servizi. La cultura di consumo non genera appartenenza o comunità, genera aspettative, bisogni. Per cui la logica di una parrocchia ‘popolare’ è falsata per come in molti casi oggi si configura. Essere per tutti vuol dire essere aperta a tutti, creare occasione di ascolto di tutti, non mettere dogane di sbarramento o vincoli economici o morali. Allo stesso tempo è essere ciò che si è chiamati a vivere e professare: parrocchia dal greco paroikía, cioè “vicinato”, per estensione, “comunità di coloro che abitano vicini”. Parrocchia come prossimità e non territorialità.

Proporre di passare dall’ora di religione cattolica nelle scuole all’ora di religiosità. Riconoscere la dimensione religiosa come propria del conoscere la realtà nel suo complesso, riconoscerne il valore profondo dentro la dinamica intrapersonale, interpersonale e politica. Per cui non un insegnamento specifico sul cristianesimo o la cultura cattolica, ma sul senso profondo del religioso come dimensione conoscitiva  e relazionale, dove la dimensione cristiana rappresenta una parte ma non il tutto di questa realtà che ha radici antropologiche assai più vaste.

Rinunciare all’8xmille o rivederne profondamente il suo uso. Del miliardo raccolto nel 2023 ben 400 milioni sono andati al sostenimento del clero e solo 243 milioni per opere di carità. Non è quello che comunichiamo con le nostre pubblicità. So benissimo il valore che ha avuto l’introduzione dell’8xmille per la Chiesa cattolica italiana, tuttavia penso sia necessario rendere più chiara e trasparente questa scelta e chiederci perché, malgrado la riduzione del clero, una cospicua parte dei fondi va al loro sostentamento. Rispetto agli altri stati, questo ha reso il pastore come autosufficiente, nella condizione di non dover chiedere per sé, ma solo di coinvolgere la comunità su qualcosa che di fondo non gli appartiene e su cui ha margini di scelta e gestione molto limitati. O si dichiara chiaramente il suo uso (e non venite a dirmi che sul sito c’è scritto…) o si sceglie di utilizzarlo integralmente per la carità e la missione.

Si tratta di suggestioni, alcune delle quali possono richiedere tempi lunghi. Al di là della fattibilità nel presente, quello che mi stava a cuore provocare era una diversa traduzione della realtà. Lascio la parola nuovamente a mons. De Kesel:

“Continuare a credere in queste circostanze che la missione di evangelizzazione della Chiesa consista nel cristianizzare tutta la società non può che condurre a gravi impasse. La credibilità ne risulterebbe compromessa se la sua intenzione fosse davvero di porre fine a questa società secolarizzata e pluralista per farne di nuovo una cultura religiosa e cristiana. Entrerebbe in competizione con le altre religioni e tale atteggiamento non avrebbe più a che fare con il Vangelo ma rappresenterebbe una deriva estremista del Cristianesimo.” 

Da cosa si riconosce la vitalità di una Chiesa: “non tanto dal numero di membri che ancora raggiunge, ma dal fatto che qualcuno, pienamente integrato nella cultura secolarizzata di oggi, possa essere toccato dalla verità, la forza e la bellezza del Vangelo, questa vitalità si riconosce dal modo in cui il Vangelo può veramente rispondere alle grandi domande esistenziali dell’umanità; dal modo in cui riesce a indicare la via per una vita felice, buona e umana, e da quanto può rappresentare luce e speranza di fronte alle sfide sociali che l’umanità sta affrontando”.

Tutto ciò ha bisogno di un cambio di passo epocale, di uno sguardo rinnovato sul reale e soprattutto un cambio di mentalità, ovvero, un cambio di traduzione, alias, tradizione.

Forse abbiamo bisogno di sedie più che di territori, come aveva capito già nel suo primo spot un noto social network…