
Il paradosso di una pastorale di abituazione
Si racconta che un ragazzo, uscendo dal circo dopo lo spettacolo, notò un grande elefante incatenato ad una zampa ad un paletto infilato nel terreno. Il ragazzo amava e ammirava gli elefanti. Così rimase molto sorpreso nell’osservare che il paletto era solo un pezzo di legno, mentre l’elefante era grande e forte, sicuramente in grado di liberarsi facilmente. Come mai non accadeva? Scoprì poi che quell’elefante fin da piccolo era stato incatenato a un paletto come quello. Il piccolo elefante aveva cercato disperatamente di liberarsi ma piccolo com’era non c’era riuscito. Ci aveva provato più volte, senza successo, finché aveva accettato semplicemente la situazione. Una volta cresciuto ed acquistato una forza enorme, grazie alla quale avrebbe poter sradicare interi alberi e spostare pesanti massi, l’elefante avrebbe certamente potuto strapparsi via il paletto, ma non ci aveva più provato. Ciò che lo incatenava non stava nei suoi muscoli ma nella sua mente. Ironia della sorte, quel grande elefante era meno arrabbiato, meno spaventato, meno triste. Si era adattato. Catena e paletto erano diventati parte della sua vita. Ma era comunque intrappolato (ripreso da Sharot T., Sunstein C, Guardate meglio. Perché l’abitudine ci rende ciechi, Cortina, 2024)
Una novità imprigionata?
L’abituazione aveva vinto. L’abituazione è la tendenza che porta persone e gruppi ad adattarsi ad una situazione inizialmente nuova, bella o brutta, gratificante o rischiosa. L’effetto della abituazione consiste nell’attenuazione graduale della reazione, man mano che la situazione diventa familiare. L’abituazione crea assuefazione, riduce l’attenzione e la consapevolezza verso il fenomeno sperimentato: potremmo dire che grazie ad essa si ‘anestetizza’ il cambiamento che si cerca di affrontare, riportandolo nella propria zona di confort. In diversi la pastorale sembra proprio funzionare come quel paletto con l’elefante, innescando processi di assuefazione che intrappolano della forza della fede. L’impatto della novità evangelica finisce per smorzarsi progressivamente, ed impedisce che le comunità cristiane possano credere di poter ‘spostare le montagne’. Al massimo possono rimuovere i granelli di polvere sugli altari e le statue della chiesa, sempre che ci sia ancora qualcuno disposto a farlo.
Una pastorale che appiattisce?
Questa considerazione assume ulteriore significato ora che siamo all’inizio di un nuovo anno pastorale, l’ennesimo, sostanzialmente simile al precedente, in cui tutto o quasi è stato già probabilmente definito. Chi gravita intorno alla parrocchia sa che cosa succederà dall’inizio alla fine, da adesso alla prossima estate: la pastorale ha già per tempo provveduto a calendarizzare e pianificare l’offerta religiosa, nel tempo e nei modi. Se non bastasse c’è l’agenda pastorale, solitamente multilivello (diocesano, zonale, parrocchiale) che si incarica di rendere preventivamente definite le scadenze e le attività. Tutto è prevedibile: le liturgie ed in particolare la messa, i giorni e gli orari delle celebrazioni e delle riunioni, il catechismo, ovviamente i tempi e ricorrenze dell’anno liturgico… le varie feste della famiglia, della vita, cresime e prime comunioni, oratorio estivo e campeggio. Per poi ricominciare. Non c’ è nessuna vera sorpresa di vita nel frequentare parrocchia ed oratorio, niente che susciti stupore positivo. Non c’è sorprendenza nella comunità cristiana: tutto è preannunciato, previsto, normalizzato. Al contrario: ci si sorprende se qualcosa va in modo diverso ed imprevisto. La parrocchia è diventata, per chi ancora la frequenta, un posto tranquillo, sicuro, stabile, con buona pace per la carica di novità del messaggio evangelico.
Una situazione paradossale
Come meravigliarsi se le assemblee liturgiche sono disertate, se le comunità cristiane diventano asfittiche e sempre più invecchiate nella mentalità, al di là dell’anagrafe? Come stupirsi o lamentarsi, dunque, di avere comunità cristiane atrofizzate, sedute, passive, fino ad essere vittime di atteggiamenti fatalistici? Ritenere che questo sia solo un effetto del mutato scenario socioculturale, della secolarizzazione non è sufficiente. Occorre riconoscere che in una buona parte si tratta dell’effetto di una pastorale incline alla ripetizione, al ‘si è sempre fatto così’. Cosa pensare di una pastorale che pretende di suscitare interesse e attrazione verso la novità di vita offerta dal Vangelo attraverso la regolare e monotona ripetizione di modalità e proposte scontate da rendere difficile coinvolgere? Non è curioso e paradossale constatare come la pastorale pretenda di annunciare la novità evangelica evitando le novità? Che inviti a cambiare vita senza che la vita cambi? Che non preveda esperienze di discontinuità e rottura che portino ad una reale conversione? È singolare osservare come da una parte non si perda occasione per ripetere i concetti chiave dell’annuncio cristiano e della sua potenziale capacità di rinnovamento, e dall’altra la vita concreta delle parrocchie affondi in un quotidiano assolutamente monotono, prevedibile, senza che alcuna ‘novità di vita’ intercetti la vita reale.
‘Tenere la posizione’
L’atteggiamento dei vertici ecclesiali in questo senso non aiuta, anzi tende a confondere. Per un verso vi è l’invito sempre più pressante ai fedeli ad accogliere gli ormai invitabili cambiamenti (che spesso altro non sono che l’adesione a delle esigenze riorganizzative del clero sul territorio); dall’altro gli stessi vertici chiedono di fatto di ‘tenere la posizione’, operare nel modo consueto, preoccupati di garantire tutti i servizi e funzioni religiose. Sembra quasi che essi, in fondo, puntino proprio sulla tendenza alla abituazione più che su una rinnovata responsabilità, convinti che ci si adatterà anche alla rarefazione del clero e dei consacrati, agli accorpamenti in comunità pastorali, agli aggiustamenti organizzativi delle celebrazioni. L’amara conclusione è che quando la pastorale (verrebbe da dire ‘in buona fede’, se non fosse ironico) segue la logica dell’abituazione finisce per smentire la sua finalità, ovvero non rende un buon servizio all’annuncio evangelizzante ma ‘seppellisce il talento’.
Rimescolare le carte pastorali
Perché invece non provare a rimescolare le carte pastorali? Perché non avere il coraggio ogni tanto di cambiare il contesto, modificare le regole di convivenza e condivisione, in modo che le persone e le comunità escano dalla loro zona di sicurezza? Quando tutto è prevedibile – e si è stati abituati ad abituarsi – succede che le aspettative si abbassano: ci si accontenta e ci si vuol accontentare, anche purtroppo a livello spirituale. La pastorale, se non vuole commettere il clamoroso errore di ostacolare il messaggio che intende proclamare, dovrebbe invece lavorare sulla dis- abituazione, quale criterio base dell’agire pastorale stesso. È questo lo stile da coltivare per diventare consapevoli di ciò che facciamo, perché lo facciamo, come lo facciamo, e non restarne prigionieri ma aprirci al cambiamento ed alla conversione di vita, mettendo in evidenza i pregiudizi e gli stereotipi che ci condizionano negativamente. Una prassi pastorale ispirata dalla dis-abituazione è quella in grado di ‘superare la legge’, far riecheggiare il “ma io vi dico”, vincere il timore di perdere il controllo, l’ossequio acritico a delle regole di cui il più delle volte non se ne conosce senso e origine.
La sorpresa pastorale sta nel cambiare i processi
Quali sorprendenze ci potrebbe riservare la pastorale rispetto alle tante conferme che regolarmente ripropone? Non sono i contenuti, al di là del loro valore, a cambiare l’azione pastorale ma i processi. Non chi dice ‘sinodalità, sinodalità’ realizza la sinodalità, perché questa si sperimenta nei processi e nelle prassi, non nelle esposizioni concettuali. Le ‘sorprese pastorali’ potenzialmente più efficaci e gradite riguardano dunque non tanto i concetti di fede o i contenuti magisteriali i ma i diversi processi attivati, ovvero il tipo e la qualità delle esperienze vissute dalle comunità cristiane e come esse vengono proposte e realizzate. Qualche confortante buon esempio di novità e sorpresa dei processi pastorali ci vengono dalle esperienze spirituali attivate (per chi ha voluto o saputo) dal cammino sinodale: le ritrovate occasioni di modalità di ascolto, le conversazioni spirituali, la pratica del discernimento. Altri esempi riguardano il cambiare i ruoli ed introdurne di nuovi, siano essi definiti o meno quali ‘nuove ministerialità’; la possibilità che i rinnovati consigli parrocchiali e pastorali siano basati su un diverso stile di incontro e non scimmiottino una sorta di ‘CdA parrocchiale’; la prassi rinnovata della confessione comunitaria; l’opportunità di forme di predicazione condivisa; il cambio dello stile, linguaggio e canali di comunicazione ecclesiale ; la disponibilità a sperimentare segni e gesti nuovi ogni volta che è possibile nella liturgia, nell’amministrazione dei sacramenti, e soprattutto durante la celebrazione eucaristica.
Pastorale alla Diogneto
Certo si tratta per la pastorale di accettare il rischio, rinunciare al quieto vivere, passare da un atteggiamento reattivo a uno proattivo. Non si tratta per la pastorale di aiutare le comunità cristiane a tremare di meno ma ad osare ed esplorare una qualità di vita spirituale maggiore. Si tratta di spezzare le catene delle basse aspettative e dell’atteggiamento rinunciatario quando non fatalista che si avverte in tante comunità e in molta parte del presbiterio. Per favorire la conversione, anche la pastorale ha bisogno di conversione. È decisivo che la pastorale si abitui a disabituarsi, ovvero a rimescolare le carte, introdurre segni di discontinuità che alimentino nei fedeli la sorpresa, la novità che l’annuncio cristiano contiene e comporta.
Abbiamo bisogno di una pastorale che sappia cogliere e praticare il ‘principio di Diogneto’, la capacità di essere ‘nel mondo (ecclesiale) ma non del mondo’ (ecclesiale) rispetto al modo di vivere, pensare, comportarsi per sperare di rendere credibile e praticabile la novità evangelica.