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Nel mio taccuino sei la ‘Ragazza a terra su cartone’.
I tuoi occhi ricordo. Li ho ancora addosso.
Quelli di un felino in gabbia ferito.
Eri stesa a terra su un foglio di cartone.
Il poliziotto della stazione Termini accanto,
non ti guardava ma ti controllava.
Quegli occhi lucidi, persi, sempre aperti.
Tenevi le ginocchia raccolte al petto,
come rientrare in te stessa, all’origine, al nulla. Immobile.
Solo quegli occhi grandi di ragazza africana e neri come due biglie di onice.
Rilucevano acquei nella luce della vetrina di gioielli alle tue spalle.
Tenevi raccolta in te la vita. Quella che ti era restata addosso.
Ripiegata in due piccoli fagotti di stoffa.
Custodia dei tuoi ricordi.
Eri in te rifugio. Rifugio controllato, sotto sorveglianza.
Irriso dalla luce artificiale del mondo. Un corpo, il tuo, esposto.
Coperto, protetto in sé. Cosa ne facciamo?
Cosa ne facciamo, pensava il poliziotto.
Tu eri dentro. Lui restava fuori.
Distinguere, contrapporre è comodo e rassicurante. Abbiamo un profondo bisogno di comprendere la realtà, di prenderla, possederla, tenerla in pugno e così restarne fuori. Posso capire che su un piano euristico – di ricerca e di studio – questo è opportuno, tuttavia va mantenuta la sana tensione a non scindere e starci dentro le contraddizioni che caratterizzano il vivere.
Le categorizzazioni attivano un processo di normalizzazione o ‘domestificazione’ della realtà. Il riconoscimento dell’altro avviene dentro le categorie che una data forma e cultura impongono. La forma genera un discorso su ciò che è dentro e ciò che è fuori: il credente e il non credente, il praticante e il non praticante, il lontano e il vicino, il fare e l’essere. Fino a giungere ad una attribuzione morale, una distinzione tra bene e male, giusto e sbagliato. I parrocchiani che stanno dalla parte del giusto sono i vicini – intendendo vicini dalla parrocchia non necessariamente da Cristo -, sono i praticanti – che svolgono un servizio in parrocchia -, sono i credenti – che partecipano alle funzioni religiose. Come si può facilmente cogliere, le attribuzioni alle diverse categorie sono condizionate da un modello di parrocchia o di comunità pastorale che abita le nostre menti. La parrocchia difficilmente riconosce l’apostolato, e quindi l’esercizio del proprio sacerdozio battesimale se svolto fuori dalle sue mura, esempio al lavoro, in famiglia, tra amici, in associazioni di volontariato. La parrocchia difficilmente ascolta i bisogni spirituali dei singoli e si cura di un loro accompagnamento. Difficilmente incarica e forma persone che curino l’accoglienza di chi è sulla soglia. Tutto ciò non per cattive intenzioni ma per un modello interiorizzato che più o meno consapevolmente ci porta a categorizzare la realtà secondo dei discorsi familiari e rassicuranti per chi vi è dentro.
Le categorie acquistano così una forma autoevidente statica e definita rispetto all’oggetto a cui si rivolgono, indipendentemente dal contesto. Un’operazione di etichettamento, dove alle persone si associano delle categorie che vengono incorporate, associate ad un corpo, come avviene ad esempio rispetto alla disabilità, alla omosessualità,… uno scarto si genera tra ciò che è normale e ciò che non lo è, tra ciò che è giusto e coerente e ciò che non lo è, tra ciò che è dentro e ciò che è fuori.
L’infinito contratto nelle cose
Trovo bella la definizione che dà Cusano nel cercare di concepire l’ambivalenza delle cose. Sostiene, con questa bella espressione, che l’infinito è contratto nelle cose, nel finito. Il massimo assoluto, l’uno, che è in tutte le cose e luogo in cui tutte le contraddizioni e contrapposizioni sono risolte – in lui il dentro è il fuori, in lui il massimo è il minimo, il cerchio è il quadrato – si contrae nel finito plurale e contraddittorio. Le cose, ogni cosa, è contrazione di questo infinito contratto nel contingente proprio di quella cosa, nell’accidente che la caratterizza. Da qui l’infinito, che è unità, diviene pluralità. L’infinito che è ricapitolazione delle contrapposizioni, diviene nella sua contrazione finita e contingente, luogo di ambivalenze che non possono risolversi. E il vivere è starci dentro queste contraddizioni di cui siamo costituiti, guardando al Cristo che è colui che è in grado di portare la pace, lo shalom, in quanto punto di incontro tra infinito e finito.
La distinzione tra fare ed essere non esiste in natura
“Siamo schiacciati sul fare! Dobbiamo tornare all’essere!”. Quante volte sento fare queste affermazioni nella pastorale. Rivendicazioni di una parte sull’altra, dell’essere suol fare, come a voler ristabilire un illusorio primato di una parte, il recupero di una purezza originaria, di un’identità smarrita. Ma quale fare è senza essere? Altrimenti saremmo degli automi, delle macchine. Quale essere senza fare? Altrimenti saremmo fuori dall’immanenza del mondo, pura ideologia. È proprio nel fare che l’essere si purifica e si ricomprende. E’ proprio nell’essere che il fare trova un’intenzione, un possibile, una necessità. Eppure, in tempi di crisi il primato dell’essere sul fare si fa prepotente e lo vediamo con il proliferare della parola ‘formazione’ ad ogni piè sospinto. Caricando ancora di più ideologicamente un agire frutto di considerazioni passate che guardano la realtà dall’esterno, da fuori, prive di esperienza. L’essere è comunque preceduto da un fare discorsivo, da una parola che lo definisce – non si dà nel mondo senza un pronunciamento.
Queste distinzioni, se sono utili ai fini dello studio – come quando distinguiamo tra agape, eros, filia -, non aiutano poi nel comprendere fino in fondo la realtà, in quanto non esistono in essa. In quanto la realtà è ambivalente, e le parti si co-determinano, co-agiscono nel mondo. Ed è frutto di questa tensione che c’è una spinta creativa incessante, diversamente da chi cerca di fissare le parti. Che noia l’agape senza l’eros e lo stesso per la filia. Che noia Abele senza Caino. Starci dentro è assumerne il rischio. È integrare non uniformare o porre dentro una gerarchia di valore i diversi elementi. È cogliersi dentro una pluralità armonica che potrebbe non lasciarci mai in pace se non si orienta al Cristo.
Il punto di giuntura tra fare ed essere, il punto dove i poli convergono e si scontrano schiuma nell’esperienza. L’esperienza che è oltre l’accadimento e allo stesso tempo è oltre l’idea. È lo spazio dove, se si pone attenzione, il fare e l’essere dialogano alla ricerca non di una ripetizione o di un buon funzionamento ma della vita. Destabilizza le logiche di potere delle categorie. Supera l’egemonia del pensiero uniformante.
La via dell’esperienza è la via dei processi. È la via sinodale dell’abitare le tensioni e stare nell’incompletezza. È la via che si fa vita e tende alla verità nelle sue contrazioni.