Scroll Top

LA SPERANZA NON E’ UN FUTURO E’ UN AVVENIRE

rose-4293212_1280
Tempo di lettura: 3 minuti

In ogni istante a questo mondo c’è una lunga fila di gente che piange e una più corta di gente che ride, ma anche una terza fila, che non piange più e che non ride più.
La più triste delle tre. È di questa che voglio parlare.
Georgi Gospodinov, Romanzo Naturale

«Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato,
abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!». (Lc 7,32)

 

Non ho mai riflettuto molto sulla speranza. Delle tre virtù teologali – fede, speranza e carità – mi è sempre apparsa come la più impalpabile e astratta. ‘Il cristiano non è del resto una persona che spera?’ Si’, ok, va bene, anche se mi sembra una frase facile, buttata lì per ammansire l’angoscia che ci scava dentro. E in cosa si spera? È un soggetto o un oggetto che determina la speranza cristiana? Dio, o Cristo o lo Spirito non sono un oggetto, non si possiedono. Spero in una non cosa, in un totalmente altro che è niente. Che è la sottrazione di tutto ciò che è oggetto: pensieri, desideri, aspettative su qualcosa o qualcuno. È la speranza in un non-Dio, in un post-Dio che rende allora tutto possibile qui. La speranza non è un futuro è un avvenire! In quanto avviene non diviene. È insita non derivata. Non speriamo per qualcosa che sarà ma che è possibile ora anche se non è visibile adesso.

Mi suggeriva questa riflessione il libro ‘Il Vangelo inaudito’ del teologo Collins, nel passaggio in cui riflette sulla traduzione del passo “La tristezza si cambierà in gioia” (Gv 16, 21). L’autore propone una più corretta traduzione: ‘La tristezza avverrà in gioia’. ‘Avverrà’ e non ‘si cambierà’. “C’è il valore dell’avvenire già insito nella tristezza e non in divenire, come passaggio successivo. La tristezza avviene nel suo Altro, la gioia. Quando dall’apertura generata dal dolore, il desiderio si apre all’infinito. L’obiettivo della tristezza è la gioia”. Come, potremmo aggiungere, la beatitudine è già nel pianto, nella fame, nelle ingiurie ricevute, nella povertà. In esse ora avviene il Regno.

La speranza è un furto di Paradiso attuato all’Inferno. È la rugiada all’inizio di un nuovo giorno, perché tutto ha di nuovo inizio anche in un campo di guerra. È un fiocco rosa o azzurro ad una porta in tempi di crisi. È il tuo silenzio esitante quando incontri le mie lacrime.
Perché per far sì che ci sia fede speranza e carità, occorre essenzialmente l’esistenza di un altro da sé su cui non possiamo riporre certezze, ma solo presenza.

La speranza è una tensione, un’attenzione. A coglierne i segni. A vederla germogliare ora tutt’attorno. È profezia, un sentire e vedere già. È un magnificat. Una dichiarazione di bellezza. Uno sparo a salve, che vibra senza scalfire, che irrompe senza scalzare.

La poetessa Anna Achmatova scriveva nel suo Requiem – una condanna al totalitarismo in Poema senza eroe ed altre poesie -: “La speranza chiama da lontano”. In un’altra traduzione si trova il verbo cantare: la speranza canta da lontano. Trovo bella l’espressione ‘chiama’: la speranza come una vocazione, un’interpellanza. La speranza bussa, insiste, emerge come una esigenza dal profondo. È un grido che invoca liberazione. Non è un intervento ma una rivelazione conchiusa in un gesto. Per la poetessa fu il trascorrere sfibranti ore in fila fuori del carcere dove venne rinchiuso suo marito. È il canto che ci spinge oltre, che ci dona forza. È un atto di lotta. Uno “sperare contro ogni speranza” (Rm 4,18). Un disperato atto di coraggio.

Siamo alle porte di un Giubileo della Speranza, e continuare a parlarne nelle categorie consunte del futuro, di quel ‘che verrà’, temo porti alla noia o al disinteresse. Veniamo da una pandemia mondiale, ci sono armi che sparano ai nostri confini, e penso che la speranza sia un tema significativo se sapremo risignificarlo.

Quale speranza stiamo narrando? Un futuro che ci chiede di comportarci bene per poterlo ricevere, oppure un presente desiderante? Lo stesso teologo Collins afferma che “La vita non si brama, si desidera. Se il desiderio si stanca è perché abbiamo assimilato l’Altro o ci premuniamo da esso”. Lo abbiamo reso oggetto. E non ci viene più né di piangere né di ridere, né più di ballare né di cantare.

Dio sei il mio niente

Non sei le mie parole
Non sei i miei pensieri
Non sei il mio ‘Dio è…’
Né sei su questa pagina.
Non sei niente
E per questo sei l’assenza di tutto
Sei dentro ma non sei fuori
Nel vuoto e non nel convesso,
Non nel pieno che completa e chiude
Sei l’altro a venire
E l’improvvisamente ancora.