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Consacrati: oltre le tensioni identitarie e le crisi di ruolo

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Tempo di lettura: 7 minuti

Cambiare mappa per affrontare le nuove sfide pastorali

L’alluvione in Romagna ci ha mostrato l’impatto che il cambiamento climatico sta avendo sulle nostre vite. Allo stesso modo, ci sono segnali evidenti di come il cambio d’epoca che stiamo vivendo abbia un impatto significativo sui nostri modelli ecclesiali. Alla luce di questa analogia, l’articolo sviluppa una riflessione sulla necessità di ripensare le mappe pastorali di riferimento, evidenziando e ridefinendo le tensioni sottostanti i nostri modelli.

Abbiamo ancora ben presenti le drammatiche immagini dell’alluvione che ha colpito nelle scorse settimane la Romagna, con il suo enorme impatto sul territorio ed ancor più la vita delle persone.  Eventi come questi (ed altri simili disastri ambientali) ci permettono di comprendere meglio il cosiddetto ‘cambiamento climatico’ globale, espressione sempre più familiare e per contro percepita ancora distante, estranea, troppo grande e complessa da raccordare con la propria vita ed abitudini quotidiane.

Per comprendere la realtà del ‘cambiamento climatico’ abbiamo bisogno di ‘epifanie’, ad esempio frane ed alluvioni, ovvero manifestazioni che ce ne mostrano gli effetti concreti con cui fare i conti e rispetto a cui è illusorio credere che si possa tornare come prima con soli interventi riparativi.

ASCOLTARE SENZA METTERE IN PRATICA

Una situazione analoga sembra riguardare la Chiesa ed in particolare la pastorale: sebbene sia divenuto ormai familiare a molti il monito di papa Francesco (“non siamo in un’epoca di cambiamenti ma in un cambio d’epoca”), la questione si risolve in una semplice presa d’atto, in un ‘buono a sapersi’, senza che ciò produca i processi di conversione che sarebbero richiesti.

Come il cambiamento climatico ‘scivola’ senza incidere più che tanto su scelte, ritmi e stili di vita cui siamo abituati, così il ‘cambio d’epoca’ in cui la Chiesa è profondamente coinvolta ‘scivola’ e si limita a sfiorare priorità, scelte, programmi e prassi ecclesiali precedenti.

Al di là della crescente consapevolezza (teorica) il ‘sistema pastorale’ non sembra disposto o in grado di attivare quel cambio di paradigma che il cambio d’epoca esige. Esso sembra continuare ad operare all’interno della logica dell’epoca precedente, proprio quella che si dovrebbe lasciar andare perché conclusa, ovvero per aggiustamenti (anche drastici) e raschiando modalità resilienti di tipo organizzativo-funzionale (tagli, accorpamenti, deleghe…).

E’ come se – di fronte al cambio d’epoca – il ‘sistema ecclesial-pastorale’ subisse forte la tentazione di ‘salvare il sistema’ anziché cambiarlo (o per meglio dire ‘convertirsi’), nonostante gli evidenti segnali di implosione ed il concreto rischio di collassare. Significativo in tal senso il modo di affrontare

la crisi delle vocazioni ancora secondo un approccio quantitativo (calo numerico dei consacrati) più che qualitativo (senso vocazionale e stile testimoniale), a conferma di due assiomi consolidati: la centralità clericale rispetto al più ampio tema delle ministerialità, e la priorità geo-pastorale di presidio territoriale. Emblematica la replica di un vescovo ad un suo giovane sacerdote che gli chiedeva come regolarsi rispetto alla fatica nel seguire i molti carichi pastorali: “Tieni la posizione!”, neanche fosse un sottotenentino della prima guerra mondiale mandato in una trincea …      

Ma come non si affronta la questione della denatalità esortando le giovani coppie a fare più figli, bensì con adeguate politiche a sostegno della famiglia, così la scelta di vita consacrata chiede nuovi approcci pastorali di sistema.

UNA PASTORALE INVESTITA DALL’ALLUVIONE

Anche il cambio d’epoca in cui la Chiesa è coinvolta ha dunque bisogno delle sue ‘epifanie’ per poter essere davvero compresa, quelle manifestazioni che consentono di fare un serio esame di realtà, ed aiutare e superare le resistenze ed i timori che legano ad un passato che non esiste più e non tornerà.

Anche su questo aspetto ci aiutano alcune analogie con quanto provocato dalla recente alluvione romagnola. Possiamo al proposito riassumere in quattro aspetti l’impatto dell’alluvione nel costringere a cambiare prospettiva:

  • invasività: il cambiamento, come l’acqua, entra dappertutto, in ogni spazio pastorale non ha rispetto per niente e nessuno: penetra nella liturgia, inonda il bar dell’oratorio, invade le aule di catechismo, inzuppa il gruppo missionario e i depositi Caritas…. Come non serve a nulla – e lo hanno dovuto purtroppo constatare molti abitanti di paesi alluvionati – serrare le imposte, chiudere tutto, così l’acqua-cambiamento, minaccia ogni ambito parrocchiale, ogni ‘zona franca’ comunitaria… 
  • isolamento: il cambiamento – come l’alluvione – circonda e isola realtà pastorali e comunità prima facilmente collegate, quelli ‘dentro’ dai ‘lontani’, le gerarchie del ‘sopra’ ed i ministeri del sotto. Esso, dunque, chiede di ripensare radicalmente e creativamente le modalità di collegamento, di legame, di attenzione e solidarietà reciproca. Reti, unità e comunità pastorali nel cambio d’epoca vanno immaginate e realizzate come esito di processi e non come obiettivi di progetti, come era nell’epoca precedente.
  • oscenità: è forse l’aspetto meno previsto e più doloroso. Come per il fango portato dall’acqua, il cambiamento – proprio perché va oltre il semplice adattamento – rende ‘inservibile’ e ‘contaminato’ ciò con cui viene a contatto, anche ciò a cui si teneva di più. Il fango si mescola all’acqua e costringe a ‘buttar via’, mettere in strada, esposto alla vista ed ai commenti di tutti le prassi pastorali più care, quelle a cui si era più affezionati, le devozioni, le tradizioni, le forme più intime della religiosità di una comunità
  • urgenza: la crisi prodotta dal cambiamento non finisce con il deflusso delle acque ma impone allerta e tempestività di intervento, per consentire di ripulire e ripartire in modo realmente innovativo. ed evitare che il cambiamento sia solo subìto.  Le scorie del cambiamento (il ‘fango’ che ogni processo innovativo porta con sé) vanno rimosse rapidamente, prima che si solidifichino e producano non nuove opportunità ma ulteriori rigidità.  

CAMBIO D’EPOCA E ‘VITA DA CONSACRATI/E’  

Se il cambio d’epoca mette in crisi il sistema pastorale nel suo insieme, l’impatto su alcuni aspetti va considerato con particolare attenzione. Uno di questi riguarda il sempre più precario equilibrio tra identità e ruolo vissuto dal clero e più in generale dai consacrati/e. Un aspetto che sta assumendo livelli preoccupanti e che si tende a trascurare, per certi versi più grave del calo numerico di tali figure.

Sappiamo che il rapporto tra identità e ruolo è dinamico e molteplice, dove l’una non può esprimersi senza l’altro e viceversa, contribuendo entrambi a definire la persona. L’identità indica il senso di continuità alla base dell’esperienza nello spazio/tempo/contesto che consente di ri-conoscerci come noi stessi. Il ruolo è l’atteggiamento assunto dalla persona in rapporto alla funzione esercitata ed alla interazione con il gruppo o sistema sociale di cui fa parte. Ogni ruolo esiste in relazione a qualcosa e cambia a seconda di ciò che la persona fa e delle persone con cui interagisce.

Il cambio d’epoca con cui la Chiesa si confronta accentua nei consacrati/e la tendenza ad una perdita dei confini identitari e di ruolo, fenomeno tipico nell’attuale fase di post-modernità (cfr. Bauman, La modernità liquida). Tutto si è sbiadito e allo stesso tempo acutizzato: gli spazi, i tempi, lo stile di presenza dei consacrati/e nelle comunità si è de-formato, slabbrato, sfocato.

In questo contesto, il rapporto tra identità e ruolo nei consacrati/e può prestarsi a forme di polarizzazione impropria:    

  • fusione tra identità e ruolo. Si verifica quando vi è una eccessiva identificazione nel ruolo ed una sua idealizzazione: “sono un consacrato/a”. Si caratterizza da un eccesso di investimento emozionale dei bisogni individuali sul ruolo ecclesiale e di interiorizzazione degli obiettivi pastorali come bisogni individuali. Questo porta sovente ad un distacco spiritualista dalla realtà oppure, per contro, a fenomeni di burn out pastorale ed anche spirituale: «non possiamo sbagliare, siamo stati formati per questo» riconosceva con un misto di orgoglio e tremoreun giovane sacerdote durante un incontro. Corollario di questa posizione è la deriva sentimentalista: non si contano ormai i consacrati che riempiono quotidianamente le pagine dei gruppi social da loro promossi o cui partecipano con messaggi basati su frasi tanto mielose quanto generiche corredate da cuoricini, fiori, albe o tramonti, non si capisce se frutto di precoce deterioramento senile o tardiva regressione adolescenziale  
  • separazione tra identità e ruolo. All’opposto della situazione precedente, si caratterizza per un sostanziale divorzio tra identità e ruolo: “faccio il consacrato/a”: in questo caso vi è un carente investimento emozionale dei bisogni individuali sul ruolo ecclesiale ed insufficiente interiorizzazione degli obiettivi pastorali come bisogni individuali.

Si presenta per lo più attraverso atteggiamenti di disincanto, apatia (assenza di passione) pastorale, quando non vero e proprio ‘cinismo pastorale’, ovvero come tendenza e voglia di tirare i remi (o meglio le proverbiali reti) in barca. A volte questa separazione viene subita, senza tuttavia trovare il modo di ovviare: «spesso mi chiamano solo Don, senza aggiungere il mio nome».

PER UNA NUOVA MAPPA: ‘VIVO DA CONSACRATO/A’

Da queste polarizzazioni non si esce facendo appello alla buona volontà, dal momento che il malessere patito dai consacrati/e ed insieme dalle loro comunità di riferimento non è riconducibile a fattori legati ai singoli. Esso è, al contrario, l’effetto indotto dal tentare di continuare a voler restare dentro una mappa/paradigma pastorale superato.

Ecco perché, abbiamo bisogno di altre “mappe”, di altri paradigmi, che ci aiutino a riposizionare i nostri modi di pensare e i nostri atteggiamenti” (papa Francesco, Udienza alla Curia Romana, 21.XII.2019].

Le mappe sono strumenti che ci guidano, scenari e modelli in grado di orientarci. Ci sono diversi modi per tracciare una mappa, così come per provare a cambiarla. Uno di questi è individuare e mettere a confronto delle ‘tensioni’ che il cambio d’epoca mette in evidenza rispetto alla visione del proprio ministero.

Alcune tensioni riguardano il senso e lo stile di guida e leadership pastorale: riuscita o fallita che sia, la nuova mappa sollecita il passaggio dalla condivisione (molte volte ancora strumentale) propedeutica alla decisione (decision making) al prendere insieme decisioni (decision taking).

Altre tensioni riguardano il passaggio dal privilegiare uno stile efficientistico centrato sul fare e sulla efficienza gestionale (controllo, conferma, verifica …) al mettersi in una posizione di ascolto, discernimento, ricerca, testimonianza. E’ la tensione del passaggio dal dare risposte ai bisogni pastorali, veri o presunti (problem solving) al suscitare domande (problem setting), a concentrarsi sul ‘perché’ e non solo su cosa e come.

Le ‘tensioni’ non vanno intese come opposti e non comportano un giudizio morale. Esse segnalano l’esigenza di leggere i ‘segni dei tempi’, cogliere ciò che è figlio di una certa epoca e ciò che è invece promettente per la nuova. Ne riportiamo alcune nella tavola sottostante.   

Identità e ruolo del consacrato/a: una mappa delle tensioni

CON-DIVISIONE  CON-DECISIONE
CONFERMA dell’altro RICERCA con l’altro
CONTROLLO ortodossia DISCERNIMENTO spirituale
LEADER/GUIDA LIEVITO/SENTINELLA
CONVINCERE ASCOLTARE
FARE PROGETTI SPERIMENTARE PROCESSI  


TRATTARE LE FRATTURE CON L’ORO DELLA PROFEZIA

Certo, lo sappiamo bene, cambiare mappa è difficile. Molte volte dietro l’apparente domanda e bisogno di cambiamento si cela solo la volontà di introdurre varianti ad uno schema consolidato, operare innesti e modifiche che non mettono in discussione il paradigma di riferimento.

E’ prevedibile che ogni processo di autentica conversione susciti forti resistenze, come delle inevitabili fratture.

Ma come suggerisce il kintsugi (antica arte giapponese che ripara con l’oro le linee di frattura di una ceramica, rendendola ancora più pregiata)prendere atto che la vecchia mappa non è più adeguata non rappresenta la fine.

Le tensioni rispetto alla nuova mappa diventano trame preziose. Moltissimi consacrati/e, oggi, sono impegnati a far fronte a passaggi traumatici, rispetto ai quali trovare il modo di crescere in maniera positiva attraverso le proprie esperienze dolorose, valorizzarle, esibirle e convincersi che sono proprio queste che rendono ogni persona unica, preziosa, capace di prossimità.

Non basta a questo riguardo modificare i programmi formativi ma metter in atto, coraggiosamente, accompagnamenti tras-formativi. Non si tratta di recuperare ‘ideali’ di epoche superate ma di proporre nuove esperienze iniziatiche. Questo è l’oro che ci serve, la profezia che nasce dal cambiamento ed ispira un nuovo sogno missionario.