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De-infantilizzare l’esercizio dell’autorità /4

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Tempo di lettura: 12 minuti

Gettati nella fatticità del mondo sperimentiamo la frattura tra noi e la realtà, tra la sua inafferrabilità e il nostro essere-nel-mondo. La parola è il ponte che cerca di restringere tale frattura ma lo fa al prezzo di generare una distanza. La cacciata simbolica dall’Eden rappresenta bene questa frattura tra il piano naturale (animale) e quello esistenziale, ponendo l’uomo fuori dall’unità dell’ordine del mondo, rendendolo un essere per sempre ‘senza dimora’. Da qui l’esigenza profonda di determinatezza e di determinazioni, di un potere ordinatore che permetta all’uomo di relazionarsi al reale e agli altri, trovandosi sospeso sul vuoto abissale dell’indeterminatezza che caratterizza l’esistenza.

È qui che entra in gioco la dimensione del potere, perché è di questo che il presente articolo tratterà. Del nostro modo di agire e influenzare la realtà e le altre persone. Della capacità, scriveva Guardini, di mettere in moto il reale. Infatti, secondo il filosofo Michel Foucault, il potere non ha solo la capacità di ‘determinare riducendo’, ma di ‘creare determinando’. Getta determinazioni sull’indeterminato, lo definisce, lo gestisce, generando narrazioni, riti, prassi, strutture in grado di garantire la coabitazione degli esseri e la loro sopravvivenza al prezzo di un ordine prestabilito.

Quest’introduzione sociologica ci consente di comprendere come il potere sia una dimensione insita all’umano, di cui nessuno può disfarsi. La questione non è avere o non avere potere, ma sta nel modo in cui se ne fa uso nei confronti degli altri e della realtà. In quanto il potere, nelle sue diverse forme, è sempre collegato alla dimensione relazionale. Già nella sua legittimazione (autorità), così come nella negazione della stessa (dominio). È un elemento presente in ogni relazione. Non esiste relazione senza che in essa si attivi una dinamica di potere.

Il seguente capitolo analizzerà, alla luce delle tensioni introdotte nel primo articolo di questa serie, un modo infantilizzante di governare all’interno della Chiesa.

All’interno della Chiesa il tema del potere rappresenta una questione molto delicata, carica di considerazioni ideologiche in grado di favorire abusi e arbitrio nella gestione del proprio ruolo. Lo stesso termine ‘potere’ può produrre, in alcuni ambienti, paura o giudizio. Questa ignoranza infantile può costituire la causa di un esercizio del potere nelle sue forme degenerative: di potenza, di dominio, o al contrario, di evitamento o accidia.

I documenti ecclesiali richiamano la necessità ad una formazione specifica per coloro che sono chiamati ad assumere ruoli di governo. “Sarebbe importante includere nella formazione continua una seria iniziazione al governo: perché questo compito è talvolta affidato con improvvisazione e attuato in maniera impropria e lacunosa” (Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, Per vino nuovo otri nuovi. Dal Concilio Vaticano II la vita consacrata e le sfide ancora aperte, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2017, p. 42). Il rischio, però, è quello di ripetere modelli di governance e di leadership ecclesiale non più adeguati. A questo si aggiunge la questione della maturità dei soggetti, come già alla fine del VI secolo puntualmente analizzava Gregorio Magno ne ‘La Regola Pastorale’. La riduzione dei religiosi e delle religiose determina anche la difficoltà di trovare tra loro figure adeguate nell’assumere ruoli direttivi all’interno delle tante Opere che gli Istituti e le Congregazioni ancora gestiscono.

La sinodalità, come determinazione della Chiesa in questo tempo, come ripensamento profondo dell’esercizio dell’autorità e del potere nei contesti ecclesiali, rappresenta una sfida profetica che richiede una postura adulta. Non lascia spazio ad infantilismi che ad essa inevitabilmente si oppongono ignorandola o presentando critiche o questioni alimentate più dal sistema in vigore che dall’ascolto dei segni dei tempi.

 

Divide et impera: lungo la tensione separare-unire

Di fronte alla complessità, alla repentinità dei cambiamenti, una personalità infantile tende a cercare con tutte le sue forze di mantenere il controllo, di poter ordinare ancora il tutto, di mantenere processi lineari di cammino e di governo. Si assiste così alla creazione di commissioni, équipe, organi intermedi con i relativi mansionari, che vanno ad aggiungersi ai precedenti secondo la via della specializzazione o della rappresentanza o della diversità dei ruoli gerarchici. Un’articolazione che innalza la struttura gerarchica in quanto chi è al vertice ritiene di dover/poter determinare l’azione di ogni sua componente. Questo genera l’illusione del controllo, secondo l’antico adagio del ‘divide et impera’, ma in realtà ne determina la sua totale perdita. Si passa infatti da strutture complesse a strutture complicate. Strutture in cui i processi sono lunghi e farraginosi, rallentati da un controllo apicale che spesso interviene scavalcando tutti sulla base di una legittimità sovraordinata.

La complessità si abita restando complessi. Altrimenti si farà la fine dei dinosauri, creature complicate che non sono state in grado di adattarsi di fronte ad un cambio d’epoca. Restare complessi non vuol dire vivere nel caos.

Abitare la tensione separare-unire, chiede in questo tempo la maturità di spostarsi sul piano delle connessioni, o giunture sistemiche, accrescendo luoghi e tempi dove le parti si possano incontrare, si corresponsabilizzino, si narrino. È limitare la complicatezza senza ridurre tutto ad uno, senza annullare le differenze, ma accrescendo i luoghi per ascoltarsi e scambiare apprendimenti. In questo senso la sinodalità incoraggia a poter abitare in modo adulto il reale senza essere oggetto di ansie, paure di perdita di controllo e di potere. Garantisce l’armonia in modo maturo, permettendo la coesistenza nel corpo ecclesiale sia di organi che di giunture (Ef 4,16).

La specializzazione differenziante era propria di un’epoca di cristianità matura, dove era utile gestire la molteplicità di presenze che si aveva nei territori. Oggi risulta totalmente disfunzionale e di impedimento ad un’azione efficace ed agile di annuncio.

Per approfondire questi concetti sul piano dell’organizzazione di una curia diocesana, puoi leggere l’articolo ‘Una chiesa dall’organizzazione innocua’.

Si fugge dalla complessità rifugiandosi nella semplificazione, propria del pensiero classico e non del pensiero complesso. Le curie e i loro uffici rappresentano bene una visione ancora classica della realtà. Complicata non complessa. Con il termine ‘semplificazione’ non intendiamo meno uffici o servizi. Al contrario. E’ proprio il loro proliferare – vedi la riforma del vicariato di Roma o la divisione in poli e aree pastorali e uffici con cui si pensava di riformare la stessa CEI – che esprime quella volontà di potenza semplificatoria, che desidera scomporre la realtà in sotto-elementi così da semplificarla e controllarla in nome dell’efficienza, della competenza – di un piccolo gruppo di esperti più che in nome del sacerdozio comune. La complessità riduce perché sta nel momento presente, la semplificazione aumenta perché non tollera l’incertezza e l’indeterminato.

 

Un tempo per profanare: oltre un verticalismo ontologico

Alla sinodalità ci sono degli impedimenti sia teologici che canonici che sarà necessario affrontare da parte degli esperti.

Tra questi vi è un verticalismo che trova una sua legittimità in chiave ontologica. Il presbitero ha raggiunto la completezza dell’ordine e ontologicamente è un essere diverso da tutti gli altri componenti del Popolo di Dio. Su queste basi, poste dalla teologia tradizionale, l’applicazione della sinodalità rischia di restare un semplice pourparler. Superare la differenziazione ontologica non vuol dire mettere in discussione la struttura gerarchica ecclesiale, in quanto basterebbe legittimarla in modo diverso, riconoscendo un carisma proprio di guida ad alcuni soggetti. Solo a titolo di esempio di come il mythos della completezza presbiterale sia stato pervasivo, pensiamo a come nella vita religiosa chi non accedeva al presbiterato era di solito colui che veniva considerato meno intelligente o capace: a lui erano destinati servizi umili come le pulizie o la cucina. Eppure il presbiterato comporta delle aspettative e degli obblighi, una certa staticità nell’apostolato e nei rapporti con la Chiesa locale, che spesso vanno a discapito del proprio carisma.

C’è chiesto di compiere un atto di profanazione. C’è chiesto con urgenza di rivedere il carico simbolico associato alla figura del presbitero. Su un piano antropologico ’profanare’ significa riportare alla disponibilità dell’umano ciò che gli era stato sottratto, che non era toccabile, usufruibile. Il filosofo Agamben descrive con chiarezza questo processo, distinguendo tra secolarizzazione e profanazione. La secolarizzazione si limita a spostare da un luogo ad un altro, esempio disloca la monarchia celeste in monarchia terrena ma ne lascia intatto il potere. La profanazione invece neutralizza ciò che profana. Perché ciò che è profanato perde la sua aurea e viene restituito all’uso. Due azioni politiche, ma la secolarizzazione è esercizio del potere, la profanazione disattiva i dispositivi del potere. “Profanare non significa semplicemente abolire e cancellare le separazioni, ma imparare a farne un uso nuovo, a giocare con esse”.

Profanare non è togliere valore ad un soggetto o ad un oggetto, ma è attribuirgli nuovi significati, permetterne nuove letture, posizionarlo in modo diverso dentro un sistema di relazioni. Passare, quindi, da una distinzione ontologica che fissa una distanza incolmabile, al riconoscimento di un carisma proprio dei presbiteri, non andrebbe ad annullare la struttura  gerarchica della Chiesa ma porterebbe a rileggere i ruoli in modo nuovo dentro le dinamiche e le relazioni ecclesiali. Il tema delle ministerialità laicali, della corresponsabilità nei ruoli di governo, più in generale della sinodalità, acquisirebbe così un valore effettivo e non solo affettivo. Un riequilibrio tra verticale e orizzontale che trae da entrambi i poli energia trasformativa, oltre a ridurre un carico simbolico non più sostenibile e giustificabile. Tuttavia, come lo stesso Agamben ci ricorda, i dispositivi di potere cercano di sottrarre la possibilità di profanazione, l’opportunità cioè di dischiudere nuovi usi, esperienze, possibilità. I dispositivi di potere rendono anche desiderabile il ruolo, la verticalità distintiva, differenziante.

Il Concilio Vaticano II aveva aperto la strada ad una nuova auto-comprensione della Chiesa: l’ecclesiologia di comunione. Il teologo pastorale Cesare Baldi rilancia il tema sottolineandone la necessità alla luce anche degli ultimi sviluppi in ambito sinodale e ministeriale. Secondo l’autore con l’ecclesiologia di comunione “prende corpo una visione di Chiesa diversa dalla figura giuridica tradizionale. La comunità ecclesiale prende coscienza cioè del carattere unico che accomuna tutti i fratelli e le sorelle in Cristo, il cosiddetto ‘sacerdozio comune’, senza né oscurare né contrapporsi al sacerdozio ordinato” (C. Baldi, Il Popolo è la Chiesa. La comunità: soggetto pastorale delle funzioni regale, sacerdotale e profetica, Paoline, Milano 2024, p. 27). Non tanto una Chiesa tutta ministeriale quanto una Chiesa tutta sacerdotale, una Chiesa Popolo di Dio.

 

Oltre la completezza: il leader incompleto

Per guidare una comunità o, più in generale altre persone, un leader è chiamato a prendersi cura di tre dimensioni: la dimensione strategica e di orientamento, la dimensione relazione, la dimensione decisionale e correttiva. Possiamo tradurrebbe queste tre funzioni di governo con i tria munera battesimali, quegli elementi di grazia che ognuno ha ricevuto nel sacramento iniziale del suo cammino cristiano – potenzialmente ogni individuo le possiede, non solo un ministro ordinato. Il Battesimo ha infuso in noi uno spirito da profeti, da re e da sacerdoti. Un leader deve riconoscere il valore di tutti questi tre elementi che così sintetizziamo: profeta, come la capacità di poter elaborare una strategia, una visione, all’interno della quale poter camminare insieme; sacerdote, come la capacità relazionale, il prendersi cura delle persone, il saper generare comunione; re, come il far sì che si riesca a prendere delle decisioni per divenire generativi, trasfigurare la realtà, e l’autorità per  correggere chi opera a scapito degli altri o della comunità.

Una interessante ricerca dal titolo Leadership: No More Heroes di David Pendleton, conferma queste tre importanti funzioni ma, intervistando una gran quantità di leader di organizzazioni varie, comprese quelle religiose, fa notare che nessun essere umano è capace di svolgerle con efficacia tutte e tre. Ci sono leader più efficaci sul piano relazionale, altri sul piano strategico e altri su quello decisionale; potranno essere bravi o cavarsela in una seconda funzione ma saranno deficitari nella terza. La ricerca mostra una sana incompletezza che caratterizza la nostra persona, sana perché la non pienezza permette che altro avvenga oltre noi stessi. L’incompletezza è un invito alla partecipazione, alla corresponsabilità – diremmo oggi. Il teologo Michel de Certeau scriveva nella sua opera La debolezza del credere, che un’autorità, un’istituzione genera vita se rimanda ad altro da sé. Dall’autorità al singolare, che richiama a se stessa, unico riferimento, confermando il suo potere, alle autorità che rinviano le une alle altre. Il plurale permette altre cose. Permettere significa ciò che ‘non si è’ senza l’altro. L’unità, la comunione, si definisce dividendosi, non riducendo tutto all’uno. Crea uno spazio per ‘essere ancora’.

Il rischio che incontro in alcuni presbiteri o leader cristiani è che non prendono in seria considerazione questa mancanza congenita alla loro persona, il valore profondo di questo limite inciso nella loro persona. Alcuni vanno in crisi proprio perché si sentono in dovere  di essere capaci in tutte e tre le funzioni. Si ammalano perché si sentono in colpa di non essere ciò che non sono e non saranno mai. Si tratta invece, per essere dei buoni leader, di abbracciare pienamente ciò che siamo e partire da questa consapevolezza, riconoscendo in questo limite la possibilità per una crescita della comunità.

Un leader è chiamato a riconoscere l’importanza di tutte e tre le funzioni di guida ma anche la propria limitatezza, fragilità e comprensione che questo limite è possibilità per altro da sé, per una corresponsabilità effettiva. Laddove il leader sarà più debole sarà importante supervisionare coloro a cui deciderà di delegare quel compito o a cui attribuirà un ruolo di aiuto e consulenza. Dove è più forte sarà invece necessaria una supervisione esterna su di lui, proprio per non fare troppo affidamento su di sé e operare in modo troppo direttivo perdendo di vista alcuni elementi della realtà. È dove siamo più forti che il tentatore agisce e non dove siamo, seppur maldestri, solamente innocui.

Un leader, quindi, deve riconoscere le tre funzioni di guida proprie di ogni battezzato, ed è chiamato a fare in modo che tutte e tre vengano realizzate, ma non da lui solo. Lui agirà un ruolo di supervisione (episcopè), più che di esecuzione o decisione.

 

Da un sistema chiuso ad un sistema aperto

 Proviamo a descrivere un ente ecclesiastico distinguendo tra sistema chiuso e sistema aperto. Lo schiacciamento su modelli chiusi rende complicato e disfunzionale governare nel tempo attuale ed è di impedimento per avviare un cammino verso una Chiesa sinodale e missionaria.

Su questo puoi leggere l’articolo ‘La parrocchia processuale: da sistema chiuso a sistema aperto’.

 

Faccia a faccia con la Tradizione: l’erede

 Cos’è la Tradizione, quella che scriviamo con la maiuscola, che non è semplice abitudine o consuetudine legata al passato? Va annoverata nell’alveo della continuità/cerchio o in quello della discontinuità/frattura? È richiamo ad una origine mitica, intesa come età dell’oro a cui tornare o scaturigine di un dinamismo sempre nuovo e attuale?

I grandi fondatori, da Madre Teresa a don Bosco, hanno tutti avuto una chiara visione iniziale che li ha portati a sfidare il reale per trasfigurarlo: dargli un volto umano. Questa visione non ha rappresentato una spinta ad agire solo per loro. Ha costituito la base di partecipazione a questa impresa per tante altre persone. Un’organizzazione a movente ideale, che si schiaccia sulla gestione delle sue opere, è un’organizzazione che si è sconnessa da questa sorgente. Dovremmo chiederci: perché non ci sono più i benefattori di un tempo? Forse proprio perché abbiamo smesso di sognare! Non si chiedono finanziamenti per gestire meglio delle attività, si chiedono per salvare e liberare delle persone. Solo questo dà senso ad un dono.

La questione del sogno originario, del carisma, incontra resistenze quando si chiede di ripensarlo nel presente. Il carisma dei fondatori, pur costituendo un indirizzo radicale, lascia spazio a forme di attualizzazione. Questa attualizzazione venne richiesta dallo stesso Vaticano dopo il Concilio, tuttavia “nella pratica sorsero le difficoltà maggiori: le persone, come i gruppi, non sempre riuscirono a trasformare la propria mentalità. A ciò si aggiunse la resistenza strutturale delle opere e delle imprese dirette dai religiosi, e una resistenza, organizzata persino come ‘fedeltà alla tradizione’, che cercava di limitare i progressi inevitabili e favoriva la restaurazione del passato. In questa tappa tutti invocavano il carisma del fondatore […] più che lasciarsi interpellare da esso, ogni gruppo tendeva a servirsi di esso” (A.J. Echave et al., Nel servizio dell’identità carisamtica. Carisma proprio e Codice fondamentale, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2017, p. 12).

Nella Bibbia il termine ‘creare’ sta per origine, non per inizio. Se l’inizio è un punto di partenza storico che si completa quando la realtà evolve, l’origine è una fonte dalla quale sgorga sempre acqua nuova. Il filosofo Agamben scriveva: “La vera tradizione non consiste nel conservare le cose intangibili e mute, ma nello sgombrare lo spazio in cui esse possano finalmente aprirsi e parlarci» (G. Agamben, La mente sgombra). Per lo psicanalista e teologo Halik la tradizione è “corrente viva, creatrice, che rende possibile tramandare e testimoniare. La tradizione è un moto incessante di ricontestualizzazione e reinterpretazione: studiare la tradizione significa in primo luogo cercare la continuità nella discontinuità, l’identità nella pluralità di fenomeni sempre nuovi che emergono in un processo di evoluzione” (T. Halìk, pomeriggio del Cristianesimo). Un sogno carismatico, come la Tradizione, è continuità nella discontinuità in quanto ha, come Dio, un anelito profondo e continuo: far sì che la vita continui, continuare a creare.

Può esserci d’aiuto la distinzione che il filosofo Derrida fa tra erede e archivista. L’archivista si limita a conservare, come se quell’inizio basti a se stesso e torni da solo a parlare. Viene dal passato. Il vero erede è colui che parte da un vuoto, da un mancato, e permette di dire altro a partire da quella ingiunzione iniziale: dire ciò che il fondatore non era in grado o non gli era permesso di dire, fare ciò che il fondatore non era in grado o non gli era concesso di fare. L’erede attiva una risposta, dove non è in gioco la trasmissione del sapere ma il proseguo della vita. E questo fa dell’erede un traditore: la fedeltà all’origine consiste quindi in un tradimento che genera una rottura della ricorsività mortifera di alcune tradizioni per lasciar parlare ancora oggi il carisma.

Questa visione del carisma e quindi del movente ideale di una impresa, può purificare alcune forme di schiacciamento sulla gestione e riportare l’atto a creare speranza. È solo ripartendo dall’origine che si è in grado di far rifiorire la creatività: “l’organizzazione non dimostra l’esistenza di un carisma: la creatività sì. Il carisma non deve essere grandioso, ma è necessariamente vitale; potrà mancare di originalità, però sarà sempre originario” (A.J. Echave et al., Nel servizio dell’identità carismatica).

Riscrivere nell’oggi il proprio sogno purificandolo dall’organizzazione attuale, dalle Opere, è vitale. Non su un piano ideale ma di sviluppo e di crescita, di coinvolgimento e partecipazione. Questo sogno chiederà infatti di essere narrato e condiviso con ogni soggetto che entrerà a contatto la realtà ecclesiale. È questo sogno che legittima l’intraprendenza, che autorizza a rischiare l’annuncio.

 Il faccia a faccia con la propria Storia, con la biografia ecclesiale della propria realtà, chiede una libertà adulta e sapiente. Non si tratta di inseguire delle mode – quelle tendenze più in auge nella Chiesa in un certo frangente storico -, né di trovare degli aggiustamenti meramente funzionali od opportunistici. Si tratta di una lotta, di un corpo a corpo dal quale uscire, come Giacobbe una volta superato lo Iabbòq e aver lottato con l’Angelo, con una benedizione (una nuova risorsa simbolica con la quale operare nuove narrazioni e determinazioni), un nuovo nome (una nuova attribuzione di ruolo nel sistema relazionale ed organizzativo) e una ferita (una maggiore presa di contatto con la propria realtà e con la realtà in cui si vive). Una lotta necessaria se si vuole poter perseguire la vita e poterne garantire anche per altri. La stessa lotta che è chiesta ad ognuno di noi per sganciarci dalle narrazioni infantili e divenire adulti. È una lotta senza vincitori, dove guardare in faccia la nostra ‘ombra’ (personale o organizzativa intesa come cultura interiorizzata), dove guardarci fino in fondo senza giudizio, integrandoci, impedendo il transfert della parte in noi che rifiutiamo sugli altri, nell’individuare un nemico esterno.