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Una Chiesa dalla organizzazione innocua

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Tempo di lettura: 5 minuti

LA CHIESA ALLA PROVA DELLA COMPLESSITA’

Gli uffici pastorali delle diocesi suddividono la vita nelle seguenti dimensioni: catechesi, giovani, famiglie, sport e tempo libero, salute, società e lavoro, carità, migranti, ecumenismo, turismo e pellegrinaggi, comunicazioni, scuola, università, vocazione, liturgia,…. Una categorizzazione che oggi siamo chiamati a chiederci quanto possa corrispondere alla realtà della vita e soprattutto quanto sia efficace nell’accompagnare ogni donna e uomo lungo il suo cammino.

Gli uffici costituiscono una struttura molto pesante nelle diocesi, che in Italia hanno per lo più piccole e medie dimensioni, con uffici e incarichi sulla carta, in quanto pur di avere direttori scelti tra i consacrati, questi sono già impegnati sul territorio o in altri servizi. È esperienza frequente quella di passeggiare per curie vuote, con uffici chiusi ma tutti ben contrassegnati dalla targhetta con il nome del servizio e del direttore. E del resto, perché dovrebbero essere aperte al mattino quando la vita scorre altrove, o nel pomeriggio fino alle 18? Sono al servizio esclusivo dei sacerdoti? I direttori sostengono di voler essere di aiuto al territorio, quando questo non è presente nelle parrocchie in orario di ufficio.

Ci stiamo continuando a narrare che questa conformazione pastorale ci permette di essere presenti nella realtà, ma di fatto questo è molto poco reale. Sicuramente ci dà un’illusione di controllo, controllo che non c’è più o se permane lo è su quelle piccole porzioni di popolazione che ancora oggi vive un’esperienza di fede confessionale… la stragrande minoranza della popolazione.

Quello che mi interessa qui analizzare, però, è la visione sottostante al modello in atto.

Categorizzare, differenziare, specializzare la pastorale risponde ad una logica prettamente funzionale ed operativa. Se il complesso lo suddivido in porzioni, allora ho la sensazione di poter avere più capacità di intervento, di configurare le mie azioni dandogli concretezza.

Seguiamo la logica della semplificazione, la logica che è stata della scienza classica: causa-effetto, sostanza, necessità, cosa in sé… che esprime bene la volontà di potenza che l’uomo ha impresso sulla realtà per finire poi di perderla – disperderla. Non siamo più in quell’epoca ma non è mutata la nostra forma mentis.

Può aiutarci a fare chiarezza il testo di Mauro Cerruti e Francesco Bellusci, Abitare la complessità (Mimesis, 2020). La tesi di fondo è chiara: viviamo nell’epoca della complessità e questo ci chiede di adottare un pensiero complesso.

“La semplificazione è stata la via regia per realizzare l’ideale dell’onniscienza, costitutivo della tradizione moderna: giungere progressivamente  e gradualmente alla conoscenza definitiva e in linea di principio completa, che avrebbe reso il mondo sicuro, dominabile, prevedibile. L’ideale dell’onniscienza, con i suoi corollari epistemologici , da Cartesio in poi, ha disciplinato le conoscenze e le azioni umane, e probabilmente si è radicato più profondamente nelle dinamiche emisferiche del nostro cervello, forgiando attitudini cognitive ed emotive, di tipo analitico, rinforzate peraltro dalla pedagogia moderna. Ora, per converso, la complessificazione del mondo esige un’attitudine al pensiero complesso”.

Per tornare al nostro tema, le curie e i loro uffici, rappresentano bene una visione ancora classica della realtà. Complicata non complessa. Volta al controllo non alla co-presenza e alla coevoluzione, a determinare le scelte con progetti e piani e non a cogliere la realtà emergente.

Eppure, le categorizzazioni con cui le curie sono strutturate non esistono in natura, sono solo frutto del nostro pensiero e del suo sviluppo nella storia – non sono oggetti reali. La vita delle persone attraversa queste categorie, non ne resta invischiata, si estende in modo non lineare ma radiante occupandole in modo variabile sia l’una che l’altra e un’altra ancora. Dove poniamo un giovane tra pastorale giovanile, universitaria, vocazionale, tempo libero e sport, salute, turismo, carità, catechesi, liturgia,…?

Il modello della Cei e quello assunto di conseguenza dalle curie diocesane è un modello corrispondente ai bisogni di una società prestazionale e funzionale. Utile allo stato, utile al commercio, utile alle regole di questo mondo occidentale… rendendo innocua la nostra presenza nel mondo.

Frutto di una forma mentis non corrispondente al reale.

“Semplificando un sistema complesso, si finisce per mutilarlo e per inficiare a priori l’intelligibilità, con il risultato, in ambito tecnico-pratico, di pregiudicare la definizione e la soluzione dei problemi, e pertanto l’efficacia delle soluzioni”.

Si fugge dalla complessità rifugiandosi nella semplificazione. Per semplificazione non intendiamo meno uffici o servizi. Al contrario. E’ proprio il loro proliferare – vedi la riforma del vicariato di Roma – che esprime quella volontà di potenza semplificatoria, che desidera scomporre la realtà in sotto-elementi così da semplificarla e controllarla in nome dell’efficienza, della competenza – di un piccolo gruppo di esperti più che in nome del sacerdozio comune. La complessità riduce perché sta nel momento presente, la semplificazione aumenta perché non tollera l’incertezza e l’indeterminato.

“Il pensiero complesso si delinea come pensiero che consente di trattare l’incertezza e approntare strategie per affrontarla. Collega, contestualizza, globalizza ma riconosce anche il singolo, l’individuale, il concreto. Distingue e congiunge senza semplificare. […] L’ostacolo della comprensione della crisi non sta solo nella nostra ignoranza: si annida anche e soprattutto nella nostra conoscenza”.

Si può essere nel mondo senza essere del mondo? È questa la annosa questione che si ripropone ancora e ancora. Quale novità può portare uno sguardo liberato dal funzionalismo? Quale novità da renderci non più innocui ma agenti di trasformazione della realtà?

La divisione rispetto ai tria munera – evangelizzazione, carità, liturgia – scinde ciò che è chiamato ad essere unito, generando nevrosi e settorialismi. Privando il potenziale della relazione triadica riducendo tutto a segmentazioni funzionali. Peggio quando nelle curie di dividono gli uffici per aree, creando un nuovo livello all’interno dell’organigramma e dei ruoli di comando (esempio: il vicario episcopale di area pastorale). Riusciamo in un mondo complesso a complicarci. Vogliamo tornare all’essenziale appesantendosi. Ricerchiamo l’essenziale moltiplicando i servizi e le presenze, allontanandoci dalla vita con l’ansia di inseguirla. Atteggiamento schizoide.

Quale novità, mi chiedo ancora. Sottraendoci da una visione divisiva, funzionale, gestionale, presenzialista. Come tornare all’essere, alla vita contemplativa, ad un nuovo sguardo sul mondo in grado di provocare l’altro nell’assumerlo, spiazzarlo, decentrarlo dal proprio sé riflesso, dalla macchina che lui stesso ha prodotto. Assumere una forma che non corrisponde ai bisogni ma che rilanci il sogno sovversivo del Regno.

Una Chiesa missionaria non si presenta in una terra straniera – come è oggi il mondo che è chiamata ad abitare – dotata di organigrammi articolati e programmi di servizi predefiniti. Si cura solo di una cosa, come il cammino sinodale sta invitando a fare, ascoltare la vita che ci passa accanto e ci interpella –  come Gesù coi due di Emmaus, con l’emorroissa, con la siro-fenicia, con il cieco nato, con i lebbrosi, con l’indemoniato… Eppure mentre ascoltiamo già stiamo affinando l’ultimo progetto, elaborando l’ultimo sussidio. E cerchiamo di convincere quel povero Cristo che lo facciamo per il suo bene, perché noi sappiamo ciò che è importante per lui. Non gli permettiamo di arrivare a dire ‘Sciocchi e tardi di cuore’ perché ci siamo già fermati in riunione, pronti ad occupare altro spazio, a rubare altro tempo. Ma la vita tira avanti, non c’è posto per lei nel nostro albergo funzionale.

Solo contemplare l’onda:
senza invocare transito
o cibo; ospitarla
nella mente, senza frutto,
senza tentare alcuna costa,
né alcuna schiuma
frangere. Non più strumento:
leggere il mare.

Pietro Ingrao, dalla raccolta “L’alta febbre del fare”