Proviamo a descrivere la parrocchia come un sistema, distinguendo tra sistema chiuso e sistema aperto. Questo ci aiuterà a comprendere meglio quali scenari per giungere ad una parrocchia sinodale e missionaria.
La pantera
Dal va e vieni delle sbarre è stanco
l’occhio tanto che nulla più trattiene.
Mille sbarre soltanto ovunque vede
e nessun mondo dietro mille sbarre.
Molle ritmo di passi che flessuosi e forti
girano in minima circonferenza,
è una danza di forze intorno a un centro
ove stordito un gran volere dorme.
Solo dalle pupille il velo a volte
s’alza muto. – Un’immagine vi penetra
scorre la quiete tesa delle membra –
e nel cuore si smorza.
Rainer Maria Rilke
Ci sono forme che per custodire e proteggere alla fine ingabbiano. E come la poesia di Rilke ci mostra, le sbarre flettono lo spirito delle persone, addomesticano la sua natura rendendola molle e priva di slancio e desiderio. Portano la gente a riprodurre continuamente dei gesti intorno ad un centro non (più) vitale.
Un rischio non dissimile vale anche per le forme ecclesiali: di fronte ad una realtà profondamente mutata, un mancato ripensamento rischia di generare una gabbia non più in grado di dare slancio all’annuncio e all’espressione della propria natura battesimale. Io stesso, farei molta fatica ad assumere un incarico parrocchiale. Lo troverei in genere poco efficace sul piano missionario, e per lo più noioso soprattutto nell’immergermi in un intrico di dinamiche di potere e di giudizi che spesso caratterizza i rapporti intra-ecclesiali.
Eppure quante energie, quanto impegno e zelo nel mantenimento! Tuttavia, va preso atto che la stragrande maggioranza della gente si trova oramai fuori da questa gabbia, e non ne è attratta. La vita di queste persone non scorre più dentro i piani, i progetti, le proposte messe a calendario. I loro tempi non sono più i tempi della struttura. I loro bisogni non sono i bisogni di essa. Tanti sforzi ed energie a servizio di una piccola parte, per un piccolo resto, illudendosi che prima o poi anche gli altri dovranno riconoscerne la bontà. Ma non funziona così. Non si tratta del biblico ‘resto di Israele’, in quanto non si è compreso di essere in esilio, non si coglie l’esculturazione in corso del cristianesimo, si è al contrario restati chiusi nel tempio. Il resto è fuori non è dentro: chi è in grado di avere ancora un cuore che non si smorza, dei passi ancora flessuosi e forti, non si accosta in quanto sente l’odore della paglia, non quella dell’epifania ma quella stantia e rancida del recinto chiuso.
La sfida che l’articolo propone è quella di passare dall’attuale modello chiuso di parrocchia ad un modello aperto, che chiamiamo processuale, sulla scia della teoria dei processi che ci propone un altra via rispetto a quella dei progetti pastorali.
La parrocchia come sistema chiuso
Un sistema chiuso è un sistema ordinato, regolamentato, dove le persone operano dentro gruppi omologati, specializzati in un servizio. Vige un principio di iper-determinazione, in nome dell’ordine e del controllo, che inibisce ogni via sperimentale, ogni sussulto personale.
Si basa su due principi: l’equilibrio e l’integrazione.
Ci sono entrare ed uscite di energia, di risorse, di investimenti… e la sfida e l’impegno sta nel cercare di tenerle in constante equilibrio. È un sistema pensato per essere integrato: ogni sua parte ha un posto nel progetto complessivo; la conseguenza è di spazzare via le esperienze che spiccano perché sono controverse e disorientanti… nel rispetto del progetto o piano pastorale, parole educate ma in grado di gettare il sospetto in ciò che non si integra, facendo in modo che nulla si distingua. L’enfasi sull’integrazione scoraggia la sperimentazione.
La sovra-determinazione determina anche la fragilità di questo sistema. Lo rende inadatto al cambiamento, incapace di flettersi alle esigenze del momento in quanto forma rigida. Ogni elemento qui ha assegnata una funzione specifica che non può cambiare.
Il sistema chiuso opera velocemente e per questo necessita di essere chiuso nella forma: è per questo che ogni elemento presente in esso deve poter essere quantificabile, determinato, per equilibrare e ben integrare il tutto in tempi veloci.
Questo rappresentazione corrisponde a quanto emerge dalle nostre ricerche come Centro Studi Missione Emmaus. Il paradigma interiorizzato di parrocchia è schiacciato sull’integrazione delle persone che sono già presenti al suo interno più che per raggiungerne altre, sul definire con chiarezza le norme, le procedure e il programma di proposte. Il controllo e la stabilità (leggi anche equilibrio), sono ciò che pre-occupa il governo di queste realtà Qualcuno potrebbe negare queste affermazioni, ma se si opera una valutazione attenta, anche costoro si ritroverebbero inconsapevolmente in questa classificazione: nel definire gli ordini del giorno, nel non avere figure di confronto periodico, nel non delegare pienamente delle aree della pastorale, nel tempo impiegato per rassicurare e motivare i collaboratori, nella gestione pratica dell’agenda dove già l’anno pastorale a venire è stato sovra-determinato.
E’ una ‘comunità di comunità’: un sistema di sotto-sistemi autonomi e specializzati che si tratta di integrare ed organizzare per ottenere un buon funzionamento. Ciò che non è tollerato è il conflitto: dispersione di energia, intoppo tra gli ingranaggi. Meglio mettere a tacere, soprassedere, cercare un rapido compromesso oppure, alla peggio, intervenire per eliminarlo.
Un modello di parrocchia chiuso non lascia molto spazio per l’avvio di processi di evangelizzazione di carattere missionario e sinodale.
La parrocchia come sistema aperto
Un sistema aperto prevede l’incontro inaspettato, la scoperta casuale, l’innovazione…
Si libera quindi da equilibrio e integrazione. Difende la diversità e la dissonanza senza avere l’ansia di ordinare e definire tutto. Il sistema aperto è in continuo divenire ma si muove lentamente, lasciando libertà ad impulsi che sorgono dalle situazioni. La lentezza del processo non corrisponde alla velocità del buon funzionamento (integrato ed equilibrato). Possiamo riprendere dei passaggi del teologo e psicanalista Benasayag nel suo ‘Funzionare o esistere?”:
“Si tratta di agire da esploratori, partecipando alle linee di liberazione che le situazioni ci offrono. Non basta funzionare bene, essere competenti o bravi, ma di vivere. Avere il coraggio di assumere le situazioni come un insieme di costrizioni che non sono in nostro possesso. Stare nella situazione e viverla è essere aperti ai nuovi possibili che essa mi offre, osando l’esistenza più che il buon funzionamento”.
In un sistema aperto gli elementi che lo compongono non sono schiacciati dentro una funzionalità, ma possono assumere in modo flessibile altri compiti e accogliere altre possibilità di realizzazione.
E’ una ‘comunione di comunità e di opportunità’. Un fiorire di esperienze, di incroci e scambi che traggono tutti forza e senso da una comune fonte: il corpo del Cristo Risorto attraverso la Parola e i sacramenti. Chi governa può essere una molteplicità di soggetti, non viene meno però il ruolo sacramentale chiamato a custodire e stimolare questa communio trascendente: il presbitero.
Cosa caratterizza un sistema aperto
Prendiamo spunto qui da alcune interessanti caratteristiche che il sociologo Sennet indica nel suo ultimo lavoro tradotto in Italia con il itolo Progettare il disordine.
- La presenza di territori di passaggio
Le delimitazioni del sistema sono porose. Un muro poroso non fa distinzione tra interno ed esterno, permette un attraversamento, di essere violato. Non è sufficiente la trasparenza: esempio le pareti di vetro dei moderni edifici non sono porose: non c’è interscambio, passaggio, incontro.
Non sono tollerabili i modelli ‘a silos’ delle nostre parrocchie: catechisti, operatori caritas, gruppo liturgico, gruppo famiglie… dove nessuno conosce chi appartiene ad altri gruppi, ognuno legato ad una specifica funzione. La parrocchia si limita ad integrare con appositi programmi l’uso del tempo e dello spazio della comunità… evitare le sovrapposizioni! Oppure, ad avere dei momenti dove ogni gruppo presenta agli altri cosa fa… non è molto diverso da avere delle pareti di vetro… non basta la trasparenza! Integrare non è attraversare e trasparenza non implica partecipazione. Occorrono spazi ambivalenti, dove non contano le appartenenze, non conta avere delle competenze specifiche per identificarsi in un dentro o un fuori. Si può accedere ed uscire senza un vincolo. Questo crea disordine? È dal disordine la vitalità!
Distinguere i confini dai bordi: il confine è un margine dove le cose finiscono, il bordo è un margine dove gruppi diversi interagiscono. Il confine è un territorio sorvegliato, di protezione, mentre il bordo è uno spazio liminale. I confini riducono lo cambio privilegiando il centro, mentre è nelle periferie che avvengono scambi vitali, si realizzano dinamismi tra le varie persone indipendentemente dalle appartenenze. Si possono avere dei rischi, degli squilibri… ma l’isolamento non è garante dell’ordine sociale.
Delimitazioni porose e bordi creano spazi liminali, dove possono avvenire trasformazioni, novità: spazi al limite del controllo, della supervisione, dell’ordine uniforme. Tutti possono dare un contributo, generare una perturbazione che se accolta può permettere altro. Qui le differenze non sono oscurate ma risaltano, nella consapevolezza che non si è nel territorio noto e dominato; il centro invece cristallizza le diversità in nome del funzionamento.
- La forma incompleta
Seconda caratteristica sistemica di una forma aperta è l’incompletezza: può sembrare nemica della struttura, ma non è così. “È una sorta di credo creativo”. La progettazione non è assente ma è leggera, in quanto pensata in modo da permettere aggiunte, di poter essere rivista internamente nel corso del tempo e delle mutate esigenze della realtà.
L’incompleto permette altro. Progettare l’incompleto… è qui la particolarità. L’intenzionalità di generare qualcosa che non sia chiusa ma che consenti apporti anche non controllabili e predefinibili. Saranno le nuove condizioni, contingenze a generarli. Quando nelle organizzazioni si vuole tutto definire, programmare preordinatamene, questo non permette di staccarsi dal noto, di superare il già pensabile e non genera novità, non permette discernimento. Consente solo di trovare ciò che si sapeva già e che non è detto sia ciò di cui si aveva realmente bisogno.
Questo risuona fortemente con uno dei criteri sinodali indicati nell’instrumentum laboris del ‘Sinodo sulla sinodalità’ (per la prima sessione, ottobre 2023): “Cercare di camminare insieme ci mette anche in contatto con la sana inquietudine dell’incompletezza, con la consapevolezza che ci sono ancora molte cose di cui non siamo in grado di portare il peso (cfr. Gv 16,12). Non si tratta di un problema da risolvere, ma di un dono da coltivare: ci troviamo di fronte al mistero inesauribile e santo di Dio e dobbiamo rimanere aperti alle sue sorprese mentre avanziamo nel nostro pellegrinaggio verso il Regno (cfr. LG 8). Questo vale anche per le domande che il processo sinodale ha fatto emergere: come primo passo richiedono ascolto e attenzione, senza precipitarsi a offrire soluzioni immediate” (n. 29).
L’incompletezza permette dell’altro ancora. La completezza blocca la vita. ‘ Siamo al completo… non c’è posto per voi in questa locanda!’. E la vita passò oltre e fuori da quel luogo fece nascere la natività, il vivente.
- Narrazioni non lineari
Una comunità non si costruisce nel tempo in modo lineare. Spesso invece si cerca di progettarla in chiave sequenziale. Le forme incomplete, invece, favoriscono le modifiche nel tempo in base alle nuove esigenze.
Si tratta di non placare le tensioni, lasciare le possibilità intatte nei vari stadi della progettazione, lasciare in gioco gli elementi conflittuali. È dare forma al processo di una sperimentazione.
È quindi lasciare aperto un sistema in cui la crescita ammette conflitti e dissonanze.
Anche qui una risonanza forte con il documento sinodale: “Caratteristica di una Chiesa sinodale è la capacità di gestire le tensioni senza esserne schiacciata, vivendole come spinta ad approfondire il modo di comprendere e vivere comunione, missione e partecipazione. L’ascolto autentico e la capacità di trovare modi per continuare a camminare insieme al di là della frammentazione e della polarizzazione sono indispensabili perché la Chiesa rimanga viva e vitale e possa essere un segno potente per le culture del nostro tempo” (n. 28).
Il rispetto di questi principi permette la realizzazione di un dinamismo sinodale e aperto. Non in termini normativi, formali, ma esperienziali.
È permettere che più soggetti possano interagire con quella forma, che essendo incompleta, porosa, permette il contributo di più agenti.
Secondo la teologia dei processi
Un breve richiamo ad un aspetto complesso, che è quella dello sviluppo di teologie che hanno come riferimento il dinamismo processuale e che si fondano su una diversa metafisica rispetto alle teologie tradizionali (tra i testi in italiano vedi Nardello, Dio interagisce con la sua Chiesa, 2018; Cobb, Griffin, Teologia del processo, 1978)
Non possiamo approfondire qui questi studi, ma limitarci a dire che c’è un fondamento teologico rispetto a quanto riportato sopra, in quanto la realtà, immanente e trascendente e quindi anche quella divina, può essere vista in chiave dinamica e non come sostanza immobile e deterministica. La realtà è vista processualmente come un susseguirsi di occasioni attuali, e la Chiesa, come ogni ente/società, è quindi costituito dall’oggettivazione di tali occasioni che si susseguono. Non sostanza ma essere in divenire: creatività. Acquisire forme processuali, quindi, ci permette di corrispondere maggiormente alla natura della realtà e di partecipare più efficacemente ai suoi dinamismi. Una natura fatta non in modo predeterminato ma frutto di una dinamica intersoggettiva, fatta di interdipendenza e libertà e che ha alla base il modello trinitario. Un mutare continuo che non mette comunque in discussione la trascendenza della Chiesa, la quale rappresenta un campo privilegiato ma non esclusivo di salvezza, per entrare a contatto con il Risorto mediante l’esperienza della Parola e dei sacramenti dentro una comunità, ed aprirci e attuare sempre più la nostra conformazione al Cristo. Questa è una Chiesa chiamata a stare nella realtà.