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Senza corpo non c’è Chiesa

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Tempo di lettura: 7 minuti

I MEDIA NON DANNO LA PRESENZA MA POSSONO RIVELARE UN’ASSENZA FECONDA

undefined Francesco Pilloni

Un’acuta riflessione sull’uso dei media in chiave liturgica durante la quarantena. Sui linguaggi impiegati, spesso frutto di una mera trasposizione e non di una valorizzazione di esperienze già in atto nelle relazioni di fede e nelle comunità. Media che non permettono di sperimentare una presenza, malgrado gli sforzi, ma che accettando consapevolmente questo limite possono mettere in luce una ferita, un’assenza che può divenire provvidenziale. Don Francesco è sacerdote della Diocesi di Verona dove è Delegato Vescovile per la riconciliazione ecclesiale della famiglia, è docente di Teologia patristica del matrimonio e della famiglia presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II di Roma e coordinatore del Centro di spiritualità «Padre Enrico Mauri» presso l’Opera Madonnina del Grappa di Sestri Levante.

Il tempo che viviamo è stato sensibilizzante per molte realtà ecclesiali, e ha posto nuova attenzione sulla vita delle famiglie, e in particolare sul rapporto tra la realtà familiare con la liturgia e il culto. Le famiglie erano fino al Covid regolate e guidate dall’abitudine, da una prassi consolidata: le sere dedicate ai gruppi parrocchiali, le attività caritative, le riunioni, le attività catechistiche, le domeniche regolate dalla partecipazione alla messa in parrocchia. Angolature diverse per bimbi piccoli, adolescenti, giovani, genitori, nonni, ma per tutti il medesimo ritmo e la medesima prassi. La sospensione – sia pur temporanea – delle attività dovuta al distanziamento e la sospensione prudenziale delle assemblee liturgiche e di ogni altro incontro, se da un lato ha chiuso la famiglia in casa, costringendola a ripensare i suoi tempi ed i suoi modi, dall’altro ha aperto la famiglia alla questione della fede condivisa, pregata, celebrata. Parlo della vita ordinaria, perché un accenno ulteriore va fatto per gli eventi straordinari, che segnano con il sigillo della fede momenti particolari e importanti della vita, quali la nascita (battesimo), la morte (incontri nelle case e funerali), le nozze (matrimoni). Ma mentre gli avvenimenti felici potevano aspettare, non così è stato con l’accompagnare la morte dei nostri cari nel segno della fede e della speranza cristiana. I media hanno contribuito a diffondere in ogni casa la difficoltà vissuta in modo dolorosamente intenso in zone particolarmente colpite dall’epidemia. E l’impressione è stata quella – penosa, anche se non sempre e non del tutto pienamente vera – delle “chiese chiuse”.

Si pone così la domanda, viva in moltissime famiglie, sul come vivere questo momento, anche solo in termini di supplenza. Come trasferire liturgia e culto in famiglia? Cosa era possibile fare, come dare continuità all’educazione cristiana, alla preghiera, alla domenica, al perdono e alla riconciliazione? Certo, i problemi erano più estesi, perché in gioco in modo più ampio è la vita di relazione e di socializzazione di tutti, segnati dal distanziamento sociale, dall’impossibilità del contatto diretto, dello scambio fisico, sostituito da incontri distanziati, segnati dalla difesa dei guanti e delle mascherine, che lasciano intuire l’altro come una minaccia, almeno potenziale. Ma prescindendo da questi aspetti, in realtà per niente secondari – e ce li ritroveremo a chiese riaperte, tra comunioni date con i guanti, posti da prenotare a spazi alterni, le gestualità sospese – qualche riflessione si è mossa sui temi del culto e della liturgia.

In un “tempo di supplenza” ognuno ha cercato le sue strade: i pastori moltiplicando la disponibilità delle messe in streaming e dei momenti di incontro vissuti tramite videoconferenze in diverse piattaforme. Si è cercato così di supplire quanto venire meno nell’esperienza: la “partecipazione”. Le famiglie si sono avvalse di vari sussidi (troppi?) forniti dalle diocesi, dalle parrocchie, dai movimenti e dalla aggregazioni. Dobbiamo dirlo: tutti simili, con variabili del tutto secondarie. E non si può negare sia stato lodevole. Ma non si sfugge l’impressione che non fosse del tutto proprio. In fondo, da buoni “cattolici” abbiamo trasferito altrove il linguaggio della chiesa, della liturgia, forse senza chiederci a sufficienza se fosse un linguaggio adatto alle circostanze, agli ambienti, ai mezzi (prima questione). E senza verificare, in modo adeguato, se non avessimo già all’interno dell’esperienza della fede e delle comunità, altri linguaggio più disponibili (seconda questione). Non sono critiche, e chi scrive non avrebbe saputo fare diversamente. Sono solo osservazioni per avviare una riflessione. Sono due domande, non una. E la più importante è la seconda. La risposta alla prima è stata in certo modo affrettata, intensificata dalla situazione di emergenza, che fu improvvisa, e così la seconda è caduta in un oblio di scarsa fecondità. Ricordo i tempi delle prime televisioni cattoliche, quando, senza avvedercene, trasferivamo (non so se l’imperfetto sia corretto, o il presente non sarebbe più adeguato) sul mezzo televisivo ciò che costituiva al nostra ricchezza. In parole semplici – e mi si perdoni la grossolanità se fosse tale – trasferivamo pulpito e confessionale sul mezzo televisivo, insieme alla trasmissione delle celebrazioni. Dialoghi e lettere con gli ascoltatori sostituivano una confidenzialità di fede sulle mille problematiche e dolori che la vita offriva, ad integrazione di confessionali sempre più dimenticati; e bastava inoltre accendere la tivù per trovarsi faccia a faccia (si fa per dire) con qualcuno che insegnava qualcosa e sviluppava punti di vista cristiani, più o meno specifici, su ogni cosa. E così mi sembra abbiamo fatto, guidati da un istinto intuitivamente sano, con culto e liturgia. Se la montagna (i credenti, la famiglia) non può andare alla montagna, allora è semplice far andare la montagna a Maometto: c’è la tivù, ci sono gli smartphone, gli ipad, i computer e internet. E con fede abbiamo spostato la montagna (cfr Mt 21,21), portando nelle case la condi-visione di preghiere, rosari, suppliche, e della stessa eucaristia. Il sapore dell’insufficienza è rimasto in bocca a tutti, perché il senso della distanza prevaleva su quello della prossimità, e i nostri linguaggi non sono quelli del mezzo.

La liturgia è il pane di Dio: lo devi mangiare, e non lo puoi gustare in televisione o sullo smartphone. Il dialogo, la parola, l’apertura del cuore – sia nel versarsi al di fuori che nell’accogliere al di dentro – esigono il volto dell’altro, la presenza reale che, se manca, è una ferita. Nessuno lo dice meglio di san Giovanni della Croce che parla della “dolencia de amor, qui no se cura sino con la presencia y la figura”. Come dire che l’assenza di ciò che si ama pone una ferita d’amore, che solo la presenza e la realtà tangibile che essa offre curano (Cantico spirituale B, strofa 11). Si tratta come si vede, di qualcosa di così umano, che attraversa l’umanità in tutti i suoi piani: la presenza appartiene alla realtà di ciò che siamo e non può essere sostituita o virtualizzata. Il tentativo, lodevole in prima battuta e del tutto emergenziale, di usufruire dei media, è di per sé destinato ad essere molto povero, se non a fallire. Ho apprezzato con ammirazione lo stile che Papa Francesco ha voluto adottare in Piazza San Pietro: vuota e punto. La massima presenza è stata data dalla massima assenza, perché quella e non altro era la realtà. Si doveva assumere l’assenza, ed è stato fatto con spirito, ma senza trasformarla in una presenza. Non è stato detto, nemmeno tra le righe: “oh, come possiamo essere vicini anche così”. E’ stato detto: “Oh, come siamo lontani, come è dolorosa e vuota questa lontananza che viviamo; tuttavia non la subiamo, ne facciamo un recipiente per accogliere altro”. E questo “altro”, oltre che nella presenza del Signore nel mistero del suo Corpo/Chiesa, era detto nelle parole e nelle preghiere del Papa. In certo modo è stata rivelata la forza e il limite del mezzo comunicativo, che se non può dare presenza, può rivelare quanto sia grande l’assenza. E anche come possa divenire feconda.

La liturgia è come la Chiesa un fatto “di carne”, è reale. Il fondamento è dogmatico: è realtà ed esperienza di amore. E’ comunione di amore tra Dio e l’umanità, tra il Signore ed ogni comunità. E ogni comunicazione di amore esige un incontro. E l’incontro è incontro: Dio non sposa l’umanità per procura, nella presenza di qualcuno che pronunci parole e compia gesti al posto suo. Sarebbe terribilmente ariano. Gli ariani propugnavano in fondo con la loro dottrina che Dio si era avvicinato all’umanità tramite la più nobile delle realtà create, e non che si fosse veramente e personalmente incarnato nel Figlio/Verbo, assumendo la natura umana e unendola a quella divina per sempre. Solo un clericalismo diffuso e inavvertito, che vede nella liturgia una sorta di auto-celebrazione della Chiesa che celebra se stessa, quasi dicendo la propria realtà con gesti simbolici e significanti, può accogliere una liturgia di distanziamento. E se la Chiesa deve farlo, per il bene di tutti e per un tempo, è un grido allora che sale, perché la distanza si sente. Una liturgia “ariana” nella quale il Padre si avvicina a noi in modo virtuale, il Figlio si partecipa nell’etere e lo Spirito si fa virtualità, non trova spazio di autenticità. E allora venga anche la provvisorietà dei media e ridesti la provvidenzialità dell’assenza.

Non ogni linguaggio è adatto ad ogni mezzo. Se i media difettano strutturalmente, se la virtualità dell’incontro è una ferita, la famiglia invece offre un paradigma diverso: semplicemente è. Così: semplicemente è: è un fatto, e un fatto di amore, di relazioni, di legami. Non è una individualità trasferibile – come non lo è la Chiesa – è una rete che ha forza reale. La realtà viene dall’amore, dalla relazione, non dalla individualità. La realtà è il Dio di amore presente nel nostro essere persone capaci di amare e nelle nostre relazioni, non nel nostro essere individui capaci di somma e sottrazione, nella nostra capacità di essere popolo di persone nell’amore di Cristo, non somma di individui singolarmente credenti: noi crediamo insieme, come Corpo. “Io credo …” è la Chiesa che in bocca mia lo dice, non la mia bocca che si assomma alle altre. Il mistero di Dio che vive nella famiglia è la comunione. La capacità di amare presuppone l’altro, gli altri e si fa rete reale di incontro, di relazioni e di unità. E’ quello che San Giovanni Paolo II ha definito la sponsalità della persona umana. Nessuno è sposo o sposa da solo. Sono questi elementi che siamo chiamati a riscoprire per togliere il velo alla liturgia familiare. La liturgia della famiglia abita nel cuore delle relazioni, della famiglia stessa, non va cercata al di fuori, quasi in una imitazione casalinga della liturgia della Chiesa. La liturgia, come la parola dice (dal greco leiturghèo) è per sua natura un atto pubblico, è oltre la famiglia. La differenza sta tra partecipazione creativa e imitazione. E questo ci rimanda a qualche riflessione circa la Chiesa e la famiglia, che magari in futuro possiamo riprendere.