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SERVI DELLA COMUNIONE e non della buona educazione

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Tempo di lettura: 7 minuti

13Uno della folla gli disse:
“Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità”.
14Ma egli rispose:
“O uomo, chi mi ha costituito
giudice o mediatore sopra di voi?”.

(Vangelo di Luca, 12)

Quante volte può capitare in una parrocchia delle nostre che uno dei nostri volontari entri in conflitto con un altro uomo di buona volontà, che i due si scannino sempre mantenendo un tono di conciliazione ecclesiale, e poi entrambi, sfiniti da un balletto di finta e reciproca gentilezza si rivolgano al prete, perché dia ragione a chi se lo merita? E ancora, quante volte può capitare in una parrocchia delle nostre che uno dei nostri gruppi, che svolge in modo meritorio un servizio ecclesiale, si trovi nella spiacevole condizione di creare impiccio ad un altro gruppo, altrettanto blasonato, e che quest’ultimo grazie alla santa pazienza che ci contraddistingue inizi una guerra senza quartiere che invoca alla lunga un mediatore che sistemi tutto, e che questo mediatore sia in fondo il prete?

Nei pochi anni di vita pastorale che ho alle spalle, mi sono trovato spesso nella condizione che mi pare il Vangelo evochi, nel versetto riportato in citazione, e a differenza del Vangelo, di buon grado ho visto accettare, e ho dovuto accettare il ruolo del mediatore e del giudice, che invece Gesù rifiuta, rimandando ad un atteggiamento che nelle nostre comunità – forse – c’è stato all’inizio, ma poi, a lungo andare si è smarrito e non è più ritornato. Ma perché questo accade? Perché da una parte i fedeli laici guardano al prete come ultimo tribunale delle questioni di vita parrocchiale, e i preti stessi si interpretano come custodi di una non ben determinata armonia, che deve conservare l’idea che le cose vadano bene e che non ci siano conflitti? Questa è la coppia di domande che sta alla base di questa mia riflessione che metto su carta per poter condividere un pensiero, e per eventualmente coinvolgere altri in una riflessione sul ruolo e sulla figura del ministro ordinato nelle nostre comunità, in questo cambio d’epoca.

Una visione più ampia (?)

Questo è quello che mi sono sentito dire una volta, quando ancora ero “dall’altra parte della barricata”, da parte del mio prete dell’oratorio. All’ennesimo screzio tra il gruppo degli educatori e quello degli allenatori della squadra di calcio, rivolgendomi a lui, ho chiesto perché, se quelli del calcio avevano un problema, non potevano rivolgersi direttamente agli educatori, che avrebbero ascoltato le ragioni e avrebbero potuto risolvere il problema (o forse, in maniera più onesta, avrei potuto ammettere che lo avrebbero aggravato). Lui mi rispose: “perché dal punto prospettico del prete si gode una visione più ampia, che può considerare molti più aspetti, che dal punto di vista particolare dell’educatore o dell’allenatore non è possibile considerare”. L’argomentazione mi era sembrata allora molto intelligente e non avevo opposto obiezioni. Oggi, compiuto il lungo viaggio del seminario e dopo l’ordinazione presbiterale, mi chiedo se la mia visione prospettica ha assunto davvero uno sguardo ampio, tale da poter svolgere con quella stessa lucidità il compito evocato e che ora dovrebbe essere nelle mie disponibilità, come una sorta di quarto munus (il munus vedendi?). Nelle nostre strutture parrocchiali e oratoriane, il prete spesso abita al “piano attico”. Dall’alto, egli effettivamente vede muoversi la vita dell’oratorio sotto il suo sguardo attento e vigilante. Vede tutto, tranne i dettagli. Ha un punto di vista che gli permette effettivamente una visione più ampia, ma difetta nell’analisi e nella lettura dei vissuti, che spesso si svolgono più che in campo aperto, in luoghi riservati e al sicuro da sguardi indiscreti. Insomma, quando due bambini litigano all’oratorio estivo, il prete effettivamente fa riferimento al “potere” dello sguardo più ampio, o semplicemente fa riferimento all’esperienza, e a partire da quella risolve la cosa? Molto probabilmente il prete inferisce che: sicuramente centrano entrambi i bambini, e sicuramente devono avere entrambi un briciolo di ragione. A quel punto, con voce autorevole zittisce i lamenti, e invoca una pace che non risolve il conflitto, lo annienta e lo annichilisce, non tanto a partire da una visione prospettica, ma piuttosto a partire da una autorità che decide, e che mette i due bambini in situazione di passività. La visione più ampia quindi viene ritradotta, e assume la forma della “visione del prete”, di fronte alla quale un tempo si abbassava la testa e si taceva, accettando il verdetto, mentre ora non funziona più e nella migliore delle ipotesi non tocca il conflitto, ma spinge le due parti a nasconderlo nei sotterranei, dove può proseguire indisturbato la sua opera.

Giudice, mediatore, o …

La situazione evocata nel paragrafo precedente mi pare si avvicini di più alla condizione del “giudice”. Il magistrato, posto equidistante dalle parti in gioco, ascolta le arringhe dei vari capi cordata, e poi emette un giudizio in base alle sue valutazioni (o al massimo a quelle della giuria, nei film americani). Il giudizio è accolto, come già ho detto, in base ad una autorità riconosciuta da entrambi i contraenti, e la decisione spesso risulta irrevocabile, quando a decidere è il Parroco, a meno che non si voglia fare ricorso a qualche autorità superiore che, se accetta il gioco, permette alla questione di diventare più grande di quello che è. Ho assistito, e non è stato per me un bello spettacolo, ad un incontro richiesto da un gruppo di fedeli, ad un vicario episcopale della nostra diocesi che non erano d’accordo con una decisione presa dal Parroco della loro comunità. Il Vicario ad un certo punto, probabilmente per chiudere il capitolo delle colpe ha dichiarato: “Verificherò e poi risolverò la faccenda!”. Il disappunto veniva dalla considerazione che il Vicario aveva già provveduto a risolvere la questione, nominando quel Parroco! Da questa breve vignetta, mi viene da pensare che la condizione di giudice è certamente affascinante quindi, ma non sembra favorevole alla risoluzione dei conflitti. Ci sarà sempre, e soprattutto in quest’epoca, una autorità superiore a cui rivolgersi per avere giustizia… e se non ci sarà più un prete (visto il numero ridotto delle vocazioni e dei ministri attivi sul territorio), ci sarà sempre un Papa a cui consegnare l’ultima parola e l’ultimo verdetto!

La figura del mediatore mi affascina. Non è un giudice, innanzitutto.

Il mediatore ascolta le ragioni di uno e dell’altro, per poi arrivare ad una sintesi autorevole che tenendo conto delle esigenze dei contraenti, permette di approdare ad un compromesso che non agisce sul conflitto, ma sugli effetti. Regola in qualche modo il gioco di potere che sta alla base di ogni scontro, definendo gli spazi, e stabilendo i nuovi confini, in base a quello che nella discussione civile e rispettosa, i due o più contraenti sono riusciti ad esprimere. Nella mediazione, le parti perdono qualcosa, ma almeno non si fanno più le scarpe. Anche la figura del mediatore però viene stigmatizzata nel Vangelo come un versante impraticabile per Gesù, una via che lui non se la sente proprio di percorrere.

Facilitatore di processi

Gesù nel Vangelo rifiuta il ruolo di giudice e mediatore. Quindi è uno che non prende posizione? Mi sembra un po’ semplicistica come conclusione. A me pare che assuma un ruolo più significativo e più affascinante. Con il suo diniego, egli indica ai due fratelli una via che avevano dimenticato di poter percorrere, e che piuttosto che sottrarre, aggiunge, perché restituisce dignità. I due, nella foga di cercare qualcuno con cui parlare, si erano dimenticati di parlarsi! Avevano dimenticato che il conflitto non è un momento buio della relazione, ma piuttosto un momento di crisi, di purificazione e di reciproca crescita. Rifiutando il ruolo di giudice e di mediatore, Gesù assume, mi sembra, la forma del facilitatore di processi. Consapevole che il problema dei due possono risolverlo solo loro, egli li invita a guardarsi, ad incontrarsi e ad attraversare la crisi per rinascere nuovi, se possibile più fratelli di prima. Anche i nostri volontari o i nostri gruppi parrocchiali, credo, a partire dalla mia esperienza, si sono persi questo tesoro. Lo hanno seppellito nel campo, ma piuttosto che correre a vendere tutto per acquistare quello stesso fazzoletto di terra che contiene una speranza nuova e uno stile più evangelico, affetti da un disturbo di memoria a breve termine, hanno cominciato a darsele di santa ragione. Hanno smarrito la certezza di potersi incontrare, di potersi parlare, e di poter crescere dentro quel confronto autentico e sincero che il conflitto può far scaturire. La “voglia di aver ragione” e di “spuntarla” ha avuto più voce in capitolo del “desiderio di non perdere la fraternità”. L’attenzione all’organizzazione e il bisogno di “fare in fretta” ha messo in secondo piano la via ben più affascinante, ma anche più costosa, del costruire e sostenere relazioni positive e fruttuose.

Una proposta concreta

Al termine di questo lavoro di apertura, provando a mettere insieme e a collegare i dati, provo ora ad avanzare una proposta, che possa dare un orizzonte concreto al discorso. Perché, se sui principi possiamo essere tutti d’accordo, è la prassi che spesso ci frega! Un primo gradino di azione chiede di prendere le distanze dall’ansia di risolvere tutto e subito. Il paradigma progettuale che ci tiene ancora spesso in scacco non ci aiuta, ma la riflessione aperta e consacrata dal sinodo sulla sinodalità potrebbe aiutare a convertire questo punto di riferimento con un paradigma più rispettoso, processuale. L’ansia e le urgenze muovono dalle parole del nemico, che entrano in perfetta consonanza con il nostro desiderio di far filare per forza tutto liscio. Le ispirazioni e la pace che ne proviene sono invece sentieri che vengono aperti se si lascia agire lo Spirito e se si chiede a lui di guidare il movimento di conversione e di adattamento. Un secondo gradino di azione domanda di restituire ai contraenti la patata bollente. Interpretando la consegna come una delega, restituire la palla a chi sta effettivamente giocando è un atto che libera le energie e le responsabilità dei due contraenti – che resterebbero latenti – perché si esprimano e possano trovare, anche in modo creativo, una soluzione. Non si tratta, per il prete, di fregarsene. Si tratta piuttosto di aiutare chi sta combattendo a ritrovare il volto del fratello al di sotto dell’armatura che ciascuno indossa. Si tratta di rinunciare ad una posizione superiore per assumere una posizione laterale, che stimoli il pensiero e le risorse già presenti in coloro che, abitando nei nostri territori, hanno almeno già incontrato una volta la misericordia di Dio e l’hanno sentita come motore di una svolta significativa e reale.

I fratelli laici, che collaborano nelle nostre parrocchie, sono adulti. Continuare a trattarli come trattiamo i bambini all’oratorio estivo, non ha altro esito se non quello di imprigionarli in una condizione che sta stretta a loro (e anche a noi). Non si tratta però di formarli alla fraternità. Si tratta di lasciare che possano esercitarla! Quando in famiglia succedeva qualcosa che creava tensione tra me e mia sorella, mia mamma aveva un rimedio fantastico: “Risolvetela prima di pranzo, o di cena!”. Non era, come già detto menefreghismo. Era fiducia. Nelle mie qualità e in quelle (meno spiccate, ovviamente) di mia sorella. Che bello sarebbe poter dire: “Non sono io che devo risolvere… ma prima della messa, risolvetela!”.

L’ultimo e il terzo gradino (c’è sempre un terzo gradino, quando chi parla – o chi scrive è un prete!) chiama in causa l’autenticità di una chiesa che accetta di essere un laboratorio e non un museo. Una chiesa non inamidata, ma vissuta, capace di fermarsi alla fine della giornata per lavare l’unica tunica della quale si è rivestita, e di restare nuda, perché minimamente intimorita di mostrarsi per quello che è agli occhi del mondo. Non siamo il popolo santo di Dio perché non commettiamo errori. Siamo il popolo santo di Dio perché gli errori e le ferite, anche profonde come possono esserlo quelle dei chiodi della resurrezione, non ci annientano, ma ci permettono di rialzarci e di continuare a camminare. Siamo il popolo santo di Dio perché nei nostri cuori che badano di meno all’apparenza e che difendono la verità delle cose, abita corporalmente la pienezza della divinità.

don Francesco Agostani