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Rinnovamento o ‘bonus facciata’?

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OLTRE IL RESTAURO E RESTYLING ORATORIANO

Una riflessione che ripercorre gli ultimi 50 anni di storia oratoriana per rileggere alcuni snodi pastorali e culturali e lanciare una sfida, che pone tutti di fronte ad una scelta: semplice restyling per ‘salvare il salvabile’ o ‘cambio di scarpe’, di setting pastorale.

Il terremoto

La scossa più forte risale ormai a oltre 50 anni fa, agli anni della contestazione giovanile. Lo spavento ed il trauma furono assai profondi, arrivando a scuotere la realtà oratoriana (e più in generale la pastorale giovanile) fin nelle fondamenta.

Il terremoto socioculturale di quegli anni – oggi diremmo un ‘cambio d’epoca’ – incrinò molte certezze pastorali, aprendo profonde crepe e dolorose fratture – alcune prevedibili, altre inattese – tra Chiesa e giovani generazioni.

Gli effetti di quel ‘cambio d’epoca’ sulle realtà giovanili di matrice ecclesiale furono diversi: alcune restarono di fatto sotto le macerie (si pensi ad esempio alla Azione Cattolica), altre dovettero affrontare periodi di profondi ripensamenti (Agesci, Acli, CSI), altre ancora scelsero di rinascere dalle loro ceneri (CL da Gioventù Studentesca).

Anche gli oratori, avvertirono il tremendo scossone, tanto che la stessa diocesi ambrosiana, la culla degli oratori, per bocca del suo arcivescovo di allora il card. Colombo si pose seriamente la domanda se per gli oratori ci fosse un futuro: ”Porsi il problema se ci sia o no un domani per le istituzioni oratoriane, è legittimo in questo momento di accelerata trasformazione (..) Ci domandiamo: è una crisi di esaurimento e di fine o invece di rinnovamento e di crescita?” (settembre 1969). 

Il post terremoto

Dopo una fase iniziale di profondo smarrimento, tuttavia, la realtà oratoriana parve riemergere da quel sisma culturale e pastorale sfigurata e con diverse macerie ma, almeno in apparenza, senza danni strutturali alle fondamenta (il paradigma di riferimento), grazie soprattutto all’anima popolare e radicamento nel territorio, insieme ad una collaudata organizzazione e tradizione educativa.

Ma la sensazione di averla scampata e soprattutto che il terremoto fosse passato si rivelarono in seguito sempre più una illusione. In realtà, quella della contestazione giovanile fu solo la scossa più forte, cui ne seguirono diverse altre nei decenni successivi.

Purtroppo, infatti, come molti responsabili di pastorale giovanile e oratoriana hanno sperimentato, più si interveniva su una crepa, più se ne aprivano altre. La solerte azione di ‘puntellamento’ subito avviata finiva per essere tanto necessarie quanto precaria.

Mentre, ad esempio, la proposta dell’oratorio estivo andava sempre più qualificandosi, fino ad assumere un ruolo chiave nella vita oratoriana, si apriva la voragine del post cresima, aspetto sul quale il Cardinal Martini già negli anni ’80 sollecitava un severo esame di coscienza, ricordando anche all’oratorio che non poteva essere impostato «solo su ciò che è più facile, cioè sulla cura dei ragazzi più piccoli fino alla cresima”.

Se da un lato cresceva l’osmosi pastorale tra oratorio e parrocchia, di cui la maggior presenza coinvolgimento delle famiglie nella vita e gestione oratoriana era uno dei segni più evidenti, dall’altro si intensificava l’emorragia di adolescenti e giovani: oggi solamente l’1% dei ragazzi indica come figura di riferimento una figura legata al mondo cattolico (parroco, educatore dell’oratorio o altra figura religiosa), percentuale che arriva solo al 3% tra i cattolici impegnati (Indagine Ipsos per Odl, 2016).

All’incremento e maggior attenzione nel favorire accoglienza, inclusione, solidarietà verso ragazzi svantaggiati o provenienti da altre culture e fedi religiose, faceva riscontro la difficoltà nel mantenere il controllo delle attività, ad esempio quella sportivo: le esigenze di autonomia espresse dalle società sportive verso l’oratorio restavano incomprese o mal tollerate producendo sovente situazioni da ‘separati in casa’ (emblematica quella tra catechisti ed allenatori), un disallineamento pastorale che solo molti anni dopo verrà riconosciuto (Nota Cei ‘Sport e vita cristiana’, 1995).

Impalcature o o sogni?  

Insomma, oggi possiamo a ben ragione affermare che non c’è oratorio o ufficio di PG che non abbia delle ‘impalcature’ pastorali montate, non sia impegnato in lavori di ristrutturazione e non sia preoccupato della tenuta complessiva della proposta.

In che modo affrontare la situazione? Con quale sguardo e decisioni affrontare il futuro?

Le risposte, gli atteggiamenti e le scelte sono – come sempre quando si vive una crisi – diverse. In estrema sintesi, si può scegliere la conservazione o il cambiamento.

La prima scelta si può riassumere con ‘salvare il salvabile’: questo è l’approccio pastorale e l’obiettivo che nonostante le evidenze sembra animare molti responsabili della pastorale oratoriana e giovanile. Forse qualcuno immagina (e spera) di poterlo fare migliorando la ‘classe energetica pastorale’ dell’oratorio, ovvero ‘facendo il cappotto’ alla proposta. Dopotutto, meglio il bonus del 110 che il ‘centuplo’ …

Qualcun altro tenta di porsi nella prospettiva del cambiamento. L’attuale arcivescovo di Milano, mons. Delpini, usa la metafora del ‘cambio di scarpe’: L’oratorio si è adattato alle nuove esigenze (..) un po’ per volta (..). Ci sono però dei momenti in cui si deve mettere mano all’impresa un po’ più impegnativa e complessa di un ripensamento complessivo (..). È venuto il momento di cercare un paio di scarpe nuove” (Messaggio in apertura del percorso ‘Oratorio 2020 – Quali oratori per fare oratorio’).

L’invito del ‘ripensamento complessivo’ dell’oratorio è certamente orientato al cambiamento. Esso tuttavia rischia di restare suo malgrado negli attuali modelli e cornici pastorali: ‘cambiare le scarpe’ dà per scontato che si debbano avere delle scarpe, dunque confermare le premesse di partenza.

Non basta allora ‘cambiare le scarpe’ ma occorre chiedersi ‘perché abbiamo bisogno di scarpe?’ 

A ben vedere entrambi gli approcci (conservazione o cambiamento) sono figli del paradigma da cui provengono, non operano una ‘conversione’ rispetto al paradigma, ovvero un lavoro di consapevolezza (discernimento) e di cambio di direzione (nuove prassi) rispetto ai modelli socioculturali e pastorali adottati e dati per scontati.

Dopo il ‘terremoto’ e ciò che ne è seguito, non si tratta di ricostruire ma di generare. Siamo chiamati ad andare oltre il semplice cambiamento programmatico per procedere ad un salto paradigmatico: il primo si preoccupa di cambiare contenuti (cosa) e metodi (come), di elaborare progetti; il secondo lavora sul senso/significato (perché) e di facilitare processi; il primo rincorre la risposta ai bisogni, il secondo sceglie la leggerezza dei sogni. Il primo va alla ricerca del ‘nuovo oratorio’, il secondo dell’’oratorio nuovo’, frutto del sogno profetico.

Sempre più oratori stanno coraggiosamente scegliendo di ‘sognare l’oratorio’, dare spazio alla profezia e non all’ennesimo sterile progetto. Il sogno è più di un progetto perché i progetti non generano sogni. Missione Emmaus li sta accompagnando, perché non abbiano timore nel ‘lasciarsi andare’, leggeri, scalzi.