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Quando la passione prosciuga

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Tempo di lettura: 6 minuti

STRESS E BURNOUT PASTORALE

Il nostro Roberto Mauri, docente del laboratorio online su ‘Stress e Burnout pastorale‘, ci aiuta a comprendere cosa si intende per stress e per burnout nell’azione pastorale. Si tratta di due esperienze che in alcuni casi questo tempo di pandemia ha amplificato, ma se analizzate come qui viene fatto possono essere affrontate in chiave positiva e antifragile, generando nuove alleanze e modelli relazioni per il futuro.

“A volte siamo sommersi da troppe richieste troppe cose contemporaneamente troppo poco tempo per prepararci troppe emozioni da vivere e in cambio i risultati sono scarsi”.

“E’ vero che l’importante è seminare perché i frutti si vedranno dopo come sempre ci insegnano. Ma quando non ti dicono neanche grazie fa proprio male. Io mi sento come usato”

Le due testimonianze sopra riportate possono aiutare a dare l’idea di cosa significa nel vissuto concreto di un operatore pastorale sentirsi in condizioni di stress o, peggio ancora, di burnout. Stress e burnout pastorale sono due condizioni che segnalano una difficoltà, quando non una autentica crisi, nel compito di guidare o collaborare in un contesto ecclesiale, comunità parrocchiale, comunità religiosa, oratorio, associazione.

Entrambi gli aspetti evidenziano una fatica, che talvolta arriva anche al fallimento, nel vivere ed operare le diverse responsabilità e ruoli assunti nella e per la comunità cristiana di riferimento. Una fatica ed un fallimento non sempre compresi nel giusto modo e rispetto ai quali la stessa comunità in cui stress e burnout si manifestano non sempre è in grado di porsi in modo adeguato, facendosi prossima.

L’aspetto drammaticamente curioso è che stress e burnout pastorale sono paradossalmente generati proprio dal desiderio e volontà di operare il bene, in modo zelante, attento, motivato, che tuttavia per una serie di ragioni non arriva a ‘fare bene il bene’.
Proviamo allora ad affrontare questi due aspetti, cercando di coglierne i tratti distintivi e soprattutto individuare le cause più frequenti e i rimedi più efficaci: troppi operatori pastorali infatti, nelle difficoltà dei tempi che viviamo, rischiano di essere lasciati feriti e tramortiti lungo la strada mentre sono troppo pochi i ‘samaritani’ pastorali che passano da quelle parti e troppo rare le ‘locande pastorali’ in cui trovare ristoro.

Ma ‘riconciliare gli agitati’ (stress) e ‘consolare i delusi’ (burnout) sono due delle nuove ‘opere di misericordia pastorale’ di cui le nostre comunità cristiane hanno bisogno.

STRESS PASTORALE: QUANDO NON SI RIESCE A FARE BENE IL BENE

Lo stress è dato dall’aumento della pressione rispetto alle ‘cose da fare’; si caratterizza per il senso di sovraccarico, insieme a quello di ‘ritardo’ e ‘inadeguatezza’ rispetto ai compiti assegnati ed alle attese che percepiamo nei nostri confronti da parte degli altri, della comunità.

Si crea così uno scarto tra reale ed ideale, tra obiettivi e risultati, tra il ‘dover essere/dover fare’ e non riuscire a dare le risposte desiderate. Il ‘patrono’ degli operatori pastorali ‘stressati’ potrebbe essere san Paolo, il primo ad essere consapevole di come spesso non si compie il bene voluto, ma il male che non si vuole (Rom. 7,19).

Gli operatori a rischio di stress si possono riconoscere dal fatto che sono persone ‘super impegnate’, iperattive, irrequiete, ‘velocisti’ che corrono, corrono e non possono/riescono mai a fermarsi. L’operatore pastorale stressato soffre spesso di stati d’ansia e nel contempo di nervosismo, dal momento che ha sempre il timore che gli sfugga qualcosa, di non riuscire ad arrivare dove si era proposto, una persona che si vive sempre in ritardo e con qualcosa in sospeso che non riesce a smaltire: non ha tempo di fermarsi a riflettere, osservare, finirebbe per accumulare ulteriore ritardo e quindi stress!…

Come nella storiella di quel taglialegna intento da ore a tagliare il tronco di un albero e che doveva ancora concludere il lavoro. A chi gli faceva notare che avrebbe potuto affilare meglio la lama della scure, il boscaiolo rispondeva stizzito: “Non vedi che ho fretta? Devo finire al più presto. Non ho tempo di affilare la lama!”

Si sente sempre più spesso l’invito ad evitare il ‘si è sempre fatto così’: ma è proprio l’essere vittima dello stress che impedisce il cambiamento, non la cattiva volontà o la nostalgia.

Gli operatori pastorali stressati, siano sacerdoti, religiosi/e, laici, finiscono per non rendersi nemmeno conto di ‘fare come si è sempre fatto’, tanto sono presi dalla situazione! Il loro cronico tentativo di adattarsi al nuovo senza saper rinunciare al vecchio li rende incapaci di cogliere le nuove esigenze ed opportunità pastorali.  

Correndo dietro agli impegni ed agli incarichi non hanno tempo per le relazioni, mentre proprio la costruzione di fertili relazioni dovrebbe essere il loro obiettivo. Ma devono fare, devono correre, fare cose per creare relazioni e così facendo perdendole, senza accorgersi di essere soli, benchè lo siano già.

BURNOUT: QUANDO SI SMARRISCE L’AMORE

Se l’insorgere dello stress è riconducibile ad una mancanza di equilibrio, indotto dal rincorrere ed allo star dietro alle cose, quando subentra il burnout la questione riguarda la perdita di motivazione perduta e del senso nel doversi impegnare. L’operatore pastorale in burnout si dice “Ma perché le devo fare queste cose, che senso hanno, non mi dicono neanche grazie, non mi vedono e non si accorgono: non le faccio più!”: se non mi sento visto, finisco a volte per perdere l’orientamento, il valore ed il senso di quello che sto facendo.

Andare in burnout richiede tempo: non si ‘scoppia’ per caso o all’improvviso, alche se talvolta alcune manifestazioni di questo stato di sofferenza ci colgono di sorpresa. Il processo di burnout somiglia ad una storia d’amore finita male, che si sviluppa seguendo un ben individuabile percorso: 

  1. all’inizio vi è un “entusiasmo idealistico” (tipico di ogni innamoramento) verso la missione scelta ed i relativi compiti, che vengono affrontati con generosità;
  2. quindi subentra una prima fase di “dissonanza”, ovvero la constatazione con sorpresa e stupore che non sempre la realtà corrisponde alle nostre aspettative (verifica di realtà): “Ma come – ci si chiede – con tutto quello che faccio, tutto quello che dico, non ho un riscontro come mi sarei aspettato…”. 
  3. quando questa situazione si aggrava, si produce un vissuto di “vittimizzazione“, caratterizzato da distonia emotiva. Spesso la tendenza è quella di autocolpevolizzarsi: “Forse quello che faccio non va bene, forse sono inutile, non sono in grado, non mi apprezzano”, “anche questo mi tocca fare”.
  4. a fronte di questo ormai cronico disagio, aumenta sia il senso di “inefficienza” che la tendenza a ritrarsi, fino ad atteggiamenti di disincanto e aperta disillusione. Qualsiasi progetto o nuova proposta viene vissuto come opprimente o inutile, e quel poco che si riesce a realizzare, appare insignificante
  5. l’esito finale è una condizione di “apatia”, ovvero di ‘divorzio affettivo’ e motivazionale. Interesse e passione verso i propri compiti e la comunità di riferimento si spengono completamente e all’empatia subentra l’indifferenza, fino al cinismo quale estremo tentativo di proteggere sé stessi dall’esaurimento.

Il cinismo è la cosa peggiore che può capitare perché significa perdere la speranza: diventi crudo, amaro, asciutto, e come va, va. Siamo di fronte a un disamoramento innescato dalla percezione di essere stati traditi, che a sua volta porta a tradire: potremmo dire che il burnout è la ‘sindrome di Guida’, che dal suo punto di vista si è sentito deluso, a sua volta ‘tradito’ in ciò che immaginava e sperava, incapace purtroppo di fermarsi e riflettere, come per fortuna è successo a Pietro.

Non a caso in sua famosa predica don Primo Mazzolari parlava di ‘nostro fratello Giuda’ per indicare come tutti noi siamo esposti a questo rischio e tentazione. Non è raro infatti che il burnout finisca per colpire figure di leader pastorali, facendole passare dall’essere state persone di riferimento al ruolo di più accaniti denigratori della situazione pastorale.

PREVENIRE STRESS E BURNOUT: ALLA RICERCA DELL’ALLEANZA PERDUTA

Per provare ad affrontare in modo pastoralmente efficace stress e burnout occorre anzitutto, cambiare prospettiva, operare una conversione, adottare un nuovo paradigma di riferimento, che superi il semplice adattamento o la volontà resiliente, entrambi caratterizzati da una logica del ‘tenere il controllo’.

Si tratta di passare ad un paradigma antifragile, dove la fragilità diventa risorsa e non problema o limite, ovvero aprirsi ad una maggiore ‘leggerezza’, rinunciando alla pretesa, per altro illusoria, del comando e controllo sulle situazioni. Nella prospettiva antifragile l’eventuale errore viene considerato una risorsa da utilizzare non un evento da evitare, giudicare e rimuovere. Non ‘chi sbaglia paga’ ma ‘chi sbaglia insegna agli altri’: d’altra parte non è forse vero che a chi ha molto peccato, molto sarà perdonato? 

La fragilità non è debolezza ma leggerezza; l’antifragilità non è antidebolezza ma antipesantezza. Non si tratta di ridurre il trauma (‘passerà’… adattamento) nè di superarlo (‘metticela tutta’ … resilienza) ma di assorbirlo, volgerlo a risorsa.

Le nuove alleanze portano a nuove narrazioni vitali, nutrite da un lato da una visione innovatrice frutto di una rinnovata leggerezza pastorale; dall’altro, ridando priorità al ripensamento di legami e relazioni interpersonali e comunitarie, testimoniare nel presente la riconciliazione, la profezia del ‘già e non ancora’.

La possibilità di prevenire o almeno ridurre il rischio di accumulare e non vedere molte ‘pietre scartate dal costruttore’ a motivo di stress e burnout pastorale passa dunque dall’immaginare e avviare con umiltà e coraggio sperimentazioni di nuovi assetti comunitari, in grado di accogliere e imparare dalle fragilità singole e comunitarie, metterle in rete per tessere nuove trame di senso.

In questo senso, si tratta di rileggere i piccoli errori, l’imprecisione, l’incertezza quali preziose fonti di apprendimento, attivatori di efficaci processi di discernimento per illuminare la prassi ed evitare altri errori più grandi, come pure favorire buone relazioni tra ambiti diversi per elaborare qualcosa di nuovo e trasversale, incoraggiando piccole sperimentazioni pastorali.

PER CONCLUDERE

Saremo ricordati con gratitudine più per aver saputo valorizzare gli altri che per quanto di buono avremo fatto.

Ricordiamoci infatti che “il nostro errore più grande è quello di pretendere da uno proprio le qualità che non ha, trascurando di valorizzare quelle che ha” (M.Yourcenar).