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QUANDO I VESCOVI HANNO PAURA

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Tempo di lettura: 4 minuti

QUANDO NON SONO SOLO I SACERDOTI E I RELIGIOSI AD OSTACOLARE I PROCESSI DI CONVERSIONE PASTORALE

Sacerdoti e religiose/i in difficoltà, smarrimento, burnout… ed i vescovi? a cui potremmo aggiungere… e i superiori? Non possiamo non tener conto delle figure oggi chiamate a guidare non tanto una singola comunità ma territori ecclesiali con le tante figure a loro subordinate.

La forza è solo pena –
Imbrigliata con la disciplina,
fino a che i pesi – saranno sollevati –
Date un balsamo – ai giganti –
e languiranno come uomini –
Dategli l’Himalaya –
e l’alzeranno!
Emily Dickinson

L’impressione è quella di molti vescovi in difficoltà nell’acquisire una mentalità processuale ben distinta da quella progettuale, come più volte abbiamo riflettuto su questo blog. Di conseguenza, la tentazione di bloccare i processi in atto provenienti dai territori, spinti dalla percezione di perdere un pieno controllo e una piena visibilità su quanto avviene. Sperimentare di incamminarsi verso una terra straniera fa senz’altro tremare le gambe. “Perché dovrei essere proprio io il vescovo ricordato per aver fatto questo…? Chi me lo fa fare se mi mancano più pochi anni di incarico?… come vedrà la CEI questo passaggio?”. Allo stesso tempo, come Centro Studi collaboriamo con vescovi e Provinciali che coraggiosamente si stanno incamminando nella logica dei processi pastorali.

La tentazione maggiore che vedo è quella di pensare di dover/poter governare con gli stessi modelli di leadership dei loro predecessori. Parlo di modelli di leadership carismatica, direttiva, in mano al solo vescovo o ad uno sparuto gruppo di persone attorno a lui. Rispondevano alla logica: ‘Sono io il vescovo, sono io che governo’. Con l’aggravante che i nuovi vescovi vengono scelti sulla base di profili diversi.

Da una parte dovremmo riprendere la distinzione tra decision making e decision taking: tra i dispositivi che portano all’elaborazione di decisioni per mettere il decisore nelle condizioni di farlo mediante processi partecipativi, e quelli volti ad assumere la decisione. Spesso l’indistinzione tra i due momenti dell’iter decisionale non aiuta a comprendere un diverso stile di leadership che oggi potremmo definire più sinodale.

Secondariamente, sottolineiamo un concetto da anni diffuso negli studi sociali ma forse poco assunto nel mondo ecclesiale, il fatto che stiamo vivendo in una società definita VUCA: acronimo formato dalle espressioni inglesi volatile, incerto, complesso, ambiguo. Appare evidente che un modello di leadership direttivo, accentrato, unidirezionale, lineare, può avere poco respiro in una società così definita.

L’eccessivo decisionismo o l’assenza di esso può essere frutto della sola paura? Me lo chiedo. Credo sia frutto di incertezza in entrambi i casi. Del resto chi vuol possedere e controllare non è affetto da paura di non essere? Non cerca all’esterno un riflesso del suo esserci? Poi possiamo rivestire il tutto con le migliori narrazioni, parlare di prudenza o sapienza o gradualità o continuità nella discontinuità… ma resta la paura, con il bisogno di darsene una ragione per rendersi accettabili a sé e agli altri.

Un’autorità, un’istituzione, genera vita se rimanda ad altro da sé. Dall’autorità al singolare, che richiama a se stessa, unico riferimento, confermando il suo potere, alle autorità che rinviano le une alle altre: il plurale permette altre cose.

Permettere significa ‘morire’, purificarsi, liberarsi. Significa ciò che ‘non si è’ senza l’altro. Una rinnovata armonia, la comunione, si definisce dividendosi non riducendo all’uno. Il plurale, crea uno spazio per ‘essere ancora’.

Papa Francesco, nel suo discorso di apertura della XVI assemblea generale ordinaria del sinodo dei vescovi ‘Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione’ (4 ottobre 2023), ci aiuta a comprendere questo passaggio richiamando la centralità dell’azione dello Spirito nella vita ecclesiale:

La grande opera dello Spirito Santo: non l’unità, no, l’armonia. Lui ci unisce in armonia, l’armonia di tutte le differenze. Se non c’è l’armonia, non c’è lo Spirito: è Lui che fa così. […] Lo Spirito Santo è il compositore armonico della storia della salvezza. Armonia – stiamo attenti – non significa “sintesi”, ma “legame di comunione tra parti dissimili”. Se noi in questo Sinodo finiremo con una dichiarazione tutti uguali, tutti uguali, senza nuances, lo Spirito non c’è, è rimasto fuori. Lui fa quell’armonia che non è sintesi, è un legame di comunione fra parti dissimili.

Percepirsi e narrarsi come autorità chiusa in se stessa, una monade unica responsabile di tutto, nella realtà che viviamo non può far altro che ingenerare paura. Forse anche da qui le tante rinunce alla chiamata per un incarico episcopale (se ne calcolano almeno 5-7 a incarico), da parte di chi si sente inadeguato o fuori luogo nell’assumersi quella leadership perché narrata dentro categorie e schemi che già si percepiscono inefficaci e s-clerotizzanti. Questo non toglie la responsabilità nell’assumersi le decisioni ultime che il ruolo conferisce loro ma diverso è se queste scelte sono frutto di un processo partecipato. Le decisioni prese, poi, possono risultare anche non del tutto efficaci, ma questo, nella logica processuale, non va visto come fallimento semmai come un’ulteriore comprensione della realtà, di quella terra ad oggi per noi straniera che ci è chiesto di abitare.

Vorrei concludere così: beati quei vescovi che hanno paura e la condividono, beati quei vescovi che si sentono inadeguati e comprendono così che l’essere adeguati ad un modello non più corrispondente alla realtà farà stare male loro e il popolo che sono chiamati ad accompagnare; beati quei superiori che riconoscono la loro umana fragilità e la mettono in rete con le altre fragilità, senza venir meno al loro ruolo.

Non si tratta quindi di arginare la paura, ma al contrario, di bagnarsi i polsi alla sua sorgente, per restare vigili, attenti, non lasciarsi sorprendere dalla morte dell’adeguatezza, riconoscergli un’energia purificante. Non si tratta di arginarla ma di attraversarla, far defluire il suo magma indistinto assegnandogli un nome, lasciando il passo al suo corso, estraendone un dono di rinascita.

Lascio la Parola a Ietro, suocero di Mosé:

Il giorno dopo Mosè sedette a render giustizia al popolo e il popolo si trattenne presso Mosè dalla mattina fino alla sera. Allora Ietro, visto quanto faceva per il popolo, gli disse: «Che cos’è questo che fai per il popolo? Perché siedi tu solo, mentre il popolo sta presso di te dalla mattina alla sera?». Mosè rispose al suocero: «Perché il popolo viene da me per consultare Dio. Quando hanno qualche questione, vengono da me e io giudico le vertenze tra l’uno e l’altro e faccio conoscere i decreti di Dio e le sue leggi». Il suocero di Mosè gli disse: «Non va bene quello che fai! Finirai per soccombere, tu e il popolo che è con te, perché il compito è troppo pesante per te; tu non puoi attendervi da solo”. (Es 18, 13-18)

Il seguito siamo invitati a scriverlo insieme.