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Pastorale alla Fosbury?

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Tempo di lettura: 6 minuti

PER PROVARE A VINCERE LA “SCOMMESSA CATTOLICA”

Il ‘salto alla Fosbury’ come esempio di cambio di paradigma, passare da una visione del mondo data per scontata, ad una nuova visione che rimette in discussione le certezze acquisite. Una metafora per la pastorale, per capire se sarà in grado di superare l’asticella dell’evangelizzazione che ha di fronte e che oggi la sfida in modo nuovo.

Sorprendendo tutti, ai Giochi olimpici del 1968 Dick Fosbury vince la medaglia d’oro nel salto in alto grazie ad una tecnica rivoluzionaria, ovvero superando l’asticella di spalle e non di fronte. Fino a quel momento gli atleti adottavano la tecnica dello scavalcamento ventrale, a partire dal primatista mondiale dell’epoca, Valerij Brumel (2,28 m).

L’oro ed il primato olimpico (2,24 m) furono gli unici rilevanti risultati di Fosbury, che si ritirò solo quattro anni dopo, non riuscendo nemmeno a qualificarsi per le Olimpiadi di Monaco del 1974. Da allora, tuttavia, il salto ventrale venne via via completamente soppiantato in favore dell’ormai consueto ‘salto alla Fosbury’ ancora oggi da tutti utilizzato.

Certo, non accadde tutto immediatamente: ancora dieci anni dopo, nel 1978, il record mondiale del salto in alto (2,35 m.) era del ‘ventralista’ sovietico Jascenko. Ma era ormai chiaro che si trattava del ‘canto del cigno’ di una tecnica in estinzione.

L’attuale primato maschile di 2,45 m (Sotomayor) e femminile di 2,09 m (Kostadinova) sono stati ottenuti con il salto dorsale. Ma, forse più interessante da un certo punto di vista, il salto alla Fosbury ha reso possibile stabilire il record di differenziale tra salto e statura dell’atleta, portandolo a ben 59 cm: una bella metafora di quanto sia possibile elevarsi sopra sé stessi…

“SALTO” DI PARADIGMA

Il ‘salto alla Fosbury’ è un bell’esempio di cambio di paradigma, ovvero il repentino passaggio da una visione del mondo di un certo tipo – fino a quel momento data per scontata – ad una diversa visione, che ribalta le precedenti certezze.

Nel caso del salto in alto: non spinta esplosiva delle gambe ma distribuzione del peso su tutto il corpo; non scavalcamento verticale ad angolo quasi retto ma rincorsa a traiettoria semicircolare obliqua; non fronteggiare l’ostacolo ma voltargli le spalle; non tenere lo sguardo verso il basso ma dirigerlo verso l’alto, oltre l’asticella; non il più forte, ma il più agile …

Possiamo prendere spunto da quanto successo in questa disciplina sportiva per interrogarci su quanto avviene (o non avviene) in ambito pastorale. Con quale tipo di salto la pastorale affronta la sfida dell’asticella dell’annuncio? In parole più dirette: a quale paradigma fa riferimento, quali schemi e premesse dà per scontate?

L’impressione, dal nostro punto di osservazione, è che la pastorale stia in larga misura ancora adottando una modalità di salto, che ha dato buoni risultati in passato, pur consapevoli di trovarsi nell’impossibilità di continuare ‘come si è sempre fatto’.

La pastorale – giovanile, familiare, sportiva … – sembra continuare a voler ‘saltare’ nella logica dello sforzo e del ‘controllo’, facendo appello alle risorse di resilienza rimaste; mentre invece potrebbe considerare un altro tipo di salto, quello del lasciar(si) andare, giocato sulla massima leggerezza, in prospettiva antifragile, facendo leva sulla fiducia nella libertà che ti solleva oltre l’ostacolo. Purtroppo, a volte, di fronte alle prove difficili, la pastorale sembra preferire la sollecitudine prudente (ma perdente) di Saul che la freschezza e apparente incoscienza di Davide.

La situazione è drammatica: da un lato sempre più emergono realtà ecclesiali e operatori pastorali sollecitati ad operare un cambio di paradigma che porti a definire nuove prassi, relazioni diverse, percorsi innovativi, altre e differenti priorità decisionali.

Dall’altro, purtroppo – come accade ad alcuni atleti che di fronte all’asticella non sanno che fare, ritenendo il compito impossibile o superiore alle loro forze – ancora dobbiamo constatare la presenza di una pastorale che ‘rinuncia’ a provare il salto, semplicemente ritirandosi dalla gara (possiamo solo immaginare quanto s. Paolo possa rigirarsi nella tomba, su questo).

ADESIONE vs AFFIDAMENTO: DALLA FEDE ALLA PASTORALE

Una cosa sembra comunque ormai evidente ed accettata: non è possibile sperare di cambiare la cultura, l’organizzazione e la prassi pastorale solo attraverso adattamenti tattici, variazioni sul tema, senza uscire dalla rassicurante ‘zona di confort’. 

Lo scenario religioso è cambiato in modo ormai irreversibile e sarebbe ingenuo e suicida pretendere di ‘aggiustare’ la situazione. Piuttosto, lo si voglia o meno, occorre cambiare il paradigma di riferimento, rivisitare le premesse. La scelta, infatti, non è domandarsi se cambiare o meno, ma se lo si vuol fare ‘per amore’, con gioioso tremore, oppure subire le situazioni ‘per forza’, obbligati e spaventati. 

Sono interessanti al riguardo le considerazioni proposte da Giaccardi e Magatti nel loro recente testo “La scommessa cattolica” (Il Mulino, 2019) e riguardanti il modo in cui è cambiato il rapporto con la fede, considerazioni che possono in buona misura essere ricondotte anche alla pastorale ed alla esigenza di un cambiamento di paradigma.  

Sulla falsariga del confronto operato dagli autori tra ‘fede per adesione’ e ‘fede per affidamento’, possiamo indicare il cambio di paradigma cui la pastorale è chiamata nel passaggio da una ‘pastorale del controllo’ ad una ‘pastorale della libertà’.  

Analogamente al rapporto con la fede, il paradigma pastorale fondato sulla ‘adesione’ opera a partire dalla possibilità/opportunità del ‘controllo’, ovvero dall’invito ad aderire e rispettare un modello predefinito, ovvero la richiesta (più o meno esplicita) di ‘con-formarsi’ ai principi e valori della ‘dottrina’, ovvero all’accettazione di un insieme di insegnamenti in buona misura coerenti, condivisi dalla comunità nel suo complesso anche senza la necessità di venire esplicitati.

Tale paradigma pastorale partiva dal presupposto della vita cristiana come progressivo sforzo di corrispondenza, la più precisa possibile, a una regola di vita indicata come punto di riferimento dalla autorità ecclesiastica, implicando, nelle parole degli autori “una idea forte di ‘dovere’ e un grande sforzo di disciplinamento, nel tentativo di conformarsi all’ideale, combattendo tutto ciò che spingeva nella direzione contraria”

In questa prospettiva, così come accadeva per la fede, la prassi pastorale si confermava e veniva trasmessa da una generazione all’altra. In questo schema il catechismo ed i sacramenti dell’iniziazione cristiana erano il pilastro su cui l’intero edificio ecclesial-pastorale si reggeva.

Alla luce dei cambiamenti intervenuti dentro e fuori il mondo ecclesiale, questa impostazione pastorale risulta sempre più anacronistica e non oltre praticabile.

Il passaggio al paradigma dell’’affidamento’ significa invece mettere in relazione la fede – nel nostro caso l’agire pastorale – con “lo spazio desiderante della nostra libertà”.

(In questa prospettiva) “il cielo non si conquista con un perfetto dominio di sé ma imparando a mettersi nelle mani di quella stessa vita di cui siamo fatti”, un po’ come accade quando, per imparare a nuotare, si accetta di lasciarsi andare nell’acqua anziché farsi prendere dal panico di trovarsi in un ambiente diverso, o dovendo aspettare le indicazioni, magari scritte, dai livelli superiori.  

Questo cambio di paradigma è molto impegnativo sotto il profilo dell’approccio, dell’organizzazione e della prassi pastorale, dal momento che richiede la rinuncia al ‘controllo di sé’ in favore della disponibilità all’’abbandono di sé’: “la prima preoccupazione della Chiesa deve essere quella della libertà non del controllo” rimarcano Giaccardi e Magatti.

Questo comporta un cambiamento radicale soprattutto dal punto di vista pedagogico, dal momento che, in questa prospettiva “tutti i precetti, la dottrina, i sacramenti altro non sono che strumenti per aiutare compiere quel passo verso l’esperienza della propria personale libertà”. ‘Affidarsi’, dunque, nel senso in cui viene proposto nel testo in questione, non significa semplicemente consegnarsi ad altri, piuttosto rappresenta la via per sperimentare più vita e più libertà e non invece cedere un po’ di libertà in cambio di sicurezza e protezione.

Una impostazione molto coerente, ci pare, con il paradigma ‘antifragile’ col quale la futura pastorale deve confrontarsi, una impostazione molto più orizzontale dell’attuale (diffusa), di tipo sinodale, capace di attualizzare le antiche origini ecclesiali ‘a rete’, nel senso di un “insieme di chiese locali che si organizzano con una struttura simile ma conservando una propria autonomia nella definizione dell’annuncio della buona novella”.    

Concordiamo con gli autori nel sostenere che, se da un lato ciò può esporre a rischi o lo sconcerto di alcune comunità, dall’altro non sia più giustificabile “un controllo centralizzato o la necessità di stabilizzare l’impianto dottrinario per evitare il caos (..) Se infatti il cattolicesimo vuole giocare la grande partita del tempo che viviamo – reinterpretando la domanda di libertà che essa contiene – non può sfuggire alla sfida cruciale di ripensarsi propriamente come rete. Aumentando i margini di auto autodeterminazione locale (che saranno sempre relazionali) e insieme infittendo gli scambi orizzontali, oggi quasi del tutto assorbiti dal rapporto verticale con il centro”.

Per altro, pur tenendo che il testo è stato pubblicato appena prima dello scoppio della pandemia, è sorprendente constatare – fanno notare gli autori – quanto ancora poco la Chiesa cattolica (e la pastorale più nello specifico) stia traendo vantaggio dall’ essere una rete planetaria. Quando potranno essere ad esempio realizzati ‘erasmus pastorali’ per il percorso di formazione di consacrati e ancor più per operatori pastorali nel loro insieme?  

MATERASSINI PASTORALI CERCASI

Gli osservatori più attenti sostengono che la rivoluzione portata da Fosbury non avrebbe avuto seguito e successo se, oltre al radicale cambio nella preparazione ed esecuzione del salto non si fossero introdotti anche dei materassini di atterraggio. Senza il materassino più alto e più soffice, infatti, passare l’asticella prima con la testa e le spalle, poi con la schiena arcuata, avrebbe fatto rompere a Fosbury il collo cadendo sulle tradizionali buche di atterraggio in sabbia. Come a dire, occorre saper coniugare spinta ideale e concretezza del reale. Una considerazione da tenere ben presente, per analogia, anche nell’affrontare il lavoro per modificare il paradigma e liberare il cambiamento nell’approccio pastorale. Saper affrontare il rischio del cambiamento non significa mettere in pericolo la fede delle persone e delle comunità.  

Ciò tuttavia non può essere usato come alibi per impedire che il cambiamento si attui: non si può confondere il ‘salto’ (l’apertura al nuovo) con il ‘materasso’ (la sicurezza). Missione Emmaus ne è ben consapevole nell’accompagnare diocesi, congregazioni, comunità ed operatori, articolando le sue proposte dal lavoro sulla visione e conversione pastorale all’offerta di piccole ‘opere di misericordia pastorale’, laboratori mirati in cui prendere confidenza con il cambiamento.  

“L’ultimo nemico ad essere sconfitto sarà la morte” afferma s. Paolo parlando della resurrezione della carne. Allo stesso modo, nell’accompagnare il cambiamento pastorale l’ossessione del ‘controllo di sé’ sarà probabilmente l’ultimo ostacolo, l’ultimo limite da superare per ‘lasciarsi andare’ oltre l’asticella, verso la libertà.