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Oratorio estivo Fase 3

Tempo di lettura: 6 minuti

VERSO UN’ESTATE ANTIFRAGILE

Una riflessione sull’oratorio a partire dalla complicata situazione che stiamo vivendo nel ripensare le esperienze estive. E’ forse questo un tempo opportuno per ripensare più a fondo l’idea di oratorio? Ricondividere quali tensioni progettuali siano da valorizzare per renderlo maggiormente generativo? Agire non solo per risolvere un problema ma per seminare futuro?

La pastorale giovanile e molte parrocchie stanno mettendo grande attenzione in questo periodo su come riuscire ad attivare l’oratorio estivo. Oratorio Fase 0, Fase 1 e Fase 2.

La formula sembra essere quella di sempre, sussidi compresi. Cambierà la logistica. E questa è la grande preoccupazione di tutti. Come fare? Come trovare adulti a sufficienza per seguire e supervisionare gli adolescenti che in questo servizio non mancano? Come trovare spazi a sufficienza per distribuire ed accogliere i piccoli gruppi? Come non farsi ingabbiare dalla burocrazia sanitaria e nel contempo  gestire tutte le indicazioni richieste dalle norme, tra triage, pulizie costanti, gestione degli spazi e movimenti?

Soprattutto, come rispondere al bisogno di famiglie che riprendono a lavorare e in molti casi senza più disporre di ferie o permessi? Quali attenzione dare a bambini e ragazzi da troppo isolati in casa?

C’è come sempre grande passione educativa e una grande mole di impegno e buona volontà da parte delle parrocchie. Possiamo allora provare ad approfittare di questo evento imprevisto, per uscire dalla comfort zone organizzativa che inevitabilmente in questi anni si è generata anche rispetto all’oratorio estivo e più in generale all’oratorio, per ridefinire dei riferimenti di senso, un perché dell’agire oratoriano.

La logica implicita (anche se a volte valida) che temo si stia perseguendo inconsapevolmente dietro la buona volontà di realizzare i centri estivi anche questo anno, rischia di essere quella di mettere una toppa all’imprevisto che si è venuto a creare. Per cui è facile immaginare le nostre realtà educative impegnate in centinaia, meglio, migliaia di riunioni organizzative di carattere istituzionale per assicurare che tutto sia fatto per garantire la massima sicurezza. Si potrebbe tradurre questa logica con l’affermazione: l’oratorio estivo ha una sua configurazione, una sua forma ‘dura e pura’ frutto di una lunga tradizione, si tratta di adattarlo all’imprevisto e tenere duro, delle soluzioni si trovano sempre.

E se invece di un dibattito istituzionale spostassimo l’attenzione su un piano relazionale? E se dall’enfasi sui contenuti e l’ossessione della programmazione (orari, attività, spostamenti, appuntamenti, verifiche …), grazie al fatto di avere di fronte una estate diversa e inimmaginabile, una ‘non stagione’, si provasse a riflettere e lavorare sui processi di significato?

Penso alla scuola che questa occasione in parte l’ha fallita. Ma il mio osservatorio qui è limitato. Anche la scuola infatti ha lodevolmente cercato di fornire una risposta al problema della quarantena mettendo in campo un grande sforzo organizzativo. Mia moglie insegnate ha lavorato in media non meno di dieci ore al giorno. Una reazione istituzionale che non ha sfruttato la dimensione relazionale, non ha cioè approfittato dell’irruzione prepotente del nuovo per creare quell’alleanza educativa da sempre desiderata con le famiglie. È stato più un dimostrare a se stessa e agli altri che era in grado di andare avanti malgrado tutto, mentre avrebbe potuto mostrare la sua fragilità e metterla in rete con la fragilità delle famiglie. La fragilità degli insegnanti è rimasta isolata da quella delle famiglie e in alcuni casi ha incrementato la distanza, l’incomprensione, l’astio, la rivendicazione. Poco o tardi la scuola si è messa in ascolto delle famiglie, in quanto il riflesso naturale è stato quello di agire anzitutto direttamente con i bambini o i ragazzi. Quando la famiglia aveva la scuola a casa, con la quarantena, la scuola l’ha bypassata, mandando al più delle norme di condotta per le lezioni online (rispetto degli orari, abiti idonei e non pigiami, verbalizzazione delle assenze per chi non si presenta online) o per rassicurare sulla privacy. Un altro dialogo istituzionale.

L’oratorio e la parrocchia rischiano di perdere anche loro un’opportunità. A partire dalla fase 0, dove l’attenzione può ricadere troppo sulle alleanze istituzionali (importanti senz’altro) e non sui soggetti più direttamente coinvolti, le famiglie, gli animatori, la comunità. Magari cercando proprio nelle famiglie i primi alleati adulti, che, nella Fase 1, possano evitare un’animazione a distanza proponendola a livello condominiale, in piccoli gruppi. Realisticamente, credo sia difficile nella Fase 1 competere in termini animativi con quello che il mercato digitale mette sul mercato, e il bambino sarà tentato di far uso di altri giochi o esperienze online rispetto a quelli proposti da noi. Possiamo fare di più nelle relazioni! Per cui la Fase 0 sarà importante e decisiva al di là dei tavoli istituzionali, per creare una rete tra fragilità, nell’ammissione della reciproca fragilità e difficoltà, per uscirne migliori non nell’immediato, ma in una prospettiva futura. Nella logica antifragile (vedi articolo Verso una pastorale antifragile), questo diventa non tanto una risposta all’oggi, ma un processo che fa crescere la comunità per il dopo. Creare delle reti interne alla comunità di famiglie e soggetti che si possano prendere cura reciprocamente gli uni gli altri, è decisivo. Non è credibile una comunità che rimanda tutti i problemi sociali a pochi delegati. Pensiamo al servizio dell’”aiuto compiti” su cui molti oratori feriali si basano. È la stessa questione che su un altro fronte viene posta alle Caritas parrocchiali: non basta più un centro parrocchiale di distribuzione dei pacchi ma è necessario un’azione di animazione alla carità che accompagni alla carità la comunità tutta se si ritiene veramente tale. Analogamente l’oratorio avrà raggiunto il suo obiettivo educativo non se risolve il problema dell’aiuto compiti dei bambini nelle sue sale, ma se avrà creato delle alleanze tra famiglie della comunità. Anche questo è oratorio anche se non è geolocalizzato dentro le mura della parrocchia. Un prendersi cura, un mettere in rete fragilità. Le fragilità dei singoli, delle parti, dei ‘piccoli’, quando condivise e rilette sapienzialmente, rendono ‘antifragile’ la comunità, perché acquistano valore di apprendimento condiviso e ‘vaccinazione’ collettiva. Parafrasando il primo uomo sulla luna, coltivare un atteggiamento antifragile è ‘un piccolo passo per un oratorio, un grande passo per la comunità’. E questo tempo è un’occasione per tutto questo. Ma non sarà così se si perseguirà un’azione adattiva o resiliente (vedi articolo Verso una pastorale antifragile).

Parlando per immagini, possiamo scegliere se in mancanza di cibo andare a comprarne al centro commerciale (adattamento) generando un debito affettivo e sociale, oppure piantare alberi da frutto (antifragilità). Oppure voler attraversare un deserto mostrando che si è in grado di resistere (resilienza) più che trasformarlo in un giardino (antifragilità).

La Fase 1 allora non sarà un interagire con uno schermo, non sarà una didattica oratoriana a distanza. Perché gli amici già si trovano nelle case. La sfida è da porre sulle relazioni comunitarie.

FUORI DALL’EQUILIBRIO, VERSO TENSIONI GENERATIVE

Possiamo allora provare a chiederci quale sia il baricentro dell’oratorio, il cuore da cui opera le sue scelte. È chiaro per chi vi opera? È conosciuto? Altrimenti il rischio di scivolare verso risposte adattive è dietro l’angolo.

Sappiamo che l’oratorio è una realtà complessa e ibrida, che unisce supporto sociale, educativo e spirituale. Ma su quale polo oggi si decide di investire per generare tensione ed essere generativo? Oppure preferisce stare nel mezzo ma pagando un duro prezzo in termini di significatività ed efficacia?

Proviamo a vedere brevemente, senza la pretesa di arrivare a delle conclusioni, questi tre poli. Tenderò ad estremizzare le tre posizioni, volutamente, per stimolare la riflessione e prenderne le dovute distanze da ognuno di essi.

Se la tensione prevalente va verso il polo socio-assistenziale allora è bene l’oratorio guardi ai criteri propri di questa realtà. È mettere in moto un empowerment vero del territorio e non praticare un mero babysitteraggio a basso prezzo (perché i Grest sono per ovvie ragioni di non costo della manodopera meno onerosi per le famiglie). Dobbiamo allora avere competenza in questo settore, avere parametri specifici per valutare il nostro servizio, fare una valutazione dei bisogni e chiedere dei feedback in merito (valutazione della qualità). L’attenzione è sulle famiglie che sono gli utenti della proposta oratoriana. Mi preoccupo di garantire sicurezza e professionalità, magari standardizzando i processi per una loro più efficace valutazione.

Se la tensione è pedagogica allora ci sono altri criteri di riferimento, nell’agire sulla persona sotto vari livelli umani, verificando la sua crescita. L’attenzione è sui bambini e ragazzini, destinatari dell’azione. Un’azione di intervento pedagogico ha alle sue spalle un modello o teoria di riferimento, interiorizzata da chi svolge con competenza il compito. Come l’approccio socio-assistenziale ha un forte radicamento progettuale, per cui ha chiara un’analisi dei bisogni, fatta con metodo, degli obiettivi specifici di crescita, una metodica, delle attività (didattica), e una verifica di valutazione degli apprendimenti/competenze/conoscenze acquisiti.

Se la tensione punta al polo dell’evangelizzazione allora useremo altri criteri di lavoro. I destinatari sono più gli animatori adolescenti e in seconda battuta bambini e famiglie. Chi agisce è la comunità, dentro una dinamica narrativo/testimoniale. Non si ha un’ansia progettuale e di valutazione, quanto la preoccupazione di generare luoghi comunionali, relazioni significative. Non mette insieme tanto le competenze ma l’esperienza delle persone, la loro vita.

In questi ultimi anni gli animatori sono stati il vero patrimonio dell’oratorio estivo. Come potranno essere valorizzati nella fase 1 e nella Fase 2? Come non disperdere questa ricchezza, isolandoli in coppie? È il caso di pensare un piano diverso per loro questa estate per creare un diverso protagonismo comunitario?

ANDIAMO OLTRE LA FASE 2, VERSO LA FASE 3

L’aver estremizzato i tre poli, ci aiuta a distinguere e fare un poco di chiarezza.

Fare chiarezza su questo baricentro forse può aiutare a definire la missione che ci sentiamo chiamati a svolgere nel mondo. Non solo di supplenza ma di semina. E ad operare delle scelte sapienti e non solo delle reazioni ad un accidente.

Negli anni passati l’attività estiva ci aveva mostrato come i destinatari primari fossero in realtà gli adolescenti e indirettamente i bambini e i ragazzi o le famiglie. Alcuni oratori si erano riprogettati su queste linee. Oggi forse questo è stato messo in discussione nel momento in cui si fa prevalere il polo socio-assistenziale, l’intervento su bambini e famiglie.

È vero che faremo bene, che anche nel fare un servizio sociale si annuncia con la testimonianza. Ma non si tratta di custodire qualcosa, di tenerla in piedi per lasciare tutto come prima. Non penso siamo chiamati a questo.

Se ci limiteremo a risolvere un problema, il prossimo anno non lamentiamoci che ci sono pochi adulti che aiutano, che le famiglie ci considerano come un parcheggio, che le richieste sono tante ma pochi a dare una mano se non tanti ragazzini che trovano nella comunità un ruolo significativo e sfidante solo in questi mesi.

Non accontentiamoci della Fase 2.

Lavoriamo per la Fase 3.