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Oltre la Leadership individuale: la Synodalship

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Tempo di lettura: 6 minuti

SUPERARE GLI IMPEDIMENTI PER UNA CHIESA SINODALE

La riflessione sulla leadership nei termini di gestione dell’autorità e del potere è un tema molto diffuso e trattato oramai anche nel mondo ecclesiale, con appositi corsi accademici. In questo articolo vorrei cercare di cogliere alcuni presupposti culturali soggiacenti questo concetto, cogliere il mythos che si cela dietro, le visioni cosmologiche che lo hanno determinato e che quindi influenzano un modo di concepire non solo il ruolo di chi guida ma anche una visione del mondo e del suo Creatore.

Quando parlo di mythos non parlo dei miti della leadership, narrazioni circoscritte che secondo vari autori hanno portato a visioni devianti di tale funzione sociale. Sto parlando di nuclei fondativi da cui una certa definizione di guida prende forma: una visione di Dio, delle gerarchie ecclesiali, dell’uomo/popolo di Dio… perché ancora oggi questa è la disposizione degli astri nel cosmo dei viventi.

Vi è un principio culturale e filosofico che ci spinge a portare tutto ad unità, a ridurre tutto ad uno. Questo è soggiacente a molti processi in atto in termini di unificazioni di parrocchie, diocesi, province religiose. È proprio anche di quel processo di semplificazione descritto nel mio precedente articolo, come antidoto alla complessità. L’idea che tutto si può ridurre ad una sostanza, ad un ente che guida e determina il reale. Che la realtà sia tutto ciò che si vede e si può scomporre e gerarchizzare. È comodo, molto comodo. Anche un po’ noioso.

La tara monoteista non se ne sottrae. Tara che si lega storicamente anche alla diffusione delle monarchie. Cerchiamo ancora un monarca ma oggi questo, sia nella politica che nella Chiesa è sempre più un ‘re nudo’.

Ne deriva un riferimento inconsapevole ad una cosmologia, ad una visione monoteistica della leadership, da cui nel passato hanno tratto vantaggio reciproco la Chiesa e le monarchie occidentali. Da qui l’uso di espressioni come Dio Re dei Re, Dio Re dell’Umanità, Cristo re,…

Anche quando si parla di politeismo, lo riduciamo ad una questione di tradizioni primitive, perché concepiamo questa visione ad una pluralità di dèi da contrapporre all’Uno, al principio iniziale, quando invece il politeista vede semplicemente nella pluralità diverse qualità, nature, caratterizzazioni dell’Essere universale.

“L’assenza di un egemone, di un dominante, perché deve determinare assenza di armonia e anarchia?” (Pannikar). Il presupposto culturale è quello dell’uomo che per sua ‘natura’ è portato a sopraffare e operare contro l’altro uomo per trarne qualche vantaggio per la sua sopravvivenza. L’attuale magistero esce da questa visione riduzionista. L’attuale magistero, nelle parti meno conosciute e riconosciute: Fratelli tutti, Laudato si’. Quelle più urticanti forse per la teologia tradizionale che semplifica lasciando fuori le sue possibili e profonde implicazioni dal discorso teologico.

È quel presupposto che è alla base di tante frasi che ascolto: “ma se nessuno comanda chi comanda?”, “se nessuno decide come si fa?”. Come si sottrae l’uomo dal suo ‘innato’ egoismo, dal suo ‘istinto’ di sopraffazione? Abbiamo un Dio che ha creato una creatura egoista e violenta. Come si sottrae l’uomo da questo Dio? Invocandone un altro, un dio in terra. Un liberatore, un salvatore, un condottiero. Eppure la mistica ci ha chiarito che non c’è uno come non c’è due. Che il Trinitario non è né uno ne tre. Che l’uomo non è ne solo carne, né solo Spirito, né solo pneuma, e che ogni parte è in sé solo in quanto è nelle altre.

Il sacerdote o il vescovo come Buon Pastore è un’attribuzione che ci viene da pronunciare come dato di fatto, scontato, presupposto alla nostra concezione di guida pastorale. Eppure, il testo sacro sembra chiaro: il pastore è Cristo – un vescovo e sacerdote può essere quel guardiano del recinto di cui poco si sa ma che è una presenza altrettanto bella e preziosa. Trovare nei manifesti delle ordinazioni questa iconografia forse chiederebbe maggiore cautela: stiamo ordinando Cristo in terra? È Cristo buon pastore, colui che solo dà la vita eterna e a cui nessuno strapperà le sue pecore dalla sua mano (Gv 10, 18). Penso, con questo, alla necessita di una riduzione del carico simbolico posto sui ministri della fede. Un carico simbolico che li sta oggi ammalando, che rende loro difficile il ridefinirsi come ruolo non solo ma anche in termini di guida – di leadership appunto. Un carico che rende molto complicato lo sperimentare una dimensione sinodale della Chiesa per quanto lo si possa dichiarare o razionalizzare.

Quando mi sento dire ‘Ma io ho dato la vita per la Chiesa…’ mi intristisco. Non si dà la vita per la Chiesa istituzione, altrimenti si è funzionari nel peggiore senso del termine, ma si dà la vita per la Vita, per il Cristo che è via verità e vita, si dà per l’Essere che è amore. E si dà in un gioco di corrispondenze e relazioni come la Trinità paradigmaticamente ci mostra.

Come abbiamo già scritto (‘Quando i vescovi hanno paura‘), un’autorità, un’istituzione genera vita se rimanda ad altro da sé (Michel de Certeau). Dall’autorità al singolare, che richiama a se stessa, unico riferimento, confermando il suo potere, alle autorità che rinviano le une alle altre. Il plurale permette altre cose. Permettere significa ciò che ‘non si è’ senza l’altro. L’unità, la comunione, si definisce dividendosi. Crea uno spazio per ‘essere ancora’.

Collegata a questa tentazione autoreferenziale, c’è il pensare e credere di poter bastare a se stessi. Di potersi salvare da soli. “Non confidare nelle tue ricchezze e non dire: ‘Basto a me stesso’” (Sir 5, 1). Siamo alle radici di un male che chiamiamo clericalismo, che come Papa Francesco ha sottolineato è all’origine delle varie forme di abuso nella Chiesa (Lettera al Popolo di Dio, 20 agosto 2018).

Il filosofo Agamben ci presenta un altro presupposto alla logica della leadership individuale. Nei primi secoli della storia della Chiesa ha avuto un ruolo decisivo la definizione teologica di oikonomia. Nel pensiero greco, come Aristotele indica nella Politica si tratta di una prassi, un’attività pratica per affrontare una situazione nell’amministrazione dell’oikos, della casa. I padri usano questo temine in merito alla riflessione sulla Trinità: come giustificare (siamo nel corso del secondo secolo) una trinità di figure divine (Padre, Figlio e Spirito) senza cadere nel politeismo o paganesimo? Dio, in quanto essere è uno ma in riferimento alla sua oikonomia, al modo in cui agisce è triplice. Dio affida così a Cristo l’economia, l’amministrazione e governo degli uomini, l’economia della redenzione e della salvezza. Se si giustificò la natura trinitaria dell’Essere dall’altra parte si creò una scissione tra essere e azione, ontologia e prassi, una schizofrenia presente nella cultura occidentale. Da qui il derivato di Provvidenza divina come governo salvifico del mondo e della storia degli uomini e poi con i padri latini di dispositio, dispositivo: un’azione di governo senza un fondamento nell’essere, e per questo definiscono in sé un loro soggetto autorizzato ad agire. Un insieme di prassi, saperi (à la Foucault), istituzioni “che hanno lo scopo di gestire, governare, controllare e orientare in  un senso che si pretende utile i comportamenti, i gesti e i pensieri degli uomini”(Agamben, Che cos’è un dispositivo?, Edizioni Nottetempo).

Di nuovo il tema trinitario, un tema da riscoprire se vogliamo ripensare i modelli di leadership.

Abbiamo già scritto un articolo in questa direzione: ‘Synodalship: ripensare i modelli di governo ecclesiale‘.

Come si fa? Se nessuno decide, chi decide? ‘Non tutti siamo leader!’. Falso. Non tutti siamo leader nello stesso modo, con lo stesso stile. I modelli che consideriamo più efficaci sono anch’essi tarati culturalmente. “Ci sono persone che sanno comandare e altre che sanno obbedire…”, solo digitare queste parole mi fa rattrappire le dita. “Ma le istituzioni centrali vogliono un nome… Quando si partecipa ad incontri regionali vogliono un responsabile…”. Anche queste domande fanno emergere dei presupposti bloccanti. Non si sta parlando di abolire la funzione di associare ad un incarico un nome. Semplicemente si vuole ridefinire il ruolo e il potere di questa persona in relazione alle altre. Una cosa è avere un direttore/responsabile/presidente che si assume tutto l’onere delle scelte perché di esse lui solo dovrà renderne conto, e alla luce di questo si limita a considerare gli altri come sui collaboratori da valorizzare sì, ma non da porre sul suo stesso piano. Diversa è una leadership sinodale dove non c’è distinzione in termini di valore nei processi di confronto e di decisione, chiedendo poi ad un soggetto di coordinare e dedicare più tempo alla cura di questo gruppo.

Richiamiamo inoltre il concetto che la decisione può essere vista come un processo (decision making) e non solo come un singolo atto (decision taking). Che più soggetti dentro la cura di processo, mediante cioè uno stile di discernimento comune e con figure di facilitazione, possono operare delle riflessioni per giungere a delle decisioni. 

Su questo tema sarà interessante tornare e approfondire. Intento di questo articolo era solo porre in evidenza dei presupposti storico-culturali che di fatto impediscono l’assunzione di uno stile e di una assetto sinodale oggi alla Chiesa. Prenderne consapevolezza è un primo passo. Ridefinirli mediante nuove narrazioni sarà il passo successivo affinché la sinodalità possa passare da principio a prassi.

Il grande re pensando al futuro
Vide non il fato ma sempplicemente
L’alba luccicante dell’isola
Sconosciuta: poiché era re
Pensava in modo imperativo – meglio
Non ripensare alla direzione, meglio
continuare ad andare avanti
Sull’acqua radiosa. Eppure,
cos’è il fato se non una strategia per ignorare
la storia, con i suoi dilemmi
morali, un modo di considerare il presente,
dove vengono prese
le decisioni, come il legame
necessario tra il passato (le immagini del re
quando era un giovane principe) e il glorioso futuro (le immagini
delle giovani schiave). Qualunque cosa
serbasse il futuro, perché doveva essere
così accecante? Chi poteva sapere
che non si trattava del solito sole
ma delle fiamme che si levavano su un mondo
destinato all’estinzione?
Louise Gluck, La parabola del re, in Meadowlands (il Saggiatore)