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Non siamo figli del vuoto ma Suoi orfani

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PER UN RECUPERO DEL VUOTO CONTEMPLATIVO

Generare e produrre morte, come i fatti di cronaca ci richiamano tristemente, non è perché “Siamo figli del vuoto, condizione frutto del dominante individualismo” (mons. Zuppi nella sua relazione alla Cei). Non è perché siamo ‘vuoti’ ma è proprio per l’assenza di un vuoto vissuto e abitato.

“Siamo figli del vuoto, condizione frutto del dominante individualismo”, così il cardinal Zuppi nella sua relazione introduttiva all’Assemblea straordinaria della Cei (13 novembre 2023). Espressioni forti che vengono poi motivate: “si è preda di emozioni cangianti, di rapide contrapposizioni al nemico, di sentimenti passeggeri e travolgenti, di identificazioni in figure carismatiche, di ripiegamento apatico su di sé. Il vuoto è vuoto di cultura solida e di riferimenti saldi, per cui si è preda della mobilità dei sentimenti”.

Non entro nel merito della riflessione del cardinale, che posso condividere. In fondo si stanno usando ‘parole’, artifici – non sono oggetti reali… per cui l’espressione ‘figli del vuoto’ è un’immagine del pensiero, che possiamo interpretare in vario modo. Tuttavia, alcune espressioni risuonano e guidano poi altre riflessioni. È come narriamo la realtà che determina poi le nostre azioni e reazioni, le nostre visioni su noi e il mondo.

Se siamo pieni, stracolmi di pensieri, desideri, pulsioni non purificati non è perché siamo ‘vuoti’ ma è proprio per l’assenza di un vuoto vissuto e abitato. Pieni di elementi sfuggenti e che si rincorrono senza sedimentarsi, lasciando inconsistenza ma non vuoto. È il nulla, che questa inconsistenza genera, non il vuoto. E il nulla non è il vuoto – è nulla.

Sarà il vuoto a ‘salvarci’ dall’individualismo tecnologico, dalle macchine. Ombra e luce non gli appartengono. Le macchine sono solo acceso e spento. Non hanno vuoto, ma solo nulla.

È nel vuoto che risuona la Parola. È nel vuoto che si diviene eco (katechein) della Parola. Vuoto come purificazione. “Il silenzio approfondisce la parola” scrive Byung-Chul Han, il filosofo coreano uscito in questo mese con il suo ultimo saggio ‘Vita contemplativa o dell’inazione’, ed Nottetempo. “Esistono molti tipi di silenzio. Uno corrisponde al Nulla ma c’è un altro tipo di silenzio che corrisponde al Vuoto. Vuoto non è Non-Essere” (Panikkar). Come le parole che emergono dal silenzio. Così l’Essere della vita invoca la realtà dal vuoto per portarla ad essere – atto di amore, mediante l’amore.

È il senso del digiuno. Rendere un cuore puro. Distacco dagli appetiti. “Necessitiamo di un cuore puro” ci ricorda San Giovanni della Croce, come le altre grandi tradizioni spirituali. “La via per ascendere a Dio è discendere in se stessi”, Ugo da San Vittore. Eppure assisto continuamenti a momenti di preghiera pieni zeppi di parole, pensieri, riflessioni – assenza di vuoto. Anche come Chiesa dovremmo lasciarci interrogare su questo. Progetti, programmi, uffici, agende – assenza di vuoto.

Il processo è un processo di creazione quando non sappiamo dove stiamo andando, altrimento non saremo mai completamente liberi da idee preconcette e siamo vincolati ad un fine. Proprio Giovanni della Croce scrive che sulle questioni ultime no hay camino, “Non c’è nessun cammino” perché la meta è un costrutto predeterminato, a meno che non si confonda la creazione con la costruzione (Panikkar, Il ritmo dell’essere, Jaca Book). L’esistere con il funzionare. Seguendo il pensiero di Panikkar, il non-Essere è il modo di trattare la realtà dialetticamente, cercando di ridurre tutto ad uno; e il Vuoto, misticamente. Nell’Essere è presente il vuoto. E questo rende possibile all’Essere di diventare ciò che sarà – ‘Io sarò ciò che sarò’. È Essere solo in potenza. O come per gli ebrei ‘la non ancora luce’, quando le Scriture si riferiscono alle tenebre della creazione. Non dialettica luce/tenebre, vita/morte, bene/male.

Non sappiamo più leggere poesie. L’arte presuppone un’intensa relazione con la morte. Il vuoto che è anche morte. Che è principio iniziatico, trasformativo – divenire. E per paura della morte uccidiamo. Per le nostre pulsioni interne di possesso, godimento e potere non purificate, svuotate, uccidiamo.

Stare nel vuoto. Come il Cristo – allontana da me questo calice, tuttavia sia fatta la tua volontà… Come la mano di Pietro che cerca di allontanare quella di Gesù che ne ricercava i suoi piedi per lavarli. Come le mani del Cristo che impediscono alla Maddalena di toccarlo.

Perdere il peso, assenza di volume, spazio, gravità – giogo leggero. Senza desiderio, possesso, potere.

Perdere la propria vita per salvarla è accedere a questo antro liminale di vuoto. È accogliere il non detto, non pensato, non udito – non agito.

Il vuoto non è il nulla. Non è l’assenza. È la compresenza dei vivi e dei morti, direbbe Capitini. È la co-essenza.

“L’assillo di dover capire equivale a un atteggiamento di cattura e di riduzione al già noto. Ma compredere può essere invece ascoltare e aspettare” (Chandra Livia Candiani). “Gurdare attendere amare”, sono le tre parole che ispiravano il pensiero di Simone Weil. Vuoto come inazione, come tensione non agente. Senza attesa ci pieghiamo al giudizio, all’invidia, al controllo, all’azione mortifera. La poetessa Candiani si chiede: “Di cosa vanno in cerca i cani? Non dire di cibo. Si sente che hanno perduto qualcosa e lo cercano ovunque col naso, col fiuto. Si sente che hanno mappe per l’assenza” (Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, Einaudi). E con un cane concludiamo, per ricordarci il valore dello svuotamento che non è annullamento:

Hai solo cinque anni, ma penso
Di continuo alla tua morte.
Incapace di godere del momento, lo brucio nell’angustia
Di tua futura, definitiva sorte.

Tu, con la tua anima di cane,
proprio non mi capisci. Mi guardi
ebbro d’amore, inclini la tua testa
e ti smarrisci. “Padrone mio, che dici?
Con tutto quello che possiamo fare:
rincorrerci, annusarci, baciarci
con la lingua, giocare con i gatti,
cacciare le lucertole, mangiare.

Dai retta a me, padrone mio,
pensa di meno te
e asseconda il vento.
Svuotato l’io, sarai pieno di vita:
importa poco se per un anno, dieci o cento”

Franco Marcoaldi, Animali in versi. Un nuovo canzoniere, Enaudi.