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Dopo che questa mia pelle sarà strappata via

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Tempo di lettura: 6 minuti

IN DIALOGO CON GIOBBE PER UN NUOVO SGUARDO SULLA CHIESA

  don Francesco Agostani

Accogliamo con gioia e gratitudine la riflessione di don Francesco Agostani, sacerdote della diocesi di Milano e membro dell’Accademia Campo Base con cui condividiamo la ricerca e la passione pastorale. Un riflessione profonda sulla necessità e urgenza di lasciare andare ciò che non è più reale e vivo nella Chiesa e ritrovare fede nella resurrezione.

«Dopo che questa mia pelle sarà strappata via,
senza la mia carne, vedrò Dio.
Io lo vedrò, io stesso,
i miei occhi lo contempleranno e non un altro».
(Giobbe 19,26-27b)

In tutta la Chiesa cattolica, mentre scrivo, si sta celebrando la giornata nella commemorazione dei fedeli defunti. Una giornata strana, quest’anno. Molti sono i fratelli e le sorelle che ho già accompagnato come prete nel passaggio all’altra riva. Per molti altri ho dovuto trovare parole di consolazione e di speranza per permettere a me e a loro di guardare alla morte senza distrarre rapidamente lo sguardo, ma permettendo alla morte di raccontare qualcosa di vero e di autentico come sempre sanno fare i passaggi un po’ ruvidi dell’esistenza. Quest’anno però ho la possibilità di intingere la penna nell’inchiostro della mia personale esperienza (il mio papà è germogliato alla vita del cielo lo scorso agosto) e di quella straordinaria fonte di pensieri e spunti che è il cammino che ho compiuto insieme al Centro Studi Missione Emmaus, e tutto assume una luce più grande, migliore e più viva.

Oggi entro nella mia chiesa per celebrare l’Eucarestia. Un gruppetto di fedeli, per la maggior parte formato da anziani, occupa le panche della basilica, costruita per ospitare più di seicento persone. Corpo di Cristo sparpagliato su panche vuote. Cellule del Corpo santo del Signore ormai abituate a tenersi a distanza, che si dispongono in uno spazio troppo grande, ma che è stato scelto perché “oggi verrà sicuramente qualcuno in più”. La messa comincia con qualche minuto di ritardo. I fratelli attesi rimarranno tali per tutta la durata della celebrazione. Chiedo ai presenti di riempire le prime panche, per evitare di avere l’impressione di celebrare la messa per e con delle panche. Nessuno si muove. Attendo qualche istante, e poi, per evitare problemi o questioni inizio il rito, tra il perplesso e lo scoraggiato.

In queste ultime settimane mi è capitato di leggere le statistiche che impietose fotografano una realtà che è anche sotto i miei occhi almeno dai tempi della pandemia: la frequenza dei fedeli alla messa sta calando, la gente non ritrova più nella chiesa le parole e i gesti che possono aiutare a vivere questa vita sorretti dalla fede, la fede sta diventando ininfluente, i giovani disertano le celebrazioni… Ed è così che Giobbe, il giusto lodato per la sua infinita pazienza, inizia dalle pagine della prima lettura a dialogare con me.

Anche la chiesa nella quale vivo è malata come lui. La sua pelle, l’evidenza concreta della chiesa brucia e si fa insopportabile per chi vive dentro strutture e istituzioni stanche, frustrate e depresse. Seduti nella cenere di tutto ciò che c’era e non c’è più, noi come lui, piangiamo afflitti dall’idea che tutto quello che eravamo ci è stato irrimediabilmente e ingiustificatamente tolto. Legati a doppio filo con la nostra vita di prima, con le nostre abitudini e i nostri schemi non riusciamo a vedere altro che tragedia e il nostro orizzonte si colora di tinte fosche e preoccupanti. Mentre siedo nelle riunioni di preti mi rendo conto c’è la tentazione di rimanere attaccati allo scoglio, strenuamente. Di difendere ciò che c’è per il semplice fatto che ciò che non c’è ancora non può essere valutato o considerato attendibile, per il fatto che è un abisso profondo e terrificante, oscuro e impenetrabile.

Eppure, anche se la malattia che ci affligge ci rende compagni di stanza nell’ospedale della storia, le parole di Giobbe stridono con le parole che noi ci diciamo e che ci continuiamo a ripetere. Egli, con uno scatto, pare alzarsi sopra le sue proprie ceneri e dichiarare la sua fede in Dio: “Quando avrò lasciato tutto, e quando non sarà più niente di tutto ciò che credo ora io sia, vedrò finalmente Colui che mi indicherà la via”. Noi, invece, continuiamo a lamentarci, a rammaricarci che le cose non girano più, mentre ossessivamente continuiamo a grattarci “le cose che abbiamo sempre fatto”, nella speranza che, per qualche stranissimo motivo, o per una data sul calendario che ha perso gran parte della sua valenza, poche centinaia di persone ci confermino nell’idea che “le cose possono riprendere ad andare come andavano” e che “abbiamo fatto bene a non cedere… tutto è tornato come prima”.

Mi torna in mente l’invito fatto all’inizio della celebrazione: “Lasciamo il posto che abbiamo scelto, avviciniamoci, incontriamoci…” e mi viene in mente la reazione dei miei fratelli.

Se non siamo capaci di lasciare un posto su una panca, se non siamo disponibili a lasciarci scomodare da un invito che ci viene fatto per riuscire a vivere più significativamente qualcosa che altrimenti perde di senso, come saremo in grado davvero di uscire da quelle consuetudini che sembrano orientate a tenere vivo un cadavere piuttosto che a incontrare il Risorto?

Il mio papà non è vivo accanto a me perché ne conservo gelosamente la carne. Il mio papà è vivo vicino a me perché lasciata la carne, vive ora della stessa vita di Dio.

Una vita nuova, impensabile, celata dietro la cortina dell’eternità per impedirci di incasellare e di rendere noiosa e ripetitiva anche quella. Malati come siamo riusciremmo a portare la nostra stanca e sicura abitudine anche di là, dall’altra parte. Mi rendo conto come il segreto e il mistero che avvolge il Regno dei cieli, nostra futura dimora, non è a nostro detrimento, ma è per noi, a nostro vantaggio. Se il nostro sguardo fosse capace, infatti, di allargarsi oltre e di sollevare il velo della Dimora Santa, preparata da Dio per ciascuno di noi, la organizzeremmo come siamo abituati a fare, con i nostri responsabili, i nostri volontari, la nostra gente. Ne faremmo appannaggio di pochi, certificati con il pedigree di buon cristiano e il certificato di buona condotta firmato rigorosamente dal Parroco. Corromperemmo l’eredità che ci è stata promessa con i nostri calcoli assurdi e con le nostre tradizioni soffocanti. E come abbiamo fatto con la nostra quotidiana esistenza “al di qua del guado”, getteremmo fuori alla fine anche Dio, come ospite indesiderato solo perché strenuamente convinto che la vita nuova, quella vera e più piena, ha a che fare con il nostro cambiamento e la nostra conversione.

So che è difficile lasciar andare. Vedo la fatica che fa la mia mamma ad abituarsi a non vedere più suo marito seduto sul divano, al suo posto, oppure affaccendato dietro i fornelli, dopo che, una volta andato in pensione aveva preso l’abitudine di cucinare per lei e per gli ospiti che avevano imparato che dalle sue mani sapienti uscivano cibi deliziosi e ricercati. Vedo la fatica di coloro che nelle nostre parrocchie hanno un ruolo ormai consolidato che si manifesta quando si rende necessario abbandonare quello stesso ruolo con il quale per un motivo o per un altro si sono identificati. Sembra che “fare la voce guida” o il “ministro dell’eucarestia” sia equivalente a credere in Gesù.

Tutti sappiamo che la fede è un’altra cosa e che, quando i nostri ruoli spariranno (perché nel regno la Chiesa lascerà il posto alla realtà di cui essa è solamente figura) vedremo Dio faccia a faccia. Eppure, non riusciamo a decidere di fare il salto.

Sappiamo che è arrivato il momento, magari desideriamo anche che la vita nuovi cominci, riscattandoci dal peso di cose che portiamo avanti senza più sapere nemmeno perché le facciamo, eppure fare il passo, il primo passo, resta la fatica più grande, assediati come siamo dalla paura di perderci, di smarrire la nostra identità. Una identità che si sgretola giorno dopo giorno e che ci lascia sempre più poveri e ripiegati; un corpo che si decompone e che manda già cattivo odore, perché i quattro giorni evangelici sono belli che passati. Ma una identità a cui siamo affezionati, e che teniamo in vita fino a che regge così che sia “un problema di altri ricominciare”.

Arrivo a spezzare il pane, a consacrazione avvenuta. Mi viene in mente che, se non fossimo capaci di lasciare l’idea che sull’altare ci sia solo un po’ di pane e un goccio di vino, il sacrificio che celebriamo ogni giorno perderebbe tutto il suo senso. Pane e vino lasciano il posto a Corpo e Sangue. La vita stessa di Dio ci viene incontro e ci incoraggia, dimostrando come, quando si lascia fluire la vita, il dinamismo stesso dell’esistenza riesce in quel compito complicato e arduo che non riusciremmo a fare nemmeno sostenuti da una volontà ferrea e rigorosa. Perché non si cambia per volontà o per impegno.

Si cambia per attrazione. Si cambia perché si lascia che sia l’amore a cambiarci. Per amore ci si immette dentro un meccanismo scarnificante e al tempo stesso rivoluzionario, che ci restituisce al mondo, dopo che ha finito il suo lavoro con noi, nuovi, anche se apparentemente siamo ancora noi. Per amore si esce da noi stessi e si va incontro agli altri. Per amore si ascolta ed è proprio l’amore a rendere possibile l’impossibile. Perché l’amore è fatto della stessa sostanza di Dio, e a Dio niente è impossibile.

Smetterla di resistere, smetterla di puntare i piedi. Smetterla di credere che facendo sforzi immani possiamo ridare vita ai nostri corpi mortali. Quello che ci sembra essere azione di salvataggio, e che a ben guardare è accanimento terapeutico, chiede a gran voce di essere abbandonato, perché abbiamo fede nella resurrezione di Gesù e nella nostra personale resurrezione. Prego perché arrivi in fretta il giorno in cui mi troverò dentro una Chiesa, trasfigurata nel suo nuovo e fiammante corpo glorioso. Un corpo glorioso perché vivo. Un corpo glorioso che ha imparato a lasciar andare l’immobilismo e la rigidità per vivere nella leggerezza di un abbraccio la sua vicinanza a Gesù, il Signore Risorto e vivo per sempre.