DAL ‘COME SE’ ALL”ANCHE SE’ DELL’AGIRE ECCLESIALE
Come superare uno schiacciamento sulla realtà, sul dato e l’analisi, per osare esplorare l’oltre dell’essere Chiesa oggi.
La chiesa era appena illuminata, in attesa di accendersi per la celebrazione della messa. Svettava sopra l’altare un grande crocifisso ligneo. Mi trovavo nella Chiesa della Consolazione a Genova. Un grande crocifisso medioevale alto circa cinque metri affascinava il mio sguardo, immerso in quel grande edificio carico di barocco, i cui angeli sonnecchiavano nella penombra marmorea. Il volto del Cristo morente era posto all’incrocio di due linee scure, nere, che tratteggiavano appena la croce che si distendeva sotto il suo corpo. Quella linea prima ancora che quel corpo, mi attrasse. Quella semplicità, quella striscia immobile che richiamò in me la realtà che oggi mi sembra stiamo sperimentando nell’esperienza ecclesiale. Quella nera fatica di alzare lo sguardo, di pensare un oltre. Lungo quella vita lineare si allungava quel corpo disteso. Quelle braccia esili che si allungavano a raggiungere fino all’estremità quella realtà, e quel busto e quelle gambe glabre, grigiastre, che si tendevano fin verso il fondo di quella scurità. È il Cristo disteso sulla realtà, pensai. È il Cristo che la vuole assumere tutta, che vuole come semente raggiungerla fino alle estremità per non lasciarla deserto. Poi gli occhi si soffermarono sulle ginocchia e sui gomiti, sulle articolazioni di quel corpo che fuoriuscivano da quella base e osavano oltre. È il Cristo proteso, che non si limita ad assumere la realtà ma sa andare oltre, trasgredirla, per far sorgere un senso nuovo che non schiacci sul presente o l’essente.
Ho sentito dentro di me un senso di riconoscenza. Pochi giorni prima ero stato presente ad un convegno dove l’esperto dell’istituto IPSOS aveva illustrato con estrema chiarezza i dati sui credenti cattolici in Italia. Dati che non sto qui a riprendere, ma che come potrete ben intuire costituiscono una realtà cruda, dura come il legno scuro di quella croce affisa su quell’altare. L’esperto ha chiarito però una questione: “Non sono i dati a smuovere la percezione delle persone!”. Ed è vero, lo posso testimoniare, ricordando come nei primi anni del lavoro del Centro Studi il tentativo di convincere sulla necessità di un cambiamento alla luce di una serie di dati forniti e commentati, non generava nessun risultato. Eppure i dati ci sono, sono concreti, sono la dura realtà, dura quanto quel legno. Ma non sono il motore di una scelta. Non attivano cioè quelle risorse simboliche necessarie per operare una scelta di discontinuità.
Questo mi conferma sul rischio di una riflessione ecclesiale che si schiacci sul dato socio-antropologico. Un annuncio che assume la realtà senza trasgredirla, ma solo distendendosi su di essa per analizzarla o tentare di spiegarla sarebbe fallimentare. Ci sono infatti due modi per assumere la realtà: quello del ‘come se’ e quello ‘dell’anche se’ (M. Bellet)
Il ‘come se’ si limita a distendersi sulla realtà e ad adattare il suo corpo ad essa. Usiamo questo strumento pastorale come se fossimo ancora in un epoca di cristianità… usiamo questo linguaggio come se ancora fossimo la maggioranza della popolazione… diamo questo sacramento come se la persona che lo riceve viva un’esperienza cristica… E’ un’azione di camouflage, una finzione che però ci rasserena, ci fa dire che in fondo quello che dovevamo fare lo abbiamo fatto, che non si può pretendere più di tanto… che lo Spirito poi fa il suo lavoro anche senza di noi (ma è da ricordarsi che invocare lo Spirito non corrisponde a tentare lo Spirito).
Assumere la realtà nello stile dell’‘anche se’ è fare la scelta delle beatitudini. Anche se la tua esperienza di fede è fragile… anche se la famiglia è oggi un soggetto fragile e composito… anche se solo 1 giovane su 2 è credente… anche se ci sentiamo inadeguati a questo tempo… Dio ha già vinto, già siamo salvati e possiamo assumere questa croce dentro uno sguardo che opera verso la realizzazione continua del suo Regno. Non solo disteso sulla realtà ma anche proteso verso un suo compimento. Ma per compiere questo salto i dati, le spiegazioni, le analisi non bastano, perché forniscono contenuti e i contenuti da soli non sono sufficienti in questo momento di passaggio. È necessario ricorrere ad uno strumento meno preciso, fallibile e inaffidabile sul piano tecnico-scientifico, che è quello della narrazione. Le narrazioni operano non tanto sul piano dei contenuti ma sul senso delle cose. Le narrazioni si basano sulla memoria, e risorgono dalla realtà per protendersi oltre, perché ricreano la realtà in chiave creativa. Ma non è tempo di una unica narrazione, altrimenti cadremmo nella tentazione di un assoluto che spieghi ancora la realtà. Forse aveva ragione la Jaeggy nel suo romanzo ‘Proleterka’ che “ci appartiene ciò che non possediamo”. Penso che siamo chiamati ad accettare una pluralità di narrazioni e cogliere dai loro intrecci quell’ordito profondo che lo Spirito ci sta suggerendo nel muovere oltre i nostri passi, nel trasgredire le aspettative della gente, nel resistere alla derisione degli esperti, nel superare la tentazione consolante dell’abitudine.
Concludo con una bella sintesi sul discernimento che ci offre involontariamente Luigi Meneghello nel suo romanzo ‘I piccoli maestri’, mentre da giovane partigiano sui monti vicentini, si addestra al fucile: “Bisogna ribadire però che nel fatto ultimo, lo sparo concreto, le due nature della mira si fondono, come a dire che all’ultimo momento l’intervento dello Spirito è sempre necessario anche a chi mira a lungo. È questo che accade quando lo sparatore, col suo occhietto socchiuso, ha aspettato pazientemente che il paesaggio finisca di palpitare (perché tutto palpita in natura, sia pure su scala infinitesimale, e le cose sono fatte di piccole onde); e a furia di aspettare, il momento buono arriva. È l’avvento dello Spirito Santo che s’invoca tacitamente, in attesa che la veduta si fermi sulla punta del mirino: è la sua discesa creatrice che salutiamo tirando il grilletto”. Bang!