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Da “ospedale da campo” a “campo base”

Tempo di lettura: 7 minuti

L’urgenza di nuove forme pastorali

“Le nostre istituzioni brillano di una luce simile a quella delle costellazioni che gli astronomi ci dicono morte da tempo”, ci ricorda acutamente l’epistemologo Michel Serres. Il cielo stellato che ammiriamo, talvolta commuovendoci, è composto di realtà la cui vita è ormai conclusa.  Vale, crediamo, anche per gran parte delle attuali forme-costellazioni pastorali: possiamo, ancora per qualche tempo, percepire la loro lucentezza, ne distinguiamo le posizioni. Ma questi astri pastorali sono realtà ormai spente. Il cambio d’epoca che stiamo attraversando – e che così prepotentemente interpella la Chiesa – significa che il cielo stellato ecclesiale cui siamo legati e che ancora usiamo per orientarci è superato e per conseguenza occorre il coraggio e la volontà di lasciare le attuali forme pastorali. Non può essere altrimenti, pena l’illusione di pretendere di affrontare il cambiamento senza cambiare. 

Negli ultimi decenni i vertici ecclesiali si sono posti più volte, a fronte degli effetti della secolarizzazione, il problema di verificare lo stato di salute delle forme pastorali adottate, ovvero individuare ‘buone forme’ in grado di esprimere e testimoniare la ‘buona novella’.

Non a caso, dall’ultimo Concilio, la vita della Chiesa è stata accompagnata dal tema della sua ri-forma, a partire da quella suggerita dal Concilio stesso: la forma del ‘popolo di Dio in cammino’, ripresa e rilanciata recentemente dall’ultimo Sinodo, avente come tema il ‘camminare insieme’.

L’istituzione ecclesiale, nei suoi diversi ambiti e livelli, può rendersi presente nella storia e nella vita degli uomini solo assumendo delle forme visibili e riconoscibili, ovvero quell’insieme di aspetti esteriori, strutture e relazioni sufficienti a caratterizzarla concretamente.

Esempi di forme ecclesiali sono le diocesi, le curie con i relativi uffici, come pure parrocchia, oratorio, Caritas, associazioni e movimenti laicali, seminari, monasteri e istituti religiosi, fino alle recenti unità o comunità pastorali.

La ricerca di ‘buone forme’ pastorali si è concentrata soprattutto non tanto nel cambiamento delle forme quanto nel loro adattamento e ottimizzazione alle mutate condizioni socioculturali e religiose. Solitamente ciò è avvenuto tentando di introdurre nuove chiavi di lettura della forma pastorale stessa, senza per altro modificarne la sostanza.

Ad esempio, alcuni anni fa (2013) suscitò interesse la rilettura della presenza della Chiesa nel territorio, in primis la ‘forma parrocchia’, come ‘ospedale da campo dopo la battaglia’. Una immagine decisamente diversa da quella della parrocchia ‘‘fontana del villaggio’, luogo per eccellenza dove la gente comune si incontrava ed incontrava Cristo.

Altra modalità di rilettura adattativa più volte utilizzate è quella del ‘laboratorio’ pastorale, (es. la Nota pastorale ‘Il laboratorio dei talenti’ dedicato alla forma ‘oratorio’), ovvero un luogo dove saper e poter sperimentare in modo controllato e dando allo stesso tempo l’idea di ambiente pastorale dal sapore artigianale, laborioso e produttivo, curioso, creativo.

Più recentemente, per molti ambiti (catechesi, famiglia, missioni…) si è fatto ricorso alla forma/immagine del ‘cantiere’, un termine scelto anche per la seconda fase dell’attuale Sinodo (‘Cantieri di Betania’).

La forma ‘cantiere’ rimanda anch’essa ad un’area o ambito opportunamente delimitati e indicativamente recintati, nella quale entrano gli addetti ai lavori per svolgere le operazioni necessarie alla costruzione di un’opera, sulla base di una preliminare progettazione.

Per non parlare del grande investimento che si sta facendo sulla ‘forma comunità’ quale ulteriore nuova modalità cui le parrocchie, singole o riunite sono chiamate a conformarsi (appunto), ben richiamata dalla espressione ‘Comunità pastorale’.

Questi sforzi, benché necessari ed encomiabili, non sono tuttavia in grado di raccogliere la sfida del cambio d’epoca, ovvero il definitivo passaggio ad un’epoca di post-cristianità.

Non essere più nell’epoca della cristianità significa infatti che il ‘cielo stellato sopra di noi’ non è più lo stesso. Cambio d’epoca significa cambio del ‘cielo stellato’, dei riferimenti. Eppure, non ci si rende abbastanza conto, a partire dai vertici ecclesiali, di continuare a cercare le nuove forme prendendo come riferimenti le precedenti costellazioni pastorali.

Il rimando pastorale alle forme ‘laboratorio’, ‘cantiere’, ‘comunità’ ed altri analoghi tentativi è insufficiente perché non opera un reale cambio di paradigma – come invece il cambio d’epoca richiede – ma rimane all’interno del sistema/paradigma precedente condividendone le premesse implicite.

Una prima premessa implicita condivisa dai diversi tentativi di aggiornare le forme pastorali è la logica del controllo e del dominio, che si traduce nell’approccio progettuale: sapere già prima dove si vuole arrivare, lavorare per obiettivi e problem solving, sperimentare senza perdere il controllo delle situazioni e la gestione del consenso verso la Chiesa. Non (ci) si lascia andare nulla, non si rinuncia a nulla, semmai si modifica ed integra. È ammissibile riconoscere lo sbaglio (il ‘peccato’) ma non l’errore, dal momento che il primo conferma la verità di cui si è custodi e annunciatori, il secondo la mette in questione.

La seconda premessa implicita acriticamente accolta riguarda il ‘pregiudizio autoreferenziale’, ovvero il fatto che i problemi ecclesiali e pastorali possono essere in buona sostanza risolti internamente. In altre parole, permane la convinzione che se si costruisce una comunità cristiana ‘vera’, se si aprono valide prospettive di partecipazione comunitaria, la chiesa ha in sé stessa, dal suo interno, le risorse sufficienti per la sua ristrutturazione.

La terza importante premessa implicita condivisa riguarda la percezione stessa del cambio d’epoca: si riconosce l’impatto della secolarizzazione sulla visione di Dio, dell’uomo e del mondo, cui si cerca di rispondere. Ma continua ad essere data per scontata la domanda su/di Dio come componente essenzialmente presente in ogni persona. Si tratta in questo senso di saperla risvegliare e alimentare, sapendo che esiste.

Il cambio d’epoca è tale, invece, perché costringe a rivedere tutte queste premesse: il passaggio dalla logica lineare progettuale all’approccio processuale e circolare; la non autosufficienza dalla chiesa nell’operare la sua conversione e l’esigenza di imparare dal mondo, al di là del sapersi mettersi in ascolto attivo; il fatto di considerare la società post secolare un luogo della possibilità di Dio, non qualcosa da disseppellire ma una opzione fra le altre, e spesso non come la più facile da abbracciare.

Per lavorare seriamente nel nuovo cielo e costellazioni pastorali servirebbe anzitutto lavorare in due direzioni: esercitarsi a decostruire le forme pastorali attuali per comprendere come si è costruito un certo insieme, smontare le modalità e le premesse con cui la forma è stata costruita, non per liquidarla o annullarla ma per reinterrogarla ed individuare nuove forme. In secondo luogo, prendere seriamente gli effetti antropologici successivi alla secolarizzazione, senza dare per scontato che la domanda religiosa di Dio e su Dio, non sia cambiata, e confrontare ciò che è ritenuto pastoralmente corretto con ciò che è esistenzialmente valido.

Un interessante fenomeno, in questo contesto è il sorgere di ‘terzi-luoghi ecclesiali’, piccole strutture e spazi di ospitalità e di innovazione, molto più flessibili rispetto alle articolate strutture pastorali cui siamo abituati. 

Il termine ‘terzi-luoghi’ proviene dal campo sociologico in cui viene usato per caratterizzare luoghi alternativi al domicilio e al lavoro nel senso classico del termine (azienda, amministrazione, servizi). I terzi-luoghi sono punti di riferimento, luoghi di scambio e di incrocio, che pongono i loro utenti in un ruolo attivo di co-creazione.

Questi ‘terzi-luoghi’ non sono progettati a tavolino anche se possono avere alle spalle delle istituzioni, come quelle ecclesiali, che le sostengono.

In questi terzi-luoghi ecclesiali si tratta di riprodurre non tanto ciò che le persone fanno, ma piuttosto il processo per il quale esse sono condotte a fare quel che fanno, caratterizzandosi per un grande impegno delle persone e una vivace fioritura di idee e di iniziative, spesso in stretto dialogo con realtà lontane dalle strutture ecclesiali.

Un possibile esempio e applicazione di ‘terzo luogo ecclesiale’ può essere la forma ‘Campo base’, alternativa alla precedente forma ‘oratorio’, prendendo atto dell’esaurimento di tale forma pastorale. ‘Campo base’ è insieme qualcosa di estremamente concreto ed altamente evocativo-simbolico, in cui si fondono valenze organizzative e relazionali, valenze funzionali ed estetiche, valenze materiali e spirituali. È impostato secondo modalità organizzative leggere e sicure, con poche semplici regole autoevidenti e sostenibili, basate sulla con-decisione, la cooperazione, il rispetto delle reciproche esigenze. Il ‘campo base’ è un luogo intermedio tra il passato (da dove si viene) ed il futuro (dove si intende andare). Dal campo base si parte e al campo base si ritorna perché è il luogo ed il tempo in cui narrare quanto accaduto, celebrare i successi ed elaborare gli insuccessi, operare un apprendimento ed un discernimento.

La forma ‘campo base’ differisce rispetto alla forma ‘oratorio’, per una serie di aspetti, come sotto riportato.

Forma ‘oratorio’ Forma ‘campo base’
formazione trasformazione
interventi etico-pedagogici esperienze iniziatiche
centripeto centrifugo
elaborazione progetti attivazione processi

Formazione vs trasformazione

La forma ‘campo base’ persegue non tanto o solo obiettivi formativi ma soprattutto trasformativi. L’azione trasformativa richiede dei processi esperienziali di rottura e distacco dalle posizioni precedenti. Nel ‘campo base’ la crescita e condivisione si alimenta non solo di esempi virtuosi ma dalla messa in rete dei ‘fallimenti di successo’, ovvero dal rendere fertili gli errori in termini di apprendimento.

Interventi etico- pedagogici vs azione iniziatica

‘Campo base’ chiede di passare da azioni etico-pedagogiche a processi iniziatici. L’azione iniziatica non spiega, non descrive, non definisce ma ribalta, de-centra. La forma ‘campo base’, pone al centro la sfida del limite la rottura iniziatica e non la continuità. Richiede un clima e un’apertura di fiducia, dove sono chiare all’inizio le condizioni ma non gli esiti.

Elaborazione progetti vs attivazione processi

Progetti e processi hanno una natura diversa: un progetto prende avvio dall’evidenziare un bisogno, un’urgenza su cui lavorare, un problema da risolvere.  Un processo parte dalla condivisione di un sogno, opera un discernimento più che un’analisi, un riconoscere più che un vedere.  

Il progetto fissa dei risultati o obiettivi da perseguire, misurabili nel tempo e nella portata, negli effetti, concreti. Il processo non ha l’ansia dei risultati, dal momento che il processo stesso – gestito con sapienza – è generativo di frutti lungo il cammino.

Centripeto vs centrifugo

La forma ‘oratorio’ risponde a logiche centripete, ovvero basa il successo sulla sua capacità attrattiva, finendo per alimentare delle modalità auto centrate.

Il modello ‘campo base’, al contrario, persegue una logica centrifuga, riconosce che è l’ambiente ad essere il polo attrattivo, rispetto al quale dunque non si è obbligati a competere e a combattere quanto ad entrare in dialogo aperto.

Il segno del cambiamento, come fu per i Magi, è la comparsa, nello stabile assetto delle costellazioni pastorali, di un astro diverso, mobile e leggero: una cometa, la cometa della profezia. Non un corpo celeste ma una scia che non dà risposte o soluzioni ma pone domande e produce dubbi; che non serve a mantenere una rotta già definita ma invita a seguirla non sapendo dove ci porterà. 

Erode e i suoi sapienti conoscevano le scritture e avevano capito tutto, salvo l’essenziale. Aspettavano ed a loro modo si preparavano al cambiamento (‘fateci sapere e noi andremo a trovarlo’), senza accoglierlo e senza scomporsi più di tanto.

I vertici ecclesiali sanno dei Magi e sanno di Erode ….