
Dio pone l’essere nel mondo. Un soggetto complesso, che si sperimenta dentro i suoi limiti anche se a volte ne disconosce la presenza. Che sperimenta la sua ambivalenza anche se continuamente la cela dietro un profilo, la fissa dentro una diagnosi.
Il seguente articolo non vuole essere un saggio di antropologia cristiana, ma si limiterà ad analizzare, alla luce delle tensioni introdotte nel precedente articolo, un modo infantilizzante di rapportarsi alla persona. Un approccio infantile non contenuto nella Bibbia o nei documenti ufficiali della Chiesa, ma presente nella cultura ecclesiale dominante. Ne sono infarcite omelie, lettere pastorali, articoli, e ancora di più gesti, espressioni, modi di dire o di fare.
Qualche passaggio da alcune omelie.
“Essere discepoli di Gesù significa amarlo più della propria vita, più di chi ti ha dato la vita e anche del frutto della tua vita. Dio ci ha fatto per amare Lui”.
“Siamo degli incontentabili e usiamo ogni pretesto per non assumerci mai veramente la responsabilità di ciò che abbiamo davanti a noi. La verità è che polemizziamo su tutto per non impegnarci in nulla. Sono le nostre scelte a rivelare di se siamo davvero discepoli e figli”.
“L’episodio di Pietro che viene salvato da Gesù mentre sprofonda nelle acque, ci ricorda che dobbiamo avere una fiducia totale nei suoi confronti, fidarci completamente di Dio”.
“Sparire, annullarsi, affinché Dio si riveli!”.
Espressioni semplificatorie, moralistiche, disumanizzanti. Prendono in considerazione un uomo ad una dimensione – pur se ci diciamo ‘esperti di umano’ – quando esso è realtà ambivalente e non monodirezionale…
Eppure, le citazioni fatte sopra potrebbero teologicamente trovare delle loro giustificazioni. Disponiamo di narrazioni in grado di poter affermare la loro validità. Il problema è un altro: è la cultura ecclesiale e spirituale che queste affermazioni sottendono e che influenza il nostro porci o meno di fronte alla realtà.
Che dovrebbe dire san Paolo che non riesce a fare il bene che vorrebbe? Che non è un discepolo? O non è un figlio? ‘Avere una fede cieca’ è rassicurante, ma disumanizzante. Perché negare la possibilità di scoprire la bellezza di essere salvati dalle mani di Cristo? Sentirci afferrati da Lui? ‘Dio ci ha fatto per amarlo!’. Abbiamo un Dio così narcisista? Così noioso? Dio ci ha fatto per amare, per amare. Annullarsi? Allora perché dovrebbe averci creato? Per un auto-annientamento? Non io ma Dio?
1. Abitare l’ambivalenza: dal separare all’unire
Adamo ed Eva, la frattura primigenia, la disgregazione dell’uno: l’Adam androgino. Un faccia a faccia angosciante. Interno. Da cui la diversificazione dei saperi, delle prassi… Ogni tentativo di fissare, innalzare ad uno è uno scacco mortale. Babele.
Il faccia a faccia con l’altro terrorizza, mette di fronte a se stessi, alla propria ambivalenza. L’uomo è un essere ambivalente. È lui e anche altro. È buono e cattivo. È giusto e sbagliato. È santo e peccatore. È proprio il suo limite che lo rende amabile. È proprio quel vuoto che lo circonda che può portarlo ad uscire da sé per tessere vita.
Siamo esseri profondamente divisi al nostro interno. Siamo agnello e lupo, siamo figlio minore (Es) e figlio maggiore (Super-Io), siamo il figlio che non ha voglia di lavorare ma va nel campo e quello che dice di andare ma non va, siamo la persona e il suo avversario che camminano lungo la strada per recarsi dal magistrato, siamo Caino e Abele, Giacobbe e il suo gemello, Giacobbe e l’Angelo. Potremmo continuare, ma colpisce questo dualismo, questa frattura interna della casa. E sappiamo che una casa divisa in due non può reggere. Occorre un elemento integratore. Occorre il Padre che esce per riabbracciare il figlio perduto, occorre il dialogo per mettere a contatto le parti, occorre divenire adulti per non soccombere e non disperdere (Lc 11,15-26).
Quando le nostre parti interne, le nostre ambivalenze irriducibili non sono integrate, ci si schiaccia su di una di esse… ne consegue la sterilità o la rapacità, l’accidia o la violenza. Agnello e lupo, ambedue: altrimenti saremmo lupi rapaci travestiti da pecore, o pecore impaurite e vendicative mascherate da lupi. Abitare la nostra persona chiede di riconciliarci con tutto noi stessi, come il profeta ci mostra: “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà” (Is 11, 6). E come i santi nelle varie leggende rappresentano: Francesco e il lupo, San Girolamo e il leone, il santo monaco e l’orso,… ciò che è giudicato male, se cacciato e allontanato diventa famelico, rapace, bramoso. Quando Girolamo salva il leone liberandolo dalla spina che lo feriva, diventerà suo compagno e alleato. Sono tutte immagini che richiamano la necessità di dominare le pulsioni interne, le pulsioni animali. Dominarle non eliminarle, non annullarle, perché rappresentano energia, forza, movimento.
Non più uno. Ma un molteplice integrato, armonico. Non più solo una parte, ma tutto. Non fuso né confuso ma dialogante. Dove ogni parte trova riconoscimento. Anche l’ego, l’io che esige vita e rifiuta la morte.
Per me il presente è l’eternità e l’eternità è sempre in movimento, scorre, si dissolve. Questo attimo è vita. E quando passa muore. Ma non si può ricominciare ad ogni nuovo attimo, ci si deve basare su quelli già morti […] Niente è reale, eccetto il presente, e io mi sento già soffocare sotto il peso dei secoli. Io sono il presente, ma so che anch’io me ne andrò. E io non voglio morire. (S. Plath, Diari, Adelphi, Milano 1998, pp. 22-23)
“Non voglio morire”, scriveva la poetessa americana Sylvia Plath nel suo diario. È il grido che dovrebbe affiorare dal cuore di ogni uomo. Se si perde questo grido, questa esigenza altissima, cosa ci resta?
L’epifania del sé è una esperienza drammatica. Se non tutti si mettono in ricerca di se stessi c’è un motivo. È immergersi in un intrico di contraddizioni che la nostra mente ha saputo intelligentemente tessere, cucire, ricamare… per legittimarci e per difenderci da quanto abbiamo agito e subito soprattutto nei nostri primi anni di vita. Eppure disfare la matassa sarebbe arrivare al nulla… non c’è filo lineare che si estende, ci sono rappezzi… annodati e avvolti… siamo linee direbbe l’antropologo Tim Ingold… ma intricate linee.
È difficile l’arte di strecciare, striare, per riannodare diversamente… non verso la forma vera ma la forma giusta, opportuna per noi, per ora. Linee di discorsi interrotti e annodati. Ecco cosa siamo. Parole intromesse, incasellate, incastonate. Siamo parole vive, viventi, ma disorientate, smarrite in questo intricato avviluppo di vita.
La sfida è mettere la mano e le dita nei fori di questo intrico. Di questo abisso terrificante, per passare dall’essere incredulo a credente. Per credere ad una possibilità altra. Per giungere alla pace, shalom. Mettere la mano nell’intrico/costato: è possibile se diviene segno di resurrezione, altrimenti sarà solo angoscia. Senza l’evento della resurrezione non è possibile credere. Se qualcuno non fosse risorto, non avesse reso poroso il muro della morte, saremmo rimasti in gabbia, schiavi dei nostri limiti. Schiavi della legge, privi della grazia che redime.
2. Abitare l’incompleto: dal cerchio all’incompletezza
Non uno ma incompletezza. Una condanna: l’incompletezza. Una condanna a vivere. Dio ci ha condannati a vivere per morire e risorgere. Per ritrovare la libertà perduta mediante il superamento della morte. La morte che viene dal possesso, la morte che viene dal potere e dal desiderio. La morte che viene dal ridurre, fissare, controllare, definire, completare. Dal bloccare che la vita sia. Dall’essere di impedimento allo Spirito.
Non c’è chiusura del cerchio. Quello è stato spezzato simbolicamente con l’uscita dall’Eden. C’è uno scorrere e l’incompletezza lo garantisce. Permette che altro avvenga da me. E che l’altro sia inaccessibile e inafferrabile a me.
“Cosa avrebbe fatto Gesù in questo frangente?”.
“Occorre comportarci come Gesù”.
Essere come Gesù. L’essere completo. È questo a cui siamo chiamati?
La fede cristiana non è per prima cosa la venerazione rituale della persona di Gesù. Bensì la via della sequela di Cristo che non significa somigliare a Gesù di Nazaret quale persona storica. Si tratta di una via al seguito di Gesù e con Gesù. Alla domanda su che tipo di uomo sia e quale fede guidi ed espiri la sua vita, troviamo una risposta nel modo in cui mette in pratica il compito di essere uomo (Halik, Il pomeriggio del cristianesimo).
Quando sento la domanda: cosa farebbe Gesù in questa situazione? Oppure, cosa farebbe il fondatore del nostro istituto? Mi sembra un modo facile per uscire da se stessi e non essere responsabili. Cosa farei come persona integrata, cosciente, adulta, come Gesù mi invita ad essere?
Si è chiamati ad abitare la nostra incompletezza dentro una tensione integratrice, liberante. Non una regola, non un principio morale, ma un simbolo vivente. Dal greco symballo, colui che ricongiunge, mette insieme per vivificare la vita di ogni uomo e donna. Non annullarla, non farla sparire. Sarebbe il suo più grande fallimento: avere uomini e donne che annullano la propria personalità, la propria irriducibile differenza, per conformarsi ad un modello esterno che detti il modo di sentire, vedere, giudicare la realtà. Infantilizzazione totale. Lamentando poi che il soggetto non sia sufficientemente responsabile e autonomo di fronte alle situazioni.
Il simbolo ‘Gesù uomo’ non appartiene al genere di simboli che in occidente nel tempo hanno perso la loro forza: al contrario, esso è un simbolo vivente. Il simbolo dei simboli. Mostra agli uomini come partecipare alla vita. Chiama ad una umanizzazione.
Gesù uomo come simbolo. Non un segno. Il segno infatti è semplicemente l’espressione di una cosa conosciuta. Il simbolo al contrario sta ad indicare ciò che è sconosciuto. Non assolutamente sconosciuto. Uno sconosciuto che in noi fa vibrare una realtà profondamente intima, la quale viene esibita, pretesa ed infine propriamente voluta. Esprime una inimmaginabili creativa e quanto più profondo e universale e, quindi, semplice e comprensibile a chiunque, tanto più ampia e possente è la sua azione liberatrice. Gesù come perfezione nell’unione tra maschile e femminile. Come maschio perfettamente integrato. Che sa stare dentro quel faccia a faccia interiore (H. Wolff, Gesù, la mascolinità esemplare).
Un simbolo vivente che non chiude ma dischiude la nostra umanità, e la mette in gioco con la realtà in forme diverse, non predestinate, ma in una libertà responsabile.
Solo l’ideale di ogni uomo è Gesù Cristo, che non è un concetto astratto, non una vuota forma della umanità in genere, o schema per ogni persona. È un modello, una idea di ogni persona con tutto il suo contenuto vivo. Gesù Cristo non è una regola morale ambulante e nemmeno un modello da copiare. Egli è il principio della nuova vita che, una volta accettata da Lui, si evolve secondo leggi proprie. In questo modo fermenta nell’uomo la sua personalità empirica in conformità all’immagine di Dio in lui (P.A. Florenskji, La colonna e il fondamento della verità).
3. Una fede intrinseca: dal chiuso all’aperto
Sul piano della persona, alla luce della tensione chiuso-aperto, un prezioso contributo ci viene dagli studi di Allport nel suo classico studio L’individuo e la sua religione (1972). Lo psicologo di Harvard vede il sentimento religioso all’interno di un continuum che va da una fede estrinseca ad una fede intrinseca. La maturità nella fede, nell’intelletto, nella vita affettiva, non necessariamente sono legati all’età anagrafica della persona. C’è chi li raggiunge in età avanzata. Per uscire dall’infanzia occorre uscire dall’egocentrismo del proprio pensiero e sentimento per mezzo di una costrizione. Eppure, per l’autore, questa costrizione, questa pressione ambientale è manchevole rispetto alla maturità religiosa diversamente da altre forme di maturità. “La religione dell’individuo è in realtà abitualmente considerata da altri come un fatto personale e, per quel che importa ad altri, può facilmente rimanere egocentrica, magica e gratificante. Di conseguenza forse in nessun settore della personalità sono reperibili tanti residui d’infantilismo quanti si rilevano negli atteggiamenti religiosi degli adulti”. Per Allport, “In qualsiasi sentimento la maturità s’afferma soltanto quando un’intelligenza in divenire è in certo qual modo sollecitata dal desiderio che tale sentimento non subisca una battuta di arresto nel suo sviluppo ma proceda di pari passo con la capacità di assimilazione della relativa esperienza”.
Questo desiderio se non è presente è indice della socializzazione religiosa del passato, del percepire questo sentimento come residuo culturale che non ha a che fare con la mia maturazione umana e con ciò che sarà importante nella mia vita. È il gatto con gli stivali della favola, apparentemente inutile e anche di cui si può fare a meno in cambio di due spicci, quando alla fine si rivelerà essere ciò che porterà ad una vita piena.
Ecco che per l’autore prevale una fede estrinseca, infantile, dal valore consolatorio, senza che abbia a che fare con la scienza, con il dolore e con la critica. La maturità viene valutata secondo tre direttrici: una dilatazione degli interessi (l’io in espansione), l’imparzialità e l’introspezione ( auto-oggettivazione), l’integrazione (auto-unificazione).
Una forma immatura vede la religiosità come forma che appaga o narcotizza i propri interessi lasciandoli dentro una dimensione egocentrica. Resta irriflessa per cui non va a determinare quella cornice di senso e di significati in grado di condizionare la propria condotta. E non è unificante ma si presenta come una realtà spezzettata che copre alcuni vuoti in chiave rassicurante. Forse Allport si pone su un piano molto cognitivo e razionale. Tuttavia ci permette di avere una definizione che va oltre il concetto di religione istituzionale e richiama un sentire dell’individuo verso il trascendente che richiede un compito in divenire che lui stesso definisce come gravoso. Un compito evolutivo, che non si limita ad impulsi e appetiti, ma che va regolato e organizzato nel tempo.
La fede estrinseca consiste in un sentimento religioso dotato solo di significato strumentale o estrinseco. Un sentimento subordinato ad altri motivi. Quando la religione è una abitudine monotona, cerimonie di circostanza, per comodità familiare, condizionamento culturale o per sollievo personale. È qualcosa da usare e non da vivere. La uso per trarne riconoscimento, sicurezza, appoggio, sollievo,… mi assicura che Dio la vede come la vedo io. È una fede chiusa, in quanto non aperta al confronto autentico, al dubbio, alla ricerca, al cambiamento. Una fede culturale su cui la Chiesa poteva trovare una ampia base di sostegno, dove la distinzione tra fedeli e consacrati era molto marcata e quindi la distanza gerarchica facilmente giustificata.
SI ha una fede intrinseca quando il sentimento religioso rappresenta per la persona un motivo preminente dell’esistenza. Sentimento autosufficiente, non subordinato. È una fede in ricerca, che si pone domande e riflette su se stessa e che cerca di integrare le varie dimensioni della vita dentro un discorso in grado di permette delle attribuzioni di senso al vissuto. “È quella religiosità che, vissuta più in profondità, riconosce che la fede a valore in sé, trascende gli stessi individui. Comporta sacrificio e impegno, rappresenta il motivo principale della vita. Si tratta di una religiosità maturante e propulsiva, dalla quale il soggetto riceve una carica verso un costante superamento di sé” (E. Fizzotti, in Introduzione a Dio nell’inconscio di V. Frankl).
Allport fornisce anche alcuni indicatori per cogliere la maturità della propria fede, per posizionarsi sulla tensione tra una fede estrinseca e una intrinseca: la sua ricchezza e articolazione interna, la sua dinamicità, la capacità di costruire una filosofia di vita complessa, di sopportare i dubbi, di confrontarsi con il male e con le conoscenze culturali e scientifiche attuali, di essere strumento di un agire concreto.
4. Discepoli missionari: dal verticalismo/paternalismo alla orizzontalità/corresponsabilità
Una fede non infantile è imprescindibile per divenire, come indicato nell’enciclica Evangelii Gaudium, dei discepoli missionari: battezzati che prendono l’iniziativa, si coinvolgono, accompagnano, fruttificano e festeggiano. Senza una fede intrinseca e matura la visione di una chiesa sinodale, la partecipazione di ogni battezzato, la corresponsabilità, un diverso modo di intendere i processi decisionali, il discernimento comunitario, resteranno solo belle espressioni o semplici slogan.
Una fede infantile è stata funzionale ad una Chiesa paternalistica, che nel corso degli anni ha guidato con i suoi pastori il gregge dei ‘sudditi’ (come recita ancora il diritto canonico). Quelle esperienze che hanno cercato di assumere una posizione più critica e autonoma nel giudizio e nelle espressioni dalla Chiesa istituzionale – pensiamo alla parabola discendente dell’Azione Cattolica Italiana – sono state ‘addomesticate’ e ricondotte nel recinto. Non si vogliono fare generalizzazioni, perché vi sono state e vi sono tante esperienza di Chiesa e fede viva, anche se per lo più caratterizzate su un piano di relazioni verticali (su iniziativa, cioè, di consacrati e presbiteri), tuttavia sono gocce in un oceano ben più vasto.
Di fronte ad un cambio d’epoca, che, rispetto ai precedenti, è caratterizzato proprio dalla non più rilevanza culturale della religione vista oggi come qualcosa di facoltativo, senza più un carattere pubblico e sociale, il tema dell’infantilizzazione della fede è centrale. Un Cristianesimo che vive in un contesto non più cristiano, è chiamato non ad una ‘cristianizzazione’ della società ma ad una sua evangelizzazione (J. De Kesel, Cristiani in un mondo che non lo è +. La fede nella società moderna). A passare da una fede immatura e solo culturale, ad una fede intrinseca, aperta, in grado di porre l’individuo di fronte alla realtà che vive, compresa la realtà spirituale e la relazione con il divino.
5. In ascolto del proprio sé: dall’essere di fianco al porsi di fronte
C’è una dimensione profonda che caratterizza l’umano. Una dimensione che non può essere imbrigliata dentro tassonomie che la riducono ad un profilo mono-semantico. “Non è il figlio del falegname?”. L’involucro, la copula protettiva, definitoria, organizzatrice, non lascia spazio al miracolo dell’essere. “Non operò nulla finché rimase lì”. Trasforma il soggetto in un simulacro di se stesso impedendogli il sacro in sé. Un tempio che per quanto splendente se definito dall’uomo non dura e crolla. Un sepolcro più che un tempio. Un custode della morte più che della vita.
Diversi autori riflettono su questa dimensione profonda, quella dimensione che una fede intrinseca non smette mai di esplorare.
Recentemente il teologo Collins ha scritto in merito alla distinzione tra ‘io’ e ‘Sé’ (D. Collins, Il Vangelo inaudito). L’io fonda la nostra identità di soggetto, mentre il Sé ci appare come qualcosa di inconsistente, come non fosse nulla, quanto in realtà va al di là dell’’io’. Il Sé è niente poiché è vuoto a tutte le aspettative del mondo e perché non si basa su nessuna ragione particolare (la sua sola ragione è la gratuità). Per Kierkegaard il Sé corrisponde alla libertà, mediante la quale transita la libertà del dono.
Il teologo e mistico Maurice Zundel, scriveva in merito a questa distanza tra il sé e il proprio io (M. Zundel, Quale uomo e quale Dio. Esercizi spirituali predicati a Paolo VI e alla Curia Romana), una distanza non colmabile, in quanto l’io non può disporne. In quel sé risiede per l’autore la nostra profonda dignità, rispetto quello che definisce essere un ‘io prefabbricato’ mosso dalle pulsioni, dal dato biologico, dai condizionamenti culturali. Uno spazio che, come il reale è presente ma inaccessibile, anche il ‘sé’ non è a nostra disposizione ma si dispone per gli altri in forma di dono. Un infantilismo nel soddisfare questa parte irrinunciabile della propria persona, si trasforma per Zundel in modo mimetico agendo/esprimendosi in altre forme da quelle sue proprie: da includente diviene escludente, da unitiva diviene divisiva. Perde la sua natura ma in quanto energia si manifesta, da dis-appropriazione dell’io ad appropriazione dell’altro/a. Una fede estrinseca non è quindi neutra o innocua. E, anche se non più funzionale al governo ecclesiale, non è tuttavia ciò che la missione della Chiesa è chiamata a svolgere. Riprendendo quanto scrive Zundel, ciò che permette di uscire dal nostro io è l’incontro con una presenza, trasformando il nostro io possessivo in un io oblativo. Ed è grazie a questo avvenimento, e solo per questo, che la nostra intimità più segreta diventa un bene universale, che gli altri possono accogliere senza sentirsi limitati e che suscita spontaneamente il loro rispetto senza bisogno che lo reclamiamo. Questo a sua volta testimonia ancora una volta che “la nascita di Dio nell’uomo è la condizione della nascita dell’uomo a se stesso”.
Come abbiamo già scritto sopra, questo faccia a faccia con se stessi, o meglio, con il proprio sé, è un’esperienza gravosa, che mette in gioco la propria personale coscienza e responsabilità. La grazia non è sostitutiva della responsabilità. È un giogo, sì, ma che se assunto è soave e leggero, libera per disappropriazione del proprio io. Libera dalla pesantezza dell’involucro dell’io. In questi termini acquistano un senso espressioni come: annullare il proprio ‘io’, uscire da esso. Non si tratta di sparire, di annullarsi. Si tratta di divenire pienamente ciò che si è. Dio crea la realtà per permettergli di essere ciò che è, per esistere.
La teologia e psicologa Hanna Wolff ci ricorda che “L’infantilità è quell’atteggiamento che per leggerezza o debolezza o mancanza di energia teme e rifiuta di misurarsi con le responsabilità che vengono giudicate troppo gravose o smisurate. L’infantilità è il lasciarsi tutelare dal padre e dalla madre o da coloro che le sostituiscono [restare nella verticalità, ndr.]. Infantilità è aspettarsi tutto dalla vita, come un tempo dal padre e dalla madre, e non dare in cambio niente alla vita” (H. Wolff, Gesù, la mascolinità esemplare).
In Gesù c’è il rifiuto di tutti gli infantilismi: “Chi è mia madre e i miei fratelli?”. “Se uno viene a me ma non odia suo padre sua madre….”. E richiami alla responsabilità da accogliere: “prendere la croce… bere il calice… misurare attentamente…”, “Siate vigilanti”, non tanto solo da leggere in chiave escatologica, ma come essere che si pone da adulto di fronte alla realtà del proprio sé. È invito alla vigilante coscientità spirituale. Secondo la Wolff, chi vive coscientemente può offrire risorse agli altri per uscire da sé e avere uno sguardo più ampio; è in grado di rivolgere la parola agli altri riguardo alla verità del loro essere uomini, sapendo cogliere la profonda intenzionalità degli altri come Gesù che sentiva nel loro cuore cosa agiva; sa divenire per gli altri strumento di trasformazione profonda e creativa: chi incontra Gesù diventa un uomo nuovo, una nuova creazione, una forza sgorga da lui come acqua viva, sperimenta il miracolo della vita.