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TIENI APERTA LA DOMANDA

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Tempo di lettura: 7 minuti

In questo articolo rifletteremo sulle domande che permettono di mettere in atto processi di sviluppo, oltre la tentazione di fissare subito la realtà dentro delle risposte nella logica infruttuosa del problem solving pastorale.

“La risposta non la devi cercare fuori, perché la risposta è dentro di te…
e però è sbagliata!”
Corrado Guzzanti

 

“Davidù”, mi dice mio zio Serafino mentre svampa una sigaretta.
“Davidù: prova a chiederti come mai è possibile questo: che un oggetto cambia tutto il modo di essere del nostro corpo. Ci sono attori di teatro che riescono a recitare solo col proprio abito, ci sono musicanti che riescono a suonare in maniera sublime solo sulla propria sedia, e ci sono persone che con un pallone ‘nmezz’a i gambe si trasformano, divemtano come un fiore che sboccia.
E tu li vedi proprio accussì: come un germoglio continuo.
E chisto è il punto, Davidù. La vera questione.
La forza di sbocciare: ce l’hanno loro, o gliela dà il pallone?
I petali si sarebbero aperti da soli o è il pallone che dà il coraggio al petalo di staccarsi dai fratelli e di farsi inondare dalla luce gialla del sole?
E soprattutto, Davidù: importa la risposta? Certo che no. Non importa!
Chi se ne fotte della risposta!
È la domanda che ha senso, ed è nella domanda che si scorge il senso.
Basta sfirniciàrsi tutt’u tempo a cercare risposte e risposte e risposte!
Tanto: il fiore sboccia lo stesso, i petali si aprono e il profumo improfuma l’aria.
Quindi: che me ne fotte a me di sapere la risposta!”
Davide Enia, Rembò, Fandango edizioni

Viviamo un tempo in cui siamo invitati a stare nella domanda, oltre la fretta di chiudere. Oltre la tentazione rassicurante di fissare. Allo stesso tempo, assistiamo ad un cambiamento antropologico che ci chiede di rileggere il tema della fragilità, intesa oggi come una ridotta tolleranza alla frustrazione, all’abitare le tensioni, allo stare nell’incerto, nell’inedito. Come fatica nel gestire la frustrazione del non determinato ancora. Queste due dimensioni, restare nella domanda senza chiuderla in una risposta, e bassa tolleranza alla frustrazione, generano una forte tensione e delle contraddizioni di cui siamo spettatori anche nell’agire ecclesiale.

ABITARE LE TENSIONI A CONTATTO CON L’INQUIETUDINE DELL’INCOMPLETEZZA

Mi soffermo brevemente sul tema della fragilità. Mi sento dire: questi/e giovani sono più fragili, hanno una maggiore fragilità quando entrano in formazione o nell’affrontare le sfide. Ritengo sia un’affermazione erronea che rischia di portarci ad affrontare la questione giovanile in chiave terapeutica o paternalistica. Non è che sono più fragili. Perché la fragilità è un dato dell’umano, un suo elemento connaturale. Sono fragili in modo diverso in relazione al contesto, all’ambiente in cui si trovano a crescere. La poca tolleranza alla frustrazione, per questioni intuibili e che non vado ora ad esplorare, penso sia un elemento caratterizzante l’attuale condizione di fragilità. Se prendiamo atto di questo allora il nostro modo di rapportarci a loro, di predisporre setting di accompagnamento, cambia, in quanto abilitarsi a questa tolleranza non avviene in chiave terapeutica o paternalistica e nemmeno solo cognitiva o esortativa, ma nel predisporre esperienze di frustrazione e nell’aiutarli ad elaborarle senza sostituirci ad essi. Porre domande che non prevedono nell’accompagnatore una risposta, ma incamminarsi insieme lungo le vie che esse permettono di tracciare. È anche il ruolo di un facilitatore nei processi sinodali o di accompagnamento pastorale, ben diverso da quello del formatore.

Significativi al riguardo i numeri 28-30 dell’Instrumentum Laboris del Sinodo sulla Sinodalità. In questa parte del testo si forniscono i seguenti criteri di sinodalità: “caratteristica di una Chiesa sinodale è la capacità di gestire le tensioni senza esserne schiacciata, vivendole come spinta ad approfondire il modo di comprendere e vivere comunione, missione e partecipazione”; “cercare di camminare insieme ci mette anche in contatto con la sana inquietudine dell’incompletezza, con la consapevolezza che ci sono ancora molte cose di cui non siamo in grado di portare il peso (cfr. Gv 16,12)”. La nostra cultura occidentale trema di fronte a tali affermazioni, e se non lo fa è perché le ha già addomesticate dentro la sua logica lineare, cartesiana, progettuale. Si legge anche nel testo: “questo vale anche per le domande che il processo sinodale ha fatto emergere: come primo passo richiedono ascolto e attenzione, senza precipitarsi a offrire soluzioni immediate. Portare il peso di queste domande non è un fardello personale di chi occupa determinati ruoli, con il rischio di esserne schiacciato, ma un compito dell’intera comunità, la cui vita relazionale e sacramentale è spesso la risposta immediata più efficace”. Ci viene già suggerito che la risposta non è in un contenuto ma in una pratica rinnovata. È nei processi e non nei progetti che stiamo scrivendo(costruzioni teoriche centrate sul problem solving), che le cose si comprendono. Le nuove forme di comunione, partecipazione e missione si ristrutturano all’interno di un’esperienza e non in una teoria, non nella progettazione previa. Dalle domande che fioriranno durante e non da quelle che nascono prima di incamminarsi, che sono solo i riflessi di una coda di lucertola mozzata dal corpo.

E le risposte? Ci limitiamo solo a porre domande? Ecco un esempio di ‘falsa’ domanda! Domanda corretta nel paradigma di progetto ma falsa dentro una cultura processuale. Le domande, come ci suggeriva il comico Guzzanti nella citazione iniziale, hanno una cornice di riferimento che va svelata. Sono il frutto di aspettative indotte da una cultura preesistente, da un modello interiorizzato.

LE FALSE DOMANDE ALIAS RIVELARE L’INVISIBILE

Non ci sono domande giuste o domande sbagliate. Ci sono semmai domande generiche, problematizzanti, ideologiche o, come abbiamo detto, finte domande: risposte camuffate da domande, domande cioè che contengono già una risposta. Come facilitatori ci capita spesso di ascoltarle, e non costituiscono un problema, semmai un’opportunità di svelamento, la possibilità di accompagnare ad un passo ulteriore di consapevolezza. È lì che si sposta la domanda.

Faccio alcuni esempi:

Come non abbassare il livello della proposta di annuncio pur cercando di raggiungere più persone possibili?  Un falso dilemma. Alla base c’è la visione dualista: se abbasso la proposta raggiungo e sono compreso da tutti, se la alzo questa vale per pochi, un’élite. Intanto dovremmo intenderci sul termine ‘abbassare’, o sul termine ‘livello’ che sono già luoghi abitati di precomprensioni. Inoltre un dilemma binario genera un angolo cieco, dal quale non si possono scorgere possibilità. Non è una domanda che permette cammino, ma solo di adattare il già noto e il già fatto alla luce di un pregiudizio di fondo.

Come impegnarsi come Famiglia religiosa/Unità Pastorale senza togliere risorse all’azione apostolica dei singoli Rami/Comunità? Anche questa domanda è abitata da un pregiudizio di fondo: fare le cose insieme non è far crescere i singoli. Interessante il termine ‘togliere’. In questa domanda trovo anche tante resistenze sull’intraprendere nuovi cammini, o processi sinodali: abbiamo già tanto da fare! Come possiamo fare anche questi senza togliere risorse a quello che già dobbiamo fare ordinariamente? Quanti termini da analizzare in questa frase! È come se ci avvisassero che sta crollando il tetto di casa ma noi rispondessimo che prima abbiamo da finire di lavare i piatti.

In queste domande ci sono dei termini rivelativi del modello interiorizzato. Sono finestre che ci permettono di guardare dentro e fuori, cogliere la cornice e attraversarla.

Altre sono le domande che ci interessano, che possono essere oggetto e risorsa per una comunità o un’équipe, che desidera sperimentare sinodalmente una nuova esperienza di partecipazione, di missione e di comunione.

LE DOMANDE DI SVILUPPO

In un cambio d’epoca ci possiamo attrezzare di domande che ci aiutino a passare dal problem solving al problem setting, dal problema (caos) alla possibilità (kairos). Questo non vuol dire non riconoscere che ci sono delle criticità, ma è diverso affrontare quelle attraverso domande problematizzanti (Perché la gente non viene più a messa? Perché non troviamo più catechisti? Perché non riusciamo a vivere in modo fraterno in comunità?)  rispetto all’uso di domande che esprimano una esigenza di sviluppo, che ci aiutino a visualizzare strade, possibilità. “Formulare queste criticità sotto forma di domande di sviluppo è il primo passo per condividere e co-creare come comunità o team il futuro processo di cambiamento” (Erica Rizziato, Verso un umanesimo della vita organizzativa, Franco Angeli, 2020).

Le domande di sviluppo sono rivolte al futuro (come possiamo fare a… con quali strumenti possiamo raggiungere… come modificare questo spazio affinché…).

Sono concrete, non partono da presupposti generici e teorici che schiacciano, ma su dati di realtà condivisi da tutti. Non ci chiediamo: come fare a comunicare il valore della cura della persona come dimensione integrale dell’umano? Come metterci in ascolto della persona che viene al centro d’ascolto rispetto alla sua  dimensione integrale? Sono costruzioni linguistiche che separano, generano confini, ci fanno restare appesi con i piedi che non toccano terra… Si tratta di specificare il cosa, il come, il quando, il dove, il chi. Semmai: Quali strumenti di ascolto possono aiutarci a comprendere le risorse relazionali, psicologiche, economiche della persona che viene a chiedere aiuto?

Sono espresse in un linguaggio che non è ambiguo. Esempio, Come far riscoprire all’uomo di oggi il valore della santità?, è una domanda che chiede di risignificare in questo tempo il termine ‘santità’, altrimenti si rischia di usare un termine dandone per scontata la sua reale capacità di significare il reale per le donne e gli uominidi oggi.

Sono aperte, ossia orientano a diversi scenari possibili senza contenere, in modo esplicito o implicito, una soluzione. Una domanda del tipo: è giusto non curare l’accoglienza all’ingresso delle liturgie domenicali?, è evidentemente una domanda chiusa, addirittura retorica.

Sono connesse alla comprensione del carattere evolutivo dell’organizzazione. Stimolano passi da compiere e mentre le esprimiamo sentiamo che ci danno luce, respiro, aprono a sviluppi. Diverso se la domanda che formuliamo ci genera ansia, rigidità.

 

Dal romanzo per ragazzi “C’è nessuno?” di Jostein Gaarder, dove avviene il dialogo tra un bambino ed un extraterrestre:

[…] «Puoi mangiare una mela» dissi porgendogli il frutto.
Sembrava che non ne avesse mai viste in vita sua: per un po’ rimase incantato ad annusarla, poi si fece coraggio e le diede un morsettino.
«E’ buona?» domandai.
Lui fece un profondo inchino.
Volevo sapere che gusto avesse una mela quando la si assaggia per la prima volta, e insistei:
«Ti è piaciuta?»
Mika si inchinò a ripetizione.
«Perché fai l’inchino?»
Ora fu lui a rimanere sbalordito. Credo non sapesse se doveva fare un altro inchino oppure limitarsi a rispondere.
«Nel posto da cui vengo ci inchiniamo sempre quando qualcuno fa una domanda acuta» spiegò. «E più profonda è la domanda, più profondo è l’inchino».
Non avevo mai sentito una cosa tanto strana: non riuscivo a capacitarmi che una domanda potesse meritare un inchino.
«E allora quando dovete salutarvi cosa fate?»
«Cerchiamo di escogitare qualche cosa di intelligente da domandare» rispose.
«E perché?»
Fece un rapido inchino dato che gli avevo rivolto un’altra domanda, poi si spiegò:
«Cerchiamo di pensare qualcosa di intelligente da domandare in modo da far inchinare l’altro».
Fui talmente colpito da quella risposta che, quasi senza volerlo, mi inchinai profondamente.
Quando alzai lo sguardo, Mika si era infilato il pollice in bocca. Se lo tolse solo dopo un bel po’.
«Perché mi hai fatto l’inchino?» mi chiese allora quasi offeso.
«Perché hai risposto in modo molto intelligente alla mia domanda» spiegai.
Allora Mika con voce limpida e chiara scandì alcune parole che non ho mai dimenticato:
«Una risposta non merita mai un inchino: per quanto intelligente e giusta ci possa sembrare, non dobbiamo mai inchinarci a una risposta».
Annuii con un cenno della testa, pentendomi immediatamente perché Mika poteva pensare che mi ero inchinato alla sua risposta.
«Chi si inchina si piega» continuò Mika. «Non devi mai piegarti davanti a una risposta».
«E perché no?»
«Una risposta è il tratto di strada che ti sei lasciato alle spalle. Solo una domanda può puntare oltre».
Quelle parole mi sembrarono talmente sagge che dovetti trattenermi a forza per non fare un altro inchino.