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Se prevale la voglia di ‘ritirare le reti’ (e lasciarle in barca)

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LA CADUTA MOTIVAZIONALE DEI CONSACRATI NELLE COMUNITA’ CRISTIANE

Un’analisi di taglio psicologico sulla attuale condizione delle comunità cristiane, in particolare del sentire dei presbiteri e con essi anche dei laici impegnati. Una postura psicologica che rischia di compromettere seriamente la sfida di rivitalizzazione che c’è alla base dei cammini sinodali.

“Passeremo solo nelle case di chi ne farà esplicita richiesta”. Così è perentoriamente scritto nel volantino diffuso da una parrocchia della diocesi di Milano riguardo alla tradizionale visita e benedizione natalizia nelle case.

Il volantino porta la firma del parroco, con ogni probabilità in accordo con i suoi collaboratori. Si precisa inoltre che coloro che non intendono ricevere la benedizione in casa potranno comunque trovare in chiesa una preghiera ‘apposta per la propria via’. Sarà anche possibile ritirare “una boccetta di acqua benedetta che potrà essere utilizzata per la benedizione in casa il giorno di Natale”.

Davvero interessante (e sconcertante) l’idea di un kit per una benedizione natalizia ‘fai da te’, specie nella fase di avvio di un cammino sinodale che faticosamente tenta di ritessere le sfilacciate relazioni tra le persone e promuovere occasioni di incontro e ascolto dentro e fuori la comunità cristiana.

Una scelta apparentemente responsabilizzante ma di fatto giocata sul ‘ciascuno si arrangi come crede’, preferendo optare per un basso profilo pastorale che salvi il salvabile, scambiando la fiducia nell’altro con la delega all’altro. Anche se infatti volesse rappresentare il riconoscimento ad ogni battezzato di poter operare una benedizione oltre la tradizione che vuole sia il sacerdote a svolgerla nelle case, posta così la proposta risulta mortificante.

Si intuisce facilmente che il motivo ufficiale di tale scelta rimanda alle note ragioni di cautela e sicurezza legate alla pandemia. Ma forse non è tutto qui. Oltre all’encomiabile prudenza quel volantino lascia trasparire l’insofferenza e l’inquietudine di molti consacrati e del laicato più impegnato nel vivere il proprio ruolo, e la difficoltà di comprendere quali siano oggi i propri compiti e priorità.

Il rispetto delle norme igienico-sanitarie – certamente sacrosante – mostrano solo la punta di un iceberg pastorale molto più vasto ed in movimento.

Sotto, più ampia e insidiosa, vi è la massa informe della sottile voglia, a partire da una parte del clero, di tirare i remi (o meglio le proverbiali reti) in barca. Dove probabilmente esse resteranno, almeno finché questa nuova forma di apatia (assenza di passione) pastorale non diminuirà ed il calo di motivazione missionaria non troverà rimedio.

MOLTA FEDE, POCA CONVINZIONE

Quanto vissuto nel corso della pandemia ha innescato (o semplicemente reso più evidente) in sempre più preti e responsabili pastorali una condizione di ‘illanguidimento’, analogamente a quello che sembra stia avvenendo da qualche tempo nella società e nella vita di molte persone.   

‘Illanguidimento’ è il termine che alcuni esperti hanno scelto per indicare quello stato d’animo che oggi sembra essere dominante. Si tratterebbe di uno stato emotivo che si traduce nella difficoltà a concentrarsi, nella sostanziale impassibilità rispetto alle buone notizie, come ad esempio le prospettive aperte dal vaccino. Non si tratta tuttavia di una forma di esaurimento causata da situazioni di burnout, perché le persone sentono di avere ancora energie a disposizione. Questo senso di illanguidimento non è nemmeno descrivibile come depressione, perché le persone non si sentono disperate e senza via d’uscita. Si tratta piuttosto di una sempre più condivisa sensazione di stagnazione e di fatica. Più che vero malessere o disagio conclamato, esprime una assenza di benessere, un senso di mancamento pur senza vertigini. Qualcuno ha paragonato questo stato di cose al guardare la propria vita attraverso un parabrezza appannato.

Questo ‘illanguidimento’ tende ad avere un corrispettivo anche sul versante ecclesiale e soprattutto pastorale. Il ‘contagio’ sembra accanirsi in particolare sulle figure più esposte al cambiamento, vescovi e sacerdoti in primis ma più in generale sulle figure guida delle comunità ecclesiali ai vari livelli.

Non si tratta (per usare un termine morale) della classica ‘accidia’, quell’atteggiamento misto tra noia e indifferenza che ostacola l’operare: non è stata certo la pigrizia e l’inattività la risposta che il clero ha offerto rispetto all’emergenza, al contrario.

Piuttosto questo illanguidimento dell’organismo clericale è l’esito e nel contempo la causa del traumatico scarto tra le buone intenzioni pastorali e la loro debole presa sulla vita delle persone, tra impegno evangelizzante e risultati, tra l’esigenza di dare continuità alle molte attività avviate e ripensare le forme di gestione e partecipazione.

Tutto si è sbiadito e nel contempo acutizzato: gli spazi, i tempi, lo stile di presenza del presbiterio nelle comunità (diocesi, decanati, vicariati o parrocchie che siano) si sono de-formati, slabbrati, sfocati. Una situazione inedita, incontrollabile, che ha messo in crisi le pur consolidate ‘difese immunitarie’ dei diversi organi ecclesiali, fino appunto ad uno stato di ‘illanguidimento’ pastorale.

Al di là delle direttive e indicazioni prodotte dal magistero, appare sempre più evidente un ‘distanziamento’ ed un senso di ‘isolamento’ che coinvolge e stravolge ruolo ricoperto, priorità perseguite, prassi attivate.

COME ‘CAMMINARE INSIEME’ QUANDO E’ FATICOSO ALZARSI?


Se qualcuno ritiene che il fenomeno dell’illanguidimento pastorale sia tutto sommato marginale, e riguardi casi particolari come la parrocchia del volantino sopra menzionato, dovrebbe iniziare a ricredersi.

Sintomi di questo stato d’animo si ritrovano purtroppo anche a livello più generale, fino ad arrivare al modo in cui viene proposto e avviato quest’ultimo Sinodo, dedicato come sappiamo proprio alla (ri)attivazione di uno stile sinodale delle realtà ecclesiali.

Come Centro Studi abbiamo avuto modo di osservare le modalità con cui diverse diocesi stanno cercando di avviare il Sinodo, da un lato, e le modalità di risposta delle comunità, dall’altro. Entrambe mostrano chiari segni di questo illanguidimento pastorale: si coglie infatti, al di là delle posizioni ufficiali, il modesto ingaggio sul versante del clero e il diffuso disincanto del laicato, specie quello più ecclesialmente maturo, entrambi (clero e laici) sempre meno disposti e disponibili ad operazioni di facciata.

La difficoltà di avviare cammini sinodali tra le diverse realtà interne ed esterne è ostacolata da una sorta di reciproca ‘paralisi preventiva’, fatta di incomprensioni cristallizzatesi nel tempo, disillusioni organizzative, inefficacia comunicativa. Difficile mettersi a camminare quando ti ritrovi seduto e non sai ancora se e come metterti in piedi… e per Chi.

La profezia di un Sinodo dedicato al recupero convinto di uno stile sinodale di essere e fare chiesa si scontra con la tentazione della ‘grande rinuncia’: smettere con le cose che in teoria bisognerebbe amare (come ad esempio la benedizione nelle case), ma che (seppur in modo inconfessabile) ci risultano insostenibili quando non insopportabili. Le comunità, semplicemente e drammaticamente, ripensano alle loro priorità, alle condizioni di lavoro pastorale, al modo in cui ci si accoglie e si accolgono le relazioni affettive, agli obiettivi a lungo termine. E ‘ritirano le reti’, rimettono i remi in barca, in attesa di tempi migliori, forse con l’intenzione di andare alla ricerca di equilibri diversi e migliori.

Il rischio che l’illanguidimento pastorale minacci seriamente l’esito del Sinodo è stato colto acutamente dal cardinal Grech, Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi, alla Assemblea Generale Straordinaria della CEI lo scorso novembre: “La posta in gioco è alta: ottenere dei risultati senza maturare uno stile sinodale consegnerebbe la Chiesa a una delusione che comprometterebbe il futuro della sinodalità e della stessa Chiesa”. Per questo occorre evitare alcune insidie quali:

  • sminuire la partecipazione, ricordando che “la consultazione del Popolo di Dio, per quanto qualificata come “preparatoria”, appartiene ed è già parte del processo sinodale”
  • burocratizzare il processo sinodale, facendo notare l’eliminazione del termine ‘questionario’, “per evitare ogni equivoco circa la consultazione, che non può e non potrà mai essere un’indagine demoscopica”.

“L’importante – ribadisce accorato il cardinale – è che il Popolo santo di Dio faccia una vera esperienza di sinodalità, nell’ascolto reciproco”. A partire dai Vescovi, ai quali viene chiesto di “essere di esempio nella fase del discernimento. Aiutate tutti a capire che non si tratta di un lavoro affidato a qualcuno, ma esaminate voi stessi il materiale. Trovate un modo veramente collegiale di “discernere” i contributi delle diocesi”.

CONTRASTARE L’ILLANGUIDIMENTO PASTORALE: SCELTE E RINUNCE SALUTARI

L’appello di Grech coglie nel segno ma non arriva a spingersi oltre, ovvero non mette in discussione il modello di fondo che la pastorale, omologandosi alla società civile, sembra avere adottato, ovvero il paradigma resiliente.

L’illanguidimento di cui parliamo non si contrasta tuttavia aumentando la resilienza. Qualche volta la scelta più coraggiosa è esattamente quella opposta: non ‘tener duro’, ‘mantenere il controllo’, resistere’ ma ‘interrompere’, alleggerirsi, lasciare andare. Significativa al riguardo la scelta della ginnasta statunitense Simone Biles, super campionessa plurimedagliata, di rinunciare a competere durante le ultime Olimpiadi. Una scelta che mette in discussione l’assunto “chi vince non molla e chi molla non vince”. Tradotto in linguaggio ecclesialeil ‘mettercela tutta’ per alla fine ‘avere sempre ragione’, e ‘saper rispondere a tutto’. Tutto il contrario dell’atteggiamento di ascolto tanto raccomandato per un autentico cammino sinodale. 

L’illanguidimento pastorale si contrasta piuttosto con scelte di leggerezza e libertà, adottando in modo creativo il ‘non temete’ evangelico.

Questo potrebbe voler dire scegliere attività sfidanti ma non impossibili, né noiose perché troppo facili, né frustranti perché troppo impegnative.

Così pure si tratta di abbandonare l’idea che, siccome i progetti adottati per ottenere qualcosa hanno avuto un costo (in denaro, tempo, attenzione, emozioni), quel progetto vada preservato anche se non va più bene, o se non è più soddisfacente, proprio perché il costo pregresso non può essere recuperato.

Così facendo non recupero il costo e in più spreco malamente risorse, soprattutto spirituali. 

Il cammino sinodale può a certe condizioni produrre validi ‘anticorpi’: esso infatti non chiede solamente di mettersi in atteggiamento d’ascolto ma di operare delle scelte di stile e di paradigma. Esso ci costringe ad essere comunitariamente consapevoli che qualsiasi scelta pastorale attuata coincide sempre con il rinunciare a qualcos’altro, non ad aggiungere e/o mescolare il vino nuovo con quello vecchio.

Prima che l’illanguidimento da pastorale diventi spirituale, è tempo di abbandonare ciò che rattrista il cuore delle persone e delle comunità, alzare lo sguardo, provare a scoprire qualcos’altro, magari di valore maggiore. Perché la Chiesa vive nel tempo ma non può più perdere tempo.