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NON SI HA PAURA DEL CAMBIAMENTO

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Tempo di lettura: 6 minuti

SI HA PAURA DI ‘TORNARE POLVERE’

Cosa rende difficile un cambiamento profondo come quello richiesto dall’assumere una postura di Chiesa sinodale? L’articolo cerca di indagare quali elementi interiori, spirituali, relazionali vengono messi in gioco, in grado di frenare questo processo. Si suggeriranno infine alcuni passi da compiere per raggiungere questo nuovo livello di consapevolezza ecclesiale.

Nell’accompagnare processi di conversione pastorale, alcune espressioni emergono con frequenza. Ad esempio: “non avere paura del cambiamento”, “essere aperti al cambiamento”, “superare il ‘si è sempre fatto così’ ed avere il coraggio di cambiare”… Sono affermazioni che fanno forza sull’impegno, sulla volontà, sul senso di responsabilità. Purtroppo però, impegno, volontà e responsabilità sono tutti elementi che possono generare ben pochi cambiamenti effettivi e profondi. Anzi, al contrario rischiano di aumentare il senso di frustrazione e di insoddisfazione di un cambiamento che rischia di non giungere e non vedersi mai.

Le persone non hanno difficoltà a riconoscere l’importanza di un cambiamento. La frattura tra questo riconoscimento, che è ineludibile, e la capacità di realizzarlo, non è determinata dall’impegno o dalla volontà del singolo o del gruppo ma da cosa questo cambiamento rivela di se stessi: lo espone al pericolo di vedere il suo mondo interiore ben ordinato messo in discussione, violato, generando legittimamente ansia, paura di come il cambiamento rappresenti un attacco diretto al proprio sé, alla propria visione interiorizzata e inconsapevole del mondo. Prendo in prestito dal mio collega Roberto Mauri una citazione di Peter Senge: «Le persone non resistono al cambiamento. Oppongono resistenza al fatto di essere costrette a cambiare».

UNA CHIESA SINODALE: LA PORTATA DEL CAMBIAMENTO

Entrare in uno stile di Chiesa sinodale rappresenta quindi, fisiologicamente, quasi un attacco violento e doloroso alla propria visione della realtà, del proprio ruolo, delle aspettative e delle attese che il modello precedentemente interiorizzato ha prodotto in noi.

Si ha paura del proprio tornare polvere, molteplicità, “… perché tu sei polvere e alla polvere ritorna”: la traduzione letterale dall’ebraico ci consegna questa espressione non come una maledizione sull’uomo (“polvere ritornerai”) ma come un invito (“ritorna”) a recuperare l’unità antecedente alla caduta cioè quella dove la molteplicità era custodita e persino coltivata, come un giardino (Annick de Souzenelle). Molteplicità come caos originario e cosmo in potenza. Come complessità dell’io, che racchiude in sé contraddizioni, tensioni, ambivalenze, ma anche geneticamente, in quanto creatura, la grazia divina in grado di plasmare creativamente il molteplice in modo fecondo, evitando la dissoluzione.

La visione che incarniamo determina in noi quali pensieri, gesti, aspettative, modelli formativi, bisogni percepiamo: così  il nostro pensare ed operare, anche quando appare disfunzionale rispetto al presente ed alla realtà che abitiamo, è tuttavia “coerente” con la nostra visione, porta cioè in sé una ragione, che è l’autoconservazione, perché l’essere umano ha un estremo bisogno di mantenere coerente il suo mondo interno.

La difficoltà ad accedere pienamente ad una visione di Chiesa sinodale, che implica una perdita di controllo, un lasciare per tornare ad essere più generativi, si lega a mio avviso a questa difficoltà interna alla persona e chiede un lavoro di purificazione/risignificazione spirituale.

Superare i bisogni indotti da una visione al tramonto per accedere ad una nuova consapevolezza ecclesiale

Infatti, ciò di cui percepiamo il bisogno non necessariamente è ciò che nel profondo (ontologicamente) desideriamo, ciò che è in grado di migliorare la nostra condizione umana e spirituale.

Rose aveva sempre pensato che un giorno sarebbe successo, che prima o poi qualcuno l’avrebbe notata e amata perdutamente, senza riserve. Al tempo stesso era convinta dell’esatto contrario, che nessuno l’avrebbe voluta mai e, fino a quel momento, era stato così. A renderci desiderabili non è qualcosa che facciamo, ma qualcosa che senza saperlo abbiamo dentro di noi. Rose si guardava allo specchio e pensava: ‘moglie’, ‘fidanzata’. Che belle parole dolci. Come potevano adattarsi a lei? Era tutto un miracolo; tutto uno sbaglio. Era quello che aveva sognato; non era quello che aveva desiderato.

In questo breve estratto dal racconto La mendicante di Alice Munro, ci viene ricordato che dentro di noi c’è una componente viva, desiderabile, unica, che è molto di più di ciò che facciamo e che riusciamo a pensare. Un punto, accessibile alla nostra coscienza mediante la Grazia, che ci permette di uscire dal bisogno percepito, dal sogno indotto, per avanzare in consapevolezza e conoscenza verso quel desiderio, quel ‘nome’ – Parola che è stata inscritta in noi.

CAMBIARE E’ LOTTARE PER RICEVERE UN NUOVO NOME

Per sperimentare questo passaggio interiore è necessario però confrontarci con l’altra parte di noi che non vediamo o non vogliamo vedere. Di quell’ombra o non-ancora-luce, che è insita in ognuno e che se non accolta può dissolverci in piccole e minute particelle di pulviscolo confusionario.

Occorre abitare la propria tensione, senza fuggirla: porsi nel mezzo, meditare appunto, non tanto per ridurre ad uno (non in questa vita almeno, penso), ma come apertura all’eccedenza da sé e in sé, al cosmo/caos che compone le nostre cellule creaturali.

Se invece cerchiamo, per mantenere un illusorio ma consolante ordine, di reprimere o occultare questa parte di noi, questa componente acquisirà un’autonomia spaventosa che si manifesterà prima o poi in forma di pensieri e gesti autosabotanti.

Si tratta di una lotta, come quella incarnata nel racconto archetipico di Giacobbe, dove per divenire un uomo nuovo, assumendo il ‘nome’ assegnato a lui da Dio per compiere la sua missione, dovrà combattere attraverso il buio di un’intera notte con l’altro uomo da sé.

Il verbo usato per il termine lotta è avaq, ed è di difficile comprensione perché ricorre solo qui nella Bibbia e se anche viene tradotto come lottare, battersi… di fatto significa: ‘polvere’.

Da questa lotta Giacobbe resterà segnato. Colpito al femore sarà chiamato ad accompagnare il cammino di un Popolo con una postura claudicante.

Una postura consapevole, che lo porta a fare memoria della sua reale natura. Quella notte è un attraversamento (indicato materialmente nel guadare il torrente Iabboq), è passaggio iniziatico che lo porta alla riconciliazione con l’altro da sé, il gemello, con cui già dalla nascita era in conflitto e di cui afferrò il calcagno per uscire dal grembo. Da qui il nome di Giacobbe e dal lasciare questa presa/attaccamento e ricevere, oltre la benedizione dell’Altro, il suo nuovo nome: Israele.

Assumere una postura sinodale, richiede quindi la necessità di un processo di iniziazione, di una lotta interiore con l’altro da noi che è però presente in noi. Questo avviene attraverso la lotta ovvero l’ esperienza sempre tragica dell’ascolto, dell’Altro interiore risvegliato dall’altro che è attorno a noi.

Si tratta di entrare in questo ‘faccia a faccia’, come dirà Giacobbe al termine dello scontro notturno. Come ci suggerisce De Certau nel suo Mai senza l’altro:

Esistere significa ricevere da altri l’esistenza, ma significa anche, uscendo dall’indifferenziazione, provocarne le reazioni; vuol dire essere accettati e aderire a una società, ma anche prendere posizione nei suoi confronti e incontrare dinanzi a sé, come un volto illeggibile e ostile, la presenza di altre libertà. Chi sfuggisse da questo faccia a faccia, non per questo eviterebbe la paura, inseparabile da ogni scontro, ma rinuncerebbe ad essere, affermando al vento un diritto che sarebbe incapace di far riconoscere. Pretesa o resa che sia, la sua fuga solitaria lo escluderebbe dal gruppo, lo esilierebbe dal mondo reale e non farebbe altro che condurlo nel ‘deserto’ mitico dove l’inseguire miraggi è già un suicidio. Non si vive senza gli altri. Questo significa che non si vive senza lottare con loro.

ACCOGLIERE IL MOLTEPLICE SENZA LA PAURA DI TORNARE POLVERE

Come si può superare questa paura, e con essa l’accrescersi dell’ansia di controllo, di ordine apparente e artificiale che ci siamo costruiti e come bozzolo materno ci custodisce?

Imparando innanzitutto a identificare il filtro che determina il nostro bozzolo, cioè a riconoscere che la realtà che vediamo non corrisponde necessariamente alla realtà in quanto tale o non ne corrisponde più come un tempo.

Questo è un primo passo, il passo della consapevolezza, che i padri spirituali ci indicano anche come primo passo di un processo di discernimento.

Si può procedere – secondo passo – attraverso il nostro materiale autobiografico: facendo emergere rispetto ad un determinato aspetto della vita di fede o del nostro agire, una situazione che ha generato in noi un’esperienza traumatica o sofferente, una tensione dolorosa che può divenire evento epifanico, in grado di aiutarci a scorgere i confini di questo filtro e i fattori interni che lo determinano. Per descrivere meglio questo passaggio propongo di seguito un esempio.

Rispetto alla tensione che si genera affrontando il tema della corresponsabilità tra laici e ministri ordinati, quale è il bisogno interno che può far emergere nel sacerdote l’espressione stizzita “Ma io ho dato la vita per la Chiesa!”? Espressione che non va giudicata o criticata – sarebbe un gioco puerile che non tiene conto della portata del cambiamento dentro i processi trasformativi profondi – ma che va accolta come rivelativa. Si tratta di un’espressione volta a proteggerlo dal rischio di divenire ‘polvere’. È frutto di quella tensione che il nostro filtro cerca di trattenere collegata agli studi, alla formazione, ai modelli di Chiesa in atto e alle esperienze che la persona ha ordinato dentro di sé. Chiediamoci allora dove sorge, attinge questa espressione? È centrata su una fonte evangelica, sulla Tradizione (che va intensa in senso pieno il quale comprende e pretende in sé il cambiamento) o su bisogni, ansie, paure che vedono venire meno quel mondo conosciuto che, seppur talvolta generatore di frustrazione, è per il sé rassicurante? Rassicurante perché ci assegna un ‘nome? Quel nome che però non è più chiamato dal mondo attuale, riconosciuto dalla realtà. Ci è allora chiesto di lottare per ricevere un nome nuovo compiendo il successivo passo.

Terzo passo: risignificare. Riattingendo alla fonte evangelica e non alle forme storiche presenti, ripensare ruoli, spazi, tempi, narrazioni. Torniamo all’esempio fatto sopra, sulla corresponsabilità. Pensare ad un leader come colui che definisce una visione, nell’esperienza della solitudine (quanta narrazione da superare sulla inevitabile “solitudine del leader”!), e coinvolge altri a prenderne parte, collaborando… è un significato che può essere lasciato andare.

Risignifichiamo il ruolo del leader come colui che genera setting, spazi e tempi, dove insieme agli altri battezzati possa discernere una visione. Questa risignificazione sinodale della figura del leader non mette in discussione l’identità di guida ma la rilegge innestandola in una nuova forma. Ma è evidente che questa operazione avrà un impatto sul reale, sui modelli formativi, sulle aspettative che si generano… sui modelli di partecipazione, missione, comunione.

Come possiamo comprendere se una risignificazione è efficace?  Quando le nostre prassi, parole, pensieri torneranno ad essere connessi alla realtà ce ne accorgeremo dal nostro respiro. La polvere infatti non sarà annullata ma si depositerà in modo nuovo dentro noi, permettendoci di tornare a respirare liberamente e serenamente: benedizione! E saremo chiamati con un nome nuovo, il nostro in questo tempo, in questo spazio.