
UNA RIFLESSIONE SU DONNE E CHIESA
La donna non deve contare di più nella Chiesa, non basterebbe, è chiamata a trasformarla di più. Non si tratta solo di garantire una partecipazione, ruoli di governo e spazi formativi alle donne nella Chiesa. Si tratta di forzare una visione maschilista presente al suo interno.
“Prima di donare il mio corpo,
devo donare i miei pensieri,
la mia mente, i miei sogni.
E tu non volevi nessuna di queste cose.”
“Anche le donne hanno delle voglie.
Perché devono essere relegate
al ruolo di depositarie di emozioni,
custodì dei bambini, nutrici dell’anima,
del corpo e dell’orgoglio dell’uomo?
Essere nata donna è la mia
terribile tragedia” (da “Diari”)
Sylvia Plath, 27 ottobre 1932 – 11 febbraio 1963
Qualche giorno fa dialogavo con una poetessa amica, Luisa Ferretti, sulla distinzione tra lo stile e la grana di scrittura delle autrici rispetto agli scrittori maschi. Le chiedevo se fosse solo una mia impressione, che la scrittura femminile avesse uno sguardo viscerale e al tempo stesso crudo sulla realtà. Come se emergesse dal proprio utero in pianto e sorriso assieme.
Pensavo ad autrici come Sylvia Plath, Eudora Welty, la Paley, la Ortese, Simone Weil, la Dickinson,… un tratto non riscontrabile nella scrittura maschile con altrettanta rude e gentile potenza.
“Forse è perché le donne vivono nel proprio corpo il mistero della vita e dunque della morte… Se le portano dentro”, mi rispose Luisa, “A venti anni scrissi questa poesia: Nella rossa cavità delle nostre membra,/si perpetua un tunnel di sangue/pesante come piombo./Il Sangue diviene rosa./Affonda spine nella carne,/ per fiorire alla luce del sole./E, una volta recisa dal grembo,/la rosa fa cadere petali destinati a perdersi/e a marcire nel vento…/La chiamano Vita./ Ed ha colori diversi./La chiamano Vita,/per chi ancora deve nascere. /O morire”.
Mi chiedo se è di questa visceralità di cui è impregnata, gravida una donna. Ché più dell’uomo è iniziata continuamente alla vita mediante la morte ciclica del suo flusso. Mentre noi maschi ci illudiamo di possedere da fuori, le donne rinascono ogni volta da dentro la vita.
Questa riflessione nasce in relazione alla sintesi sinodale pubblicata in questi giorni, dove al capitolo 9 si parla di ‘Le donne nella vita e nella missione della Chiesa’.
Ragionare sulla differenza tra uomo e donna è prendere atto di questo elemento distintivo e profondo del diverso modo di partecipare al dinamismo dell’Essere, della Vita.
Non si tratta solo di garantire una partecipazione, ruoli di governo e spazi formativi alle donne nella Chiesa. Si tratta di forzare una visione maschilista presente al suo interno. Di accogliere uno sguardo altro, più aderente alla realtà nella sua ruvidezza e rugosità (S. Weil). Ma proprio per questo più in grado di misericordia e resurrezione, di accoglienza di vuoto e di complessità, di tolleranza della frustrazione senza cadere nel controllo/possesso. È di questo che mi piacerebbe parlare e non di un contributo ancillare delle donne rispetto alla cura, all’educazione, ai sentimenti di prossimità.
La donna non deve contare di più nella Chiesa, non basterebbe, è chiamata a trasformarla di più, a convertirla da degenerazioni secolari come già le grandi mistiche hanno fatto, ma come anche tante donne impegnate, penso solo per citarne una a Dorothy Day. Eppure nel documento troviamo verbi come “accompagnare le donne” “comprendere le donne”, “promuovere/valorizzare le donne”… verbi che appaiono colmi di paternalismo.
Il contatto rinnovato con il mistero della vita e della morte, è un abitare il reale che troppo spesso ci sfugge nel nostro agire pastorale, figlio di piani, progetti, programmi che proiettano idee sulla realtà senza più conoscerla pienamente. C’è bisogno di un tempo di disarmo progettuale. Di digiuno pastorale per poter ripercorrere le strade della Vita senza bisacce né sandali. Nutrirsi del corpo di Cristo presente nelle relazioni autentiche, impotenti di fronte al mistero dell’altro per accogliere la propria morte come principio di rinascita. E forse non è un caso che alcune scrittrici e potesse è con la morte – suicidio – che si opposero alla morte – leggi razziali, soprusi, ingiustizie – per rientrare nella vita dell’Essere (Plath, Pozzi, Weil, Cvetaieva, Woolf,…).
Forse non è nemmeno vero
quel che a volte ti senti urlare in cuore:
che questa vita è,
dentro il tuo essere,
un nulla
e che ciò che chiamavi la luce
è un abbaglio,
l’abbaglio supremo
dei tuoi occhi malati –
e che ciò che fingevi la meta
è un sogno,
il sogno infame
della tua debolezza.
Forse la vita è davvero
quale la scopri nei giorni giovani:
un soffio eterno che cerca
di cielo in cielo
chissà che altezze.
Ma noi siamo come l’erba dei prati
Che sente sopra di sé passare il vento
E tutta canta nel vento
E sempre vive nel vento,
eppure non sa così crescere
da fermare quel volo supremo
né balzare su dalla terra
per annegarsi in lui.
Antonia Pozzi – Milano, 31 dicembre 1931