
LA METAFORA DEL JAZZ COME CHIAVE DI LETTURA DEL CAMMINO SINODALE
Mia moglie suona il sax … sì, un po’ come Lisa Simpson. Fa parte di una banda e ama la musica. Grazie a lei ho potuto ascoltare un concerto jazz appassionante, che mi ha spinto ad approfondire alcune caratteristiche di questo stile musicale. Già nel nostro Blog abbiamo fatto riferimento alla metafora del jazz come chiave di ripensamento ecclesiale. Desidero qui continuare ad approfondire questa “analogia pastorale” nella speranza che contribuisca ad ispirare alcune scelte di stile di quel cammino sinodale che sta prendendo forma in molte Diocesi italiane.
Per mettere a fuoco alcuni tratti della metafora utilizzerò quattro “tensioni” (sul modello di Evangelii Gaudium), che cercherò di delineare accostando la musica classica al jazz. La scelta del modello di lettura a “tensioni” si rende opportuna in tempi di forte cambiamento e complessità, in quanto non semplifica eccessivamente la lettura della realtà attraverso una modalità out-out, ma è inclusiva, in quanto indica una polarità prevalente senza però escludere l’altra, anzi purificandola. Ad esempio: privilegiare il tempo rispetto allo spazio (EG, 222) non significa non curarsi della dimensione dello spazio, ma valorizzarla al meglio avviando processi che durino nel tempo.
Uno “standard” è più efficace di uno spartito
Un’orchestra classica segue uno spartito definito e si accorda preventivamente sulle diverse opzioni possibili in fase attuativa, così da procedere in modo ordinato nell’esecuzione. La musica jazz non nasce da uno spartito, ma da uno “standard”, una proposta aperta che può essere interpretata in modo differente da ogni musicista. Una cosa interessante è che questi standard musicali di riferimento non sono raccolti in testi prodotti dall’industria musicale, ma in Real Book. Si tratta di raccolte elaborate dagli stessi musicisti con obiettivi molto pratici e non commerciali per condividere la conoscenza musicale.
Traducendo queste caratteristiche in campo pastorale – e specificatamente nel contesto di un ipotetico cammino sinodale – privilegiare uno “standard” significa concentrarsi in primo luogo sul condividere come comunità una visione di riferimento, un “sogno missionario” come suggerisce Evangelii Gaudium (EG, 31). Questo il primo passo per passare da una cultura delle “opzioni” (problem solving) ad una cultura delle “possibilità” (problem setting). Il tutto non per produrre documenti o modelli di procedure (spartiti), ma per raccogliere delle esperienze (Real Book) che possano essere narrate per condividere conoscenza pastorale, promuovendo un’innovazione efficace. In questo modo il procedimento di ascolto, ricerca e sperimentazione non avverrebbe secondo una modalità lineare (top-down), ma dal basso, o meglio, dall’interno della stessa esperienza: un discernimento che nasce da un ascolto che avviene all’interno di un agire ecclesiale.
La reciprocità è più importante della ridefinizione dei ruoli
Nella musica classica il ruolo del compositore, dell’interprete e del direttore sono rigidamente separati l’uno dall’altro. Nel jazz vennero da subito fusi insieme, in una nuova figura, quella dell’improvvisatore. Fra poco ci fermeremo un momento per descrivere il senso del termine “improvvisare”. Qui ci limitiamo a notare che nella musica jazz i ruoli sono messi in secondo piano, per favorire un ascolto empatico che favorisca una reciprocità nell’azione. Michael Gold, fondatore di Jazz Impact – un progetto che unisce la musica jazz all’apprendimento esperienziale per creare nuovi modi di pensare alla leadership e al lavoro in team – scrive: «la natura della musica jazz è quella di una negoziazione collaborativa del cambiamento. Nel jazz la struttura non è separata in “hardware” e “software”, oggetti e relazioni, asset materiali e risorse umane. La struttura del jazz include un bilanciamento integrato di tutte le forme di capitale: materiale, tecnologico e sociale» (M. Gold – D. Villa, Trading Fours. Il jazz e l’organizzazione che apprende, 2012). In sostanza il come suoni conta più di chi e cosa suoni e l’ascolto reciproco diviene elemento fondante della realizzazione musicale.
Dal punto di vista pastorale tocchiamo qui un elemento costitutivo della sinodalità: ancora prima che i ruoli ministeriali vengono i battezzati. Soggetto dell’evangelizzazione è il Popolo di Dio, lo sappiamo, e ciò significa dare precedenza a tutte quelle forme che favoriscono un pensare insieme, decidere insieme, agire insieme. E non per eliminare la diversità oppure annullare le identità, ma proprio per valorizzarle al meglio perché solo nell’insieme ognuno può trovare il senso della sua stessa esperienza. Questo significa anche lasciare in secondo piano i “gruppi” o settori in cui spesso sono strutturate le nostre comunità per favorire una ritessitura dei legami comunitari non più basati su “ciò che si fa in parrocchia”, ma sul legame con Gesù Cristo, cioè sull’esperienza della fede. Purtroppo oggi, nella migliore delle ipotesi, si mette in atto un riequilibrio della ministerialità sacerdotale, con altre ministerialità laicali, rischiando però di restare nell’ambito della gestione del potere e del controllo. La questione fondamentale, invece, non è il controllo, ma la libertà. In questo senso un adeguato riposizionamento sul Battesimo potrà portarci fuori da questo limite.
L’improvvisazione è migliore della perfezione
L’orchestra classica è un ensemble basato sulla ricerca di una perfezione che nasce dalla competenza e dall’esecuzione tecnica di uno spartito: un ambiente creato per eliminare al massimo l’incertezza e l’imprevisto. In questa esecuzione musicale tutto viene regolato nel minimo dettaglio. Nel jazz, invece, la regola d’oro è l’improvvisazione. Interessante è notare che nell’etimologia anglofona l’espressione “improvisation” è costituita da due locuzioni: “to improve” (migliorare) e “action” (azione). L’improvvisazione è l’arte di migliorare quello che c’è. Questo stile lascia spazio all’incertezza e ciò che accade in modo inaspettato è bene accetto in quanto favorisce l’esercizio della creatività. L’improvvisazione è capace di dare alla musica un di più. Infatti, si può conoscere a perfezione la tecnica musicale e fare una bella esecuzione, ma suonare senza anima.
L’improvvisazione è una caratteristica distintiva del jazz. Che lo sia stato anche della Chiesa delle origini? A mio avviso sì, ma nel tempo abbiamo preteso di coordinare tutto, su copioni ben organizzati e tutti uguali, con un direttore di orchestra che avesse il pieno controllo su tutto, … Non è forse arrivato il momento di lasciare più spazio all’improvvisazione (intesa nel senso descritto di “arte del migliorare”)? Certamente sarà necessario non procedere a tentoni ma, come già accennato, realizzare insieme una sinfonia ecclesiale a partire da uno “standard” condiviso. Non è forse questo il tempo di essere audaci e creativi (EG, 33) e di assumersi il rischio di innovare con libertà? In questa prospettiva anche gli errori saranno esperienze preziose per scoprire insieme la novità dello Spirito. Questo richiederà di non avere la fretta di istituzionalizzare tutto, ma la pazienza di vivere l’informalità, privilegiando il quotidiano e cercando di abitare gli spazi ordinari della vita.
L’apprendimento prevale sull’esecuzione
In una esecuzione classica, che si basa su uno spartito musicale definito, un valore aggiunto è certamente dato dalla competenza esecutiva dei musicisti. Ciascuno eseguendo bene il suo spartito contribuisce all’opera, realizzando una performance ottimale. Nel jazz la logica dell’esecuzione passa in secondo piano a favore di un ascolto empatico che, se condiviso da tutti i componenti del gruppo, porta allo “swing”. Si tratta di un flusso musicale libero da resistenze: «per andare a swing c’è bisogno di ascoltare gli altri molto più di quanto non si faccia con se stessi. E questo non solamente da un punto di vista intellettuale. Tra i musicisti ci devono essere fiducia e una sincera curiosità per il suono, i sentimenti e le espressioni ritmiche degli altri. Solo così si può suonare con swing. In un certo senso, l’idea di swing nel jazz corrisponde a un processo lavorativo di feedback continuo. Andare a swing equivale a mettere in atto un rispecchiamento delle esperienze degli “altri” attraverso la propria. Il risultato sarà quello di un’espansione delle nostre capacità, sensazioni e percezioni al di sopra di quanto le nostre normali attitudini permetterebbero» (M. Gold – D. Villa, Trading Fours). Nel jazz l’apprendimento empatico prevale sull’esecuzione.
In campo pastorale questa attitudine può tradursi nel mettere in secondo piano la ricerca di risultati a favore di una ricerca condivisa nello stile dell’apprendimento. Oggi, prima ancora di cercare risposte è necessario fare spazio a nuove domande, in uno stile di ascolto empatico. Si tratta di ritornare a privilegiare lo stile del discepolato a tutti i livelli ecclesiali per rigenerare comunità capaci di apprendere e rigenerarsi. Per questo occorre crescere in una prassi di discernimento comunitario capace di condurre le comunità ad uno “swing pastorale” animato dallo Spirito, capace di attrarre ed evangelizzare gli uomini e le donne del nostro tempo. Proviamo a lasciare lo spartito nelle mani dello Spirito. Cerchiamo di riconoscerne e interpretarne, anche se con qualche incertezza, lo standard. Sarà questa la via per suonare come Chiesa la novità del Vangelo con il ritmo dell’oggi.
Dalla sala mi raggiunge il suono del sax: è mia moglie che sta provando alcuni arrangiamenti sullo standard della famosa Messa Jazz di Duke Ellington. Presto avrà luogo un nuovo concerto, che sarà occasione per emozionarsi e sognare. Spero di riuscire a prendere parte a questo spettacolo e allo stesso tempo spero di assistere al concerto di portata universale che la Chiesa interpreterà nei prossimi tempi, animata dallo Spirito.