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LINGUAGGIO E LINGUAGGI

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Tempo di lettura: 8 minuti

OLTRE LA NOIA DEL LINGUAGGIO ECCLESIALE

“Comunicazione e linguaggi sono due parole chiave che emergono dai materiali provenienti dalle diocesi. Un linguaggio non discriminatorio, meno improntato alla rigidità, ma più aperto alle domande di senso, sembra la chiave per parlare a tante persone in ricerca, per rendere la Chiesa più accessibile, più comprensibile e più attraente per i giovani e i ‘lontani’, più capace di trasmettere la gioia del Vangelo”. Questo dalla sintesi italiana del primo anno di cammino sinodale. Il tema è centrale, ma come evitare che le soluzioni ricercate non siano altro che un opera di maquillage?

Il linguaggio ecclesiale si qualifica con la sua chiarezza, linearità, sistematicità, è ben definito e articolato… è noioso, estremamente noioso. Non mi riferisco ad un intervento accademico. Sto pensando ai tanti discorsi, omelie, testi che capita di ascoltare o leggere. La forte tentazione di spiegare, descrivere, insegnare è onnipresente. Tutto è svelato, nulla si rivela.

Il tema del linguaggio è uno dei nuclei che più spesso è emerso nell’ascolto sinodale. L’esigenza è chiara e forte. Il grande rischio che percepisco è quella di ricorrere ad una ‘volgarizzazione’ del linguaggio ecclesiale: usare termini ed espressioni dell’oggi, immagini e formule che rendano più chiaro e comprensibile quanto vogliamo dire agli altri. Ancora la logica è quella di convincere, spiegare, insegnare il contenuto in nostro possesso. Tutto si convince, nulla si converte.

Henry Nouwen, nel suo scritto Nel nome di Gesù. Riflessioni sulla leadership cristiana, indica tra le caratteristiche del leader cristiano del futuro quella della mistica: la capacità di sentire la realtà nelle sue dimensioni di senso più profonde; è anche la ‘mistica della fraternità’ che ci apre all’autotrascendenza, che sa aiutarci a vederci attraverso uno sguardo Altro. Ed è proprio di mistica che vorrei scrivere. Riferirmi al linguaggio dei mistici del 1500, che in un cambio d’epoca hanno saputo ripensare profondamente l’uso del linguaggio per comunicare l’esperienza di fede. Lo studio di riferimento è Fabula Mistica XVI-XVII secolo di Michel de Certeau.

IL LINGUAGGIO DEI MISTICI

Rispetto a questo tema, la forza dei mistici fu, a mio avviso, quella di trasformare il linguaggio da mero strumento veicolare di contenuti ad esperienza. Il linguaggio, cioè, diviene in grado di generare per la forma e lo stile che assume, un movimento interiore, producendo nel destinatario una vera e propria esperienza di relazione. C’è alla base una chiamata, una voce, non un contenuto, non una chiarezza. 

Il linguaggio mistico è dire un’assenza, un’attesa del mancante. È cercare ciò che deve parlare. Un vuoto da cui può nascere il Verbo. A noi sta il ruolo di avverbi, attraverso cui il Verbo e i suoi verbi possano poggiarsi e contestualizzarsi.

Il tempo fa irruzione e trasforma. Afferra in un presente che è continua sorpresa, nascita e morte, cominciamenti, esordi. Non è lineare, non c’è continuità come è proprio invece delle istituzioni.

Il presente è passione per ‘ciò che è’. Non è né atteggiamento proiettivo né nostalgico. È passione del mondo come ‘sta’ o della cosa stessa, è fondersi confondersi con esso. Mi viene in mente la poetica di Alberto Caeiro, alias Pessoa… un poeta, un mistico del XIX secolo:

Le cose non hanno significato: hanno esistenza.

Le cose sono l’unico senso occulto delle cose.

Passa una farfalla davanti a me

E per la prima volta nell’universo mi accorgo

Che le farfalle non hanno colore né movimento,

così come i fiori non hanno profumo né colore.

È il colore che ha colore nelle ali di una farfalla,

nel movimento della farfalla è il movimento che si muove.

È il profumo che ha profumo nel profumo del fiore.

La farfalla è solo farfalla.

E il fiore è solo fiore.

Guardo e le cose esistono.

Penso, ed esisto solo io.

MISTICA E IL SOMMOVIMENTO DELLE ISTITUZIONI

Il linguaggio mistico non offre una dottrina, offre dei dispositivi: modi di esprimersi, di disporre i termini; crea uno spazio dove il discorso possa avvenire. Non prescrive, non dice ‘è questo’: la saggezza è sempre ‘non questo’.

De Certeau mette a confronto la mistica con la dottrina: “La dottrina, mediante il controllo, l’unificazione e la diffusione catechistiche, diventa uno strumento che permette la fabbricazione di corpi sociali, la loro difesa o estensione. Il compito di educare e la preoccupazione verso i metodi contraddistinguono l’attività dei ‘partiti’ religiosi e di tutte le nuove congregazioni, sempre più conformi, in questo, al modello statale”. Ci si riduce ad istituzioni pedagogiche!

Questo penso sia il grande rischio che stiamo vivendo. La Chiesa non è un ente pedagogico, ma una realtà che avvia processi di liberazione mediante la pratica e l’annuncio di una Parola di Vita. Una Parola che attraversa i confini come un angelo, un simbolo – symballo – unisce, tiene insieme, cuce la frattura tra mondi, spazi, traiettorie di vita: raccorda due solitudini, supera i muri di separazione, i binomi, le logiche binarie, manichee, uomo donna, alto basso, cima fondo, fuori dentro. In questo è anche smarrimento, disorientamento.

Questo è lo spazio che il linguaggio mistico dispone. Mette in atto delle pratiche dello spazio, un ex-cedere della Parola fino a far coincidere gli opposti, come entrare-uscire. È hybris, trasgressione. Abita il presente e lo sfida: è fare esperienza che esiste un ‘più di te’.

La parola è parola passante, distaccata come quella di un poeta o un’analista. È filo passante che attraversa senza trattenere. Direbbe l’artista Maria Lai, altro sguardo poetico-mistico dell mondo contemporaneo:

Essere è tessere.

Cosa vuol dire cucire.

Un ago entra ed esce da qualcosa lasciandosi dietro un filo

segno di un suo cammino che unisce luoghi e intenzioni

Le cose che unite restano integralmente quelle che erano

solo attraversate da un filo.

Un linguaggio che non seduce. Usa al contrario la categoria della ‘follia’, il segreto interiore presente in noi… come il figlio minore della parabola, come il santo Francesco… si carica della follia di tutti noi. Follia che sfugge all’istituzione (figlio maggiore), si sottrae, vi eccede, va oltre, diviene oltraggio. L’istituzione ha al contrario il ruolo di proteggere dalla vertigine dell’eccesso. Il problema è se smette di ascoltare la voce del Padre che la richiama, che la invita, che la riporta sulla realtà delle cose, su ciò che è.

I chierici, per de Certau, sono la polizia del simbolo. Il folle, invece, rompe il legame istituito, sommuove l’istituzione, ricordandoci che è mobile. Deride, perché non ha bisogno di essere difeso e non ha più nulla da difendere, perché è forte di un’assenza. È cosa di tutti, svincolato dalla proprietà che fonda la violenza: il Cristo crocifisso. Il folle crea un rapporto di forza, un corpo a corpo che si situa fuori dalla relazione simbolica istituita. E’ atto violento.

IL LINGUAGGIO MISTICO INVITA AD UNA TRASFORMAZIONE

Il linguaggio mistico è un dire relazioni non enunciati con una logica o fatti (storiografia). I mistici narrativizzano forme relazionali. Si tratta di racconti: operazioni trasformatrici: trasforma i rapporti tra i soggetti dentro sistemi di senso.

Nei mistici il criterio del ‘bello’ si sostituisce a quello del ‘vero’. Funzione poetica più che referenziale o conativa, persuasiva. Diventa mistico ciò che cessa di avere la ‘trasparenza’ del segno (comunitario), mentre l’istituzione pedagogica punta alla ‘volgarizzazione’ di una predicazione chiara, adatta ad ogni gruppo sociale.

I teologi pensano di fissare le cose della mente con le parole, garantendo così un’istituzionalizzazione del senso. Sono il regno del verbo: privilegiano la logica dell’agente che autonomizza le operazioni intellettuali rispetto ad un mondo di segni e che pensa la serie di queste operazioni secondo il modello della genesi con un creatore-locutore. Sono il regno del verbo non dell’avverbio. Si fanno verbo.

Il mistico genera parola nuove. Per fare questo richiede il maschile e il femminile, non è celibe come l’istituzione clericale. Deve partorire. Le sue parole insinuano nel linguaggio un alterità rimossa, l’assente. Usa termini incongrui, inauditi. Oltre la sterilità: l’angelo disse ‘avrai un figlio’.

L’attività metaforica è una traslatio: introduce vocaboli esteri in una lingua canonica; introduce in un parlare nuovo termini di una scienza legittima. Genera un passaggio tra luoghi linguistici, tra epistemi diversi. Unifica la conoscenza in un nuovo linguaggio. Questo è possibile attraverso la forma del dialogo o racconto: combina in un testo una pluralità di luoghi e azioni. I mistici hanno usato la forma epistolare, il racconto della propria vita, itinerari immaginari e/o normativi. L’attenzione è posta sul situarsi in un luogo dove una voce non cessa di cominciare.

Nella mistica il verbo è spodestato, liberando unità semantiche. La priorità è data al discorso interiore ed esteriore. Attraverso una scena fisica degli eventi che precede la scena mentale.

Non fissa leggi generali (metafisiche), sul piano etico o ontologico. Fissa nel tempo gradini, step, indicando una trasformazione dentro una logica del gioco, cioè di regole ed errori. Diverso se fosse sul piano etico che prescriverebbe leggi, e quindi colpa e peccato di fronte ad una loro infrazione. È processo, è sequela, non mera imitazione, progetto da ripetere, è performance – à la Victor Turner – non prestazione.

È una performance che poggia sulle circostanze, sull’utile del momento, sul discernimento che crea rottura, distacco, una partenza da aderenze ideologiche o storiche per la costruzione di un futuro più che per il rispetto di una tradizione.  “Abbandona il tuo paese”. Circoncisione mistica e spirituale, taglio, spada. È dimenticare, più che restare fedele (preso in un passato).

IL LINGUAGGIO MISTICO LIBERA SIGNIFICATI

Il mistico fa uso di termini non comuni. L’oscurità non la chiarezza, non la luce ma il fuoco. Cerca di suggerire l’esperienza, il gusto più che la speculazione. La lingua non imita le cose: disfa le coerenze delle significazioni, crea un vuoto in un mondo dove si suppone scritto, per liberare ciò che la cosa teneva sopito nelle parole.

È impertinenza di accostamenti: propone un esilio semantico, una uscita: ossimoro, metafore (tropi), non similitudini o analogie!

Il segno quando rappresenta una cosa, è trasparente, si dimentica, e non si percepisce più. Allo stesso tempo ha una sua realtà, è opaco. Il linguaggio mistico pone l’attenzione sul segno facendo dimenticare la cosa, produce un segreto, vela non svela! Non descrive un’esperienza, si fa esperienza. Vi è un eccesso, una indecenza grammaticale, una performance oltre la competenza.

È parola spezzata: una parola ferita, separata dalla cosa, da ciò che mostra. Parola come dolore del linguaggio.

La frase mistica come artefatto del silenzio: produce silenzio nel rumore delle parole.

È una retorica più che una ermeneutica. Un modo di dire che genera un’esperienza e, quindi, anche un sapere, oltre il sapere costituito. Mentre l’ermeneutica è spiegazione dell’esperienza dento il sapere costituito.

L’apologetica e la predicazione pongono enunciati ammessi dagli interlocutori e su questa base si propone di ottenere una adesione (convinzione), un cambiamento di volontà.

La mistica invece genera un distacco dagli enunciati ammessi, una liberazione. Un distacco volto a formareIL desiderio dell’assente: conversione.

È l’esperienza di chi parla che sorregge il discorso e non l’accredito dell’Istituzione.

La forma che il linguaggio assume ha valore di archetipo: è riconoscere la stessa forma in avvenimenti diversi, frutto dell’esperienza, di avvenimenti contingenti,  e non interpretare quanto detto. E’ la forma e non il discorso teologico o storico ad avere valore. Non è una parola sull’amore ma una parola che ama.

TRE CONDIZIONI PER UN LINGUAGGIO LIBERATO E LIBERANTE

Un altro teologo francese, Maurice Bellet, offre tre condizioni per un rinnovamento del linguaggio religioso (Il pensiero che ascolta, come uscire dalla crisi, Paoline):

1 – deve essere abitato e attraversato da un immenso silenzio, che è quello dell’ascolto. La parola che sto per ascoltare non la conosco in anticipo. Un silenzio presente, attenzione pura alla Parola;

2 – un linguaggio nuovo, da inventare soprattutto in momenti come quello che viviamo di rottura culturale. Come la Chiesa ha sempre fatto nella sua tradizione. Più è grande la rottura culturale più l’invenzione si fa urgente;

3- il linguaggio deve rispettare la letteralità di quello vecchio, deve ascoltare alla lettera il vecchio linguaggio, senza edulcorare o volgarizzare il Vangelo per renderlo più accettabile o comprensibile. Non si tratta di dare ai contemporanei una formulazione che piaccia ma che disorienti.

Tre condizioni non facili da raccordare. Riuscirvi forse non è la soluzione, quanto esporsi, accettare la vertigine di un eccedere, incedere, oltre il baricentro del linguaggio preordinato e controllato, chiaro e lineare. Intraprendere un sentiero nuovo e al tempo stesso antico. “Il sentiero è come una piega del terreno, visibile solo mentre lo si percorre” (Tim Ingold), non chiede di essere spiegato, ma di essere percorso. Oltre la tentazione del convincere, che toglie spazio all’attenzione, all’attesa. Perché come scrive Ali Smith nel suo ultimo romanzo, Coda, “Ogni saluto, come ogni voce – in tutte le lingue possibili, e la voce umana è la più piccola che ci sia – contiene la storia pronta, in attesa. La storia, bene o male, è tutta lì”.