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Lanciare palline di semi nel deserto

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Tempo di lettura: 11 minuti

ELEMENTI DI PASTORALE ANTIFRAGILE

Può una pallina di argilla contenente microrganismi e semi di piante diverse arrestare l’avanzata di un deserto? Può il modello antifragile costituire uno strumento di lettura per ripensare la pastorale e per avanzare verso nuovi orizzonti di Chiesa? In questo articolo cercherò di illustrare alcune delle caratteristiche del modello antifragile e richiamare per ognuna di essa dei riferimenti alle relazioni, alle organizzazioni e prassi pastorali.

Si può affrontare un tempo incerto e nuovo con le strutture mentali e organizzative di cui oggi siamo dotati?

L’attivista e ambientalista indiana Vandana Shiva scrisse in un suo celebre saggio (‘Monocolture della mente’) come la monocultura ha portato alla monocoltura e così alla desertificazione di tanti terreni, soprattutto nei luoghi sfruttati del Sud del Mondo.

Anche noi viviamo una desertificazione di carattere culturale e spirituale. Laudato Si’ richiamava questa correlazione, ricordando che i deserti esteriori si moltiplicano per l’ampiezza che hanno assunto i deserti interiori (LS 217). È oggi richiesta una conversione profonda. Non possiamo affrontare la novità ed avviarci ad accompagnare quel cambiamento che lo Spirito ci ispira con i soli strumenti linguistici e i modelli di riferimento su cui oggi facciamo affidamento. Non possiamo applicare una monocoltura pastorale.

Per questi motivi, come Centro Studi, il riferimento al modello antifragile è stato preso in considerazione per offrire uno stimolo, delle chiavi di lettura utili per ricomprendersi e definire nuovi scenari pastorali in questo tempo incerto, complesso e mutevole. Per trovare l’equipaggiamento più opportuno nel fronteggiare i deserti esteriori e interiori.

ANTIFRAGILITA’ NON E’ NEGAZIONE DELLA FRAGILITA’: E’ GETTARE SEMI NEL DESERTO

Una premessa va fatta. Un chiarimento sul termine antifragile. Si tratta di un neologismo coniato dal filosofo e matematico Taleb per indicare l’opposto del termine fragilità.

Se ci pensate, non esiste un termine esattamente contrario a ‘fragilità’, né in italiano né in altre lingue. ‘Robusto’ o ‘indistruttibile’ non sono dei contrari. Per contrario si intende il verificarsi di un fenomeno opposto a quello che si verifica rispetto alla fragilità.

Un corpo fragile se subisce un urto o un trauma si spezza. Un corpo robusto e indistruttibile resta come prima. L’effetto conseguente al trauma non è quindi l’opposto. Sarebbe l’opposto se il corpo potesse apprendere da quel trauma e divenire anche grazie ad esso migliore, sapersi rileggere in modo nuovo, scoprire nuove possibilità, acquisire maggiore efficacia nel gestire quelle tensioni.

Per definire questo concetto Taleb ha coniato il termine antifragilità, un’unica parola, un neologismo, proprio per indicare che non si tratta del contrario della fragilità.

Antifragile è quella realtà che fa forza sulla propria fragilità o sulle fragilità che la compongono, per crescere e migliorare. La natura ci offre degli splendidi esempi. Provate solo a pensare a come il nostro organismo reagisce alle malattie, mettendo in atto un processo in grado di sviluppare delle nuove risorse, degli anticorpi, che lo renderanno immune anche in futuro. Addirittura, per favorire questi processi, facciamo uso di vaccini che attivino intenzionalmente queste reazioni.

Una tecnica impiegata per opporsi alla desertificazione e rendere di nuovo verdi le aree desertiche, è quella in uso nella pratica dell’agricoltura naturale. Il padre di questa teoria e pratica agricola Masanobu Fukuoka, notò come molte trovate ingegneristiche per sconfiggere i deserti fossero fallimentari e costosissime in termini di risorse, peggiorando spesso la situazione di partenza.

Erano approcci più adattivi o resilienti se vogliamo usare i modelli esposti in precedenti articoli (vedi https://missioneemmausblog.wordpress.com/2020/04/20/verso-una-pastorale-antifragile/). Costruire dighe, portare quindi in modo forzato l’acqua laddove non c’era più mediante strutture artificiali, usare nuove sementi geneticamente modificate. Tutto questo rese ancora più fragile quegli ecosistemi, più dipendenti da elementi esterni. E come spesso avviene attuando strategie adattive o resilienti, i risultati furono di breve periodo, senza ottenere dei cambiamenti sensibili nel tempo.

Fukuoka si servì di palline di argilla contenenti un insieme di microorganismi e semi di varie piante. L’argilla proteggeva i semi dagli animali e tratteneva l’acqua necessaria per la germinazione. Con la prima pioggia il deserto si ricopriva di verde. La maggior parte di queste piantine tuttavia sarebbe morta con le successive siccità, ma quelle sopravvissute avrebbero trattenuto l’acqua e fornito l’ombra utile per una nuova semina e per la rivegetazione del deserto.

Per usare un’immagine, siamo forse oggi chiamati nella pastorale a lanciare palline di argilla nel deserto. Un mix scelto di piccoli semi, fragili, che potranno ricreare un tessuto vivo grazie allo scambio che si attiverà tra di loro, al reciproco sostegno, al micro-cosmo che genereranno.

Proviamo a rileggere questa metafora in termini pastorali, mettendo in luce alcune delle caratteristiche del modello antifragile.

FRAGILITA’ IN RETE

Come ho già scritto sopra, l’antifragilità mette in rete le singole fragilità. In questo modello si ha cura di creare spazi dove queste fragilità non restino separate ma si possano incontrare, narrare, contagiare per realizzare un ‘noi’ che rende diversi, fa crescere.  

Pensiamo solo a quanti questionari sono stati prodotti in questo tempo per chiedere alle persone come stavano vivendo questa fase di quarantena. Cosa avevano appreso, cosa ritenevano più importante per loro, cosa gli stava mancando di più… tutte richieste che dal centro andavano alla base in un rapporto individuale, lasciando cioè le persone isolate. L’intenzione era buona ma non ha sviluppato un approccio antifragile.

L’approccio antifragile avrebbe cercato di realizzare piccole comunità (a distanza) dove rinarrarsi quanto si stava vivendo. Si può ben capire che il frutto che ne deriverà non è solo il prodotto finale (le risposte ai questionari) ma l’aver ritessuto legami relazionali e comunitari, l’aver aiutato le persone a ricomprendersi dentro uno scambio. Premesse necessarie per accompagnare le comunità a divenire più generative.

NUOVA LEADERSHIP

Questa riflessione porta anche a rivedere alcuni modelli di guida di una comunità. Se prima il leader, o per noi il pastore o il vescovo o il direttore di un ufficio, era visto come il portatore di una visione che era chiamato a condividere con gli altri, ora è più colui che sa generare spazi dove insieme alle altre persone (Popolo di Dio) si possa discernere insieme e rinarrare una comune visione, composta da tante sfaccettature diverse. Non più una sfera, per citare Evangelii Gaudium, ma un poliedro, che ha un centro comune pur assumendo forme e sfaccettature diverse.

Porre le basi per definire quel ‘noi’ che supera le singole individualità, per costituire un riferimento condiviso da tutti.

Riconnettersi ad un ‘perché’ prima che ad un ‘cosa’ o ad un ‘come’.

Non è il condottiero né la guida carismatica (non sono più i tempi e non rappresentano queste delle valide premesse per intraprendere un cammino sinodale) ma un ‘ingegnere’ di spazi, dove far fiorire relazioni fraterne. È il costruttore di palline di argilla dove porre al suo interno i diversi talenti dei propri parrocchiani. È una guida che sa che non potrà tenere tutto sotto controllo ma che una volta che ha creato spazi autonomi e creativi – gettato palline di semi –  dove le persone possano sviluppare pensieri profetici, si affiancherà per accompagnarli.

STRUTTURE DECENTRATE

Una comunità è più antifragile se i processi decisionali non passano tutti da un punto, dal centro, per giungere alla periferia. Ma si ha un decentramento dei livelli decisionali ed esperienziali. Si rende più forte l’insieme se ogni parte è in grado di discernere, vivere esperienze, sviluppare scelte autonome.

Proviamo solo a pensare la struttura di molti centri ecclesiali. Sono concepiti intorno a grandi sale conferenze, saloni, auditorium. Che non sia più il tempo per questi luoghi? Luoghi di apprendimento spesso più cognitivo, dove qualcuno era chiamato a dire qualcosa agli altri.

La quarantena, per chi ha tentato la via dell’antifragilità pur senza usare questa espressione, ha costituito l’opportunità per mettere in moto dei processi esperienziali al di fuori delle mura parrocchiali o diocesane. Se pensiamo veramente che la parrocchia o la diocesi sia al servizio di un dato territorio e non viceversa, si può comprendere che quest’ultimo non può far riferimento sempre a lei. Non può andare verso di lei per tutto ma sarà il contrario.

Non si può pensare che una mensa della Caritas diocesana possa servire 300 pasti giornalieri e anche curare con la giusta attenzione le relazioni, dovendo ricorrere non solo a volontari ma anche a dipendenti. Ma immaginare che invece di una mensa, se ne abbiano molte sul territorio, che offrano pasti e calore e bellezza, con delle comunità che se ne prendono carico… è un bel salto nell’antifragilità.

Richiede un impegno iniziale ma non si tratta di un costo, è un investimento.

IL TUTTO NELLA PARTE

Come è possibile decentrare i processi decisionali? Vivere alcune esperienze non dentro gli edifici parrocchiali ma nelle case, nei quartieri, nei bar…?

In natura si hanno molti esempi di organismi che riproducono tutto il loro apparato genetico anche in una loro sottosezione. Se prendiamo una parte del tutto, lì possiamo ritrovare l’intera gamma di elementi che caratterizzano l’organismo nel suo insieme, tutto il suo codice genetico. Questo è un modello antifragile!

In ogni singola parte è custodito un ‘noi’. Quanto in una diocesi o in una comunità è condiviso un sogno pastorale diversamente da un piano pastorale? La condivisione di alcuni lineamenti, alcuni criteri, che possano poi rappresentare l’orizzonte su cui incamminarsi ognuno con le proprie capacità e la propria creatività? (vedi per un approfondimento l’articolo https://missioneemmausblog.wordpress.com/2020/04/27/dai-progetti-ai-processi-2/).

Quanto le persone che frequentano quel luogo conoscono quali sono le priorità su cui ci si sta spendendo e quali i valori profondamente condivisi, che emergono non solo dalle parole ma anche da segni, gesti, attenzioni? Ogni parte custodisce il tutto, un centro interno dal quale agire. Di nuovo torna il ruolo della guida che ha cura che, per prima cosa, si possa condividere in chiave sinodale una visione, dei criteri, delle priorità. Allo stesso tempo, di una guida che fa forza anche sulla sua personale fragilità e che desidera crescere nel lasciarsi lui stesso guidare dagli altri.

Questo permette a ciascuno, anche di fronte ad una situazione nuova ed imprevista, di prendere l’iniziativa laddove lui è. E lo farà con maggiore efficacia proprio perché è colui che è presente in quella realtà, la abita, la conosce meglio e saprà così operare la scelta più opportuna.

COMPLESSA E NON COMPLICATA

Per essere più adeguati alla realtà e non subirla, la struttura antifragile è un’organizzazione complessa, perché fatta da singole parti che stanno in rete tra loro. Complessa ma non complicata. Ciò che rende complicata una organizzazione è la sua struttura gerarchica, la verticalità. Basta vedere gli organigrammi interni di molte strutture ecclesiali. Per arrivare dal vertice alla base occorrono molti passaggi e complicazioni. E tutto questo genera complessità e tante aree grigie che lasciano solo spazio a giochi di potere, fraintendimenti, politiche interne, ritardi e rivendicazioni.

Attivare cellule disperse sul territorio, che custodiscano il ‘noi’ del tutto, senza filtri o intermediazioni burocratiche e gerarchiche è essere complessi come lo è la natura e la vita, ma non complicati.

Quindi, un’organizzazione antifragile riduce la verticalità e aumenta la dimensione orizzontale in termini di ruoli, incarichi, nomine. Si diversifica al suo interno senza aumentare o creare sovrastrutture. La struttura rigida di fronte all’urto può resistere ma non apprende. La struttura come la persona rigida, rende tutto più complicato perché non è predisposta al dialogo autentico, ma si aspetta uniformità e un pensiero da tutti accettato. La complessità sa ascoltare, stare nel conflitto valorizzando la pluralità.

Una realtà antifragile preferisce alla rigidità una forma più diffusa. Una gerarchia di base resta, in particolare nelle istituzioni ecclesiali dove questa ha una base di carattere sacramentale, ma poi si fa forza sulla fragilità battesimale di tutti.

Questo permette di ridurre la burocrazia, i passaggi da fare per comunicare delle informazioni e prendere delle decisioni. Si entra dentro una piena corresponsabilità, una corresponsabilità effettiva e non più solo affettiva. Si riduce anche la specializzazione che caratterizza ancora troppo le nostre proposte pastorali. Pensiamo solo alle curie composte da più di dieci uffici pastorali. Potranno anche essere riuniti in aree ma sono sempre 10 sottostrutture gerarchiche con a capo un direttore, con una segreteria, dei collaboratori e infine dei volontari. Gli operatori presenti alla base, sul territorio, da questi vertici non si riescono più a vedere e non per colpa di nessuno, solo per una struttura non più sostenibile.

SPERIMENTARE

Abbiamo visto la parte più organizzativa, vediamo ora come opera una realtà antifragile. Di fronte al deserto non si possono mettere in atto dei progetti di monocoltura, ma occorre differenziare, sperimentare sapendo che non tutto avrà successo, ma ci fornirà degli indizi preziosi per procedere oltre.

È un cambio di approccio profondo rispetto a quello da cui veniamo, più basato sui piani o i progetti pastorali. Dove a partire da un’analisi della realtà si potevano fissare obiettivi chiari e procedere con azioni strutturate. Un approccio che si basava su una esigenza di controllo, di sistematizzazione, di completezza. Dal punto di vista delle prassi, l’antifragilità predilige uno stile di sperimentazione, dove l’errore viene considerato come una fonte di informazione, un investimento capace di illuminare la prassi e di evitare errori irreversibili. Non tutti gli errori, infatti, sono da considerare accettabili anche in una cultura antifragile. Si parla di piccoli errori, sbagli che si possono correggere velocemente perché non fanno cadere come un castello di carte un grande progetto, ma emergono da piccoli esperimenti, da micro-proposte.

Il luogo creativo è quel luogo in cui è possibile sbagliare sapendo che si possono fare tante piccole sperimentazioni senza aver la paura di non riuscire ad operare dentro un quadro completo, con piena sistematicità. Si tratta quindi di lanciare palline di argilla nel deserto, palline composte da semi diversi e monitorare i germogli. È accettare una parte di caos che è necessaria se si vuole generare qualcosa di nuovo. Mettendo in conto che come negli organismi viventi, ci saranno delle esperienze che moriranno perché non riusciranno a trovare vitalità in quel terreno, ma tante altre vivranno e quelle che vivranno porteranno dentro i geni, gli elementi genetici per poter prospettare un futuro e delle rotte innovative.

SENZA ISTITUZIONALIZZARE E SISTEMATIZZARE TUTTO E SUBITO

Si configura così un approccio meno sistematico, meno completo, che sa fare uso di elementi di minore efficienza ma che punta sull’efficacia. La valorizzazione del metodo narrativo rispetto a quello puramente analitico è una scelta antifragile. Ritornare al narrare – prima ancora che allo spiegare – far uso dello humor, più in generale della dimensione estetica (bellezza), perché come sappiamo il processo di conversione parte dal cuore, prima che dalla mente: prima si crede e poi si conosce (Gv 6, 69).

È difficile chiedere alle strutture diocesane di oggi questo salto in quanto abbiamo uffici che elaborano progetti. Ma proviamo a innestare in questo terreno dei pool spontanei, leggeri, che unendo soggetti di ambiti diversi hanno un mandato più innovativo. Che mettano insieme persone che operano in ambiti diversi tra loro per elaborare qualcosa di nuovo e trasversale che non si lega a quello che c’è già, con la possibilità di fare piccole sperimentazioni sul territorio senza troppi passaggi burocratici. Per mantenere le metafore agricole, questi pool o “team start-up”, sono come dei semenzai, dove si seminano piantine diverse e ci si prende cura dei germogli, che sarebbero altrimenti soffocati se piantati accanto ai progetti più rodati e istituzionali. Questi germogli sono esperienze diverse, da sperimentare in un dato tempo su un territorio, raccogliendo dati, informazioni preziose e rilanciare solo dopo, con gli uffici, ciò che si vedrà sia in grado di attecchire.

ABITARE LE TENSIONI, SVILUPPARE UN ATTRITO CREATIVO

Questo stile, dal punto di vista relazionale, può generare tensioni e caos, ma proprio essi sono energia atta a ricreare un terreno fecondo, dove si creino quelle condizioni per una prassi creativa. Occorre apprendere a stare in ambienti dove non vi è ricerca dell’equilibrio. L’equilibrio è staticità, morte. Può andare bene in un tempo di stabilità, non in questo. Le tensioni generano movimento, vita. Non vanno soppresse ma curate e se necessario accese. Senza l’ansia di avere subito tutto chiaro, di ‘chiudere il cerchio’ della riflessione, di sistematizzare e istituzionalizzare le esperienze che si fanno. Sono le tensioni a cui si riferisce anche il Pontefice, motore di processi da avviare rispetto ad uno spazio da occupare. Il riferimento non è alle solo quattro tensioni indicate in Evangelii Gaudium (tempo su spazio, realtà su idea, unità su conflitto e tutto su parte). La creatività fuoriesce da un attrito, uno scontro leale, basato su rapporti di fiducia e rispetto, dove ciò che viene messo in discussione non sono le persone ma le idee. La passione che genera l’attrito emerge da quel sogno condiviso, che accende i cuori ed è in grado di muovere carovane oltre i deserti.

LA RIDONDANZA COME INVESTIMENTO E NON SPRECO

Abbiamo già detto che non è l’efficienza, il rapporto tra costi e benefici, l’obiettivo da perseguire. La ridondanza, che verrebbe altrimenti intesa come uno spreco, all’interno di un modello antifragile si pone in aiuto delle singole fragilità. Una ridondanza organizzativa, dove alcuni gruppi potrebbero perseguire scopi simili e agire autonomamente. Una ridondanza in termini di prassi, quindi il mettere in atto anche azioni simili o ripeterle, alla ricerca di informazioni. Una ridondanza relazionale, in termini motivazionali, valoriali, decisiva per tollerare l’ansia del ‘non concluso’, del ‘non rotondo’, o i fallimenti e gli errori, le inevitabili tensioni. Si tratta di imparare a chiamare investimento quello che potrebbe oggi sembrarci uno spreco. Se Giuseppe non avesse suggerito al Faraone di immagazzinare scorte nei magazzini quando non sembravano necessarie non avrebbe fatto poi la fortuna di quell’impero.

 LANCIATORI DI PALLINE DI ARGILLA

Siamo chiamati ad opporci ai deserti esteriori ed interiori senza adattarci o resistere. Attraversando il deserto con la giusta attrezzatura, quella dell’antifragilità, si può apprendere e riportare vita laddove sembrava non esserci più desiderio, gioia, volontà. Un’attrezzatura leggera, ma utile ed efficace. Sapendo che non è facile lasciare ciò che fino ad ora ci aveva dato sicurezza. Ma il deserto può presentarci delle sorprese inaspettate se sappiamo attraversarlo, come una roccia da cui scaturisce improvvisamente dell’acqua o della manna che scende gratuitamente a dare nuove energie e motivazioni. Sarà quindi un passaggio delicato e critico il passare da essere dei condottieri di una nave che attraversa tempeste e giorni di secca, a umili lanciatori di palline di argilla, dove l’esito non è più sotto il nostro controllo.

Vorremmo accompagnarlo questo passaggio, attraverso alcuni stimoli e contributi. Ma credo che alla luce di queste riflessioni forse alcune espressioni di carattere teologico pastorale possono essere ricomprese in modo diverso: corresponsabilità, sinodalità, ministerialità, annuncio, potere, autorità, gerarchia,…

In una pallina il caos e il cosmo. Forse da qui si possono generare miracoli e senza avere l’ansia o il timore che possano dipendere da noi.