UNA VIA MINORE PER IL CAMBIAMENTO PASTORALE
Una riflessione alla luce di alcune tentazioni pastorali in atto e di alcuni contributi antropologici e letterari per abitare questo tempo.
“Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor, 12,10)
Nell’epoca che ci ha preceduto eravamo abituati a grandi progetti, piani, opere edilizie. Segni tangibili di uno stile pastorale volto a organizzare, pianificare, coordinare una pluralità di presenze cristiane nei nostri territori. Oltre ad assolvere a bisogni sociali ed educativi di cui la fragilità dell’intervento pubblico e associativo del passato non poteva farsi carico.
Eravamo in un epoca in cui il senso del vivere era ben codificato dentro sistemi culturali (tra cui religiosi) che fornivano dalla nascita tutte le risorse simboliche necessarie per dare coerenza interna alla propria direzione di vita. Si parlava, in alcune comunità, di un progetto di vita da consegnare all’età di diciotto anni. Eravamo, come sappiamo, in un’epoca in cui si nasceva cristiani e la fede poteva essere presupposta, mentre ora cristiani si diventa e la fede va proposta (ci ricordava Benedetto XVI).
Nel frattempo leggo le pagine dello scrittore Sebald nella sua opera ‘Austerlitz’, dove descrive l’esistenza di luoghi che ci danno pace e di altri destinati alla rovina:
I luoghi di pace sono proprio quelli collocati al di sotto delle dimensioni dell’architettura domestica – la capanna, l’eremo, le quattro mura del guardiano delle chiuse, la specola di un belvedere, la casetta dei bambini in giardino – mentre di un edificio enorme, come ad esempio del Palazzo di giustizia di Bruxelles, su quello che una volta era il colle della forca, nessuno potrebbe sostenere a mente fredda che è di suo gradimento. Nel migliore dei casi lo si guarda meravigliati, e questa meraviglia è una forma preliminare di terrore, perché naturalmente qualcosa ci dice che gli edifici sovradimensionati gettano già in anticipo l’ombra della loro distruzione e, sin dall’inizio, sono concepiti in vista della loro futura esistenza di rovine.
Alzo lo sguardo dalle pagine di Sebald e penso alle tentazioni del presente. L’intento di voler progettare dei nuovi catechismi nazionali per l’iniziazione, nuovi progetti di oratorio ben pianificati e professionalmente gestiti a prova del tempo (e della vita), eventi che possano riportare in piazza significativi numeri di cartacce e lattine sparse in terra, nuove costruzioni teoriche di comunità ma anche di edifici ecclesiali sostenuti dagli appositi uffici nazionali. Guardo tutto con meraviglia.
Mi risuonano le parole del Vangelo di qualche giorno fa… “quando l’uomo forte, ben armato, guarda l’ingresso della sua casa, ciò che egli possiede è al sicuro, ma quando uno più forte di lui sopraggiunge e lo vince gli toglie tutta l’armatura nella quale confidava e ne divide il bottino”. Forse c’è un’altra via. Forse c’è sempre stata un’altra via, non da inventare quindi ma da recuperare.
L’ATTENZIONE ALLA REALTA’ OLTRE LA COMPRENSIONE
Una via che si preoccupa meno di controllare e comprendere tutto, ma che presta attenzione alla realtà. Attraverso l’attenzione il sapere è tanto prodotto quanto tramandato, ci ricorda l’antropologo inglese Tim Ingold e di lui sono le citazioni che seguiranno. È dall’attenzione che si può giungere non tanto ad un contenuto o un progetto ma a dotare di senso la vita, come tensione alla vita ricercata.
Per avere cura degli altri dobbiamo ammetterli alla nostra presenza in modo che noi possiamo essere presenti per loro. Non è né comprendere né spiegare. Comprendere e spiegare appartengono ad un’altra modalità di attenzione quella del controllo e della verifica: prestiamo attenzione alle persone e alle cose per potercele spiegare e una volta spiegate possono essere rimosse, spuntate. L’attenzione è prendersi cura, è provare compassione, così da rispondere in modo efficace dentro un nuovo livello di consapevolezza personale e comunitaria. Un ascolto senza attenzione, senza questa tensione, rischia di voler rispondere al grido della realtà con le ricette del passato, ampliando il disagio e la frustrazione.
IL DIALOGO RIFLESSIVO
“La conoscenza dentro una via minore avviene per una messa in comune più che per una comprensione”. Non è molto diverso da quanto insegnava Nicolò Cusano con il suo approccio dialogico nella teologia. “Nella comprensione la conoscenza precede l’attenzione. Il mettere in comune invece trascina tutto e tutti fuori dalle proprie posizioni, fuori da ogni punto di osservazione, è un moto sismico che rimescola le cose”. Parole di un antropologo e non tratte dal documento preparatorio del Sinodo, ma… “Ci espone, ci mette in pericolo e così prestiamo attenzione a ciò che ci circonda come mai prima d’ora. È nell’insicurezza e non nella sicurezza della comprensione che ci apriamo realmente gli uni agli altri e al mondo”.
DA UN CORPO ABILE E COMPETENTE AD UN CORPO ANIMATO
La sfida è allora passare da un corpo personale e istituzionale competente e abile, in un corpo animato (potremmo aggiungere ‘dallo Spirito’). “Il corpo animato potrà essere in pericolo, vulnerabilmente esposto ma almeno è vivo nel mondo. Mentre il corpo abile e competente dell’agente autosufficiente e volitivo è orientato a lavorare per la realizzazione delle proprie intenzioni, il corpo animato è sempre nel mezzo dell’agire nel subire, in una vita vivente”.
Per fare questo si possono considerare due tipi di scienza, e non ce ne è una migliore o peggiore, ma una più adatta e una meno adatta ad un certo momento storico.
LA VIA MAGGIORE
Una scienza maggiore dove diamo per scontato che la solidità è primaria e la fluidità derivata. Che l’identità e la costanza precedono la differenza e la variazione. Che il movimento è lo spostamento rettilineo di un corpo da un punto ad un altro. Che la complessità può essere scomposta attraverso il computo quantitativo dei suoi elementi.
LA SCIENZA MINORE
La scienza minore che è soggiacente alla maggiore che senza la minore non potrebbe esistere, è l’opposto: comincia dalla fluidità e nelle cose che vediamo fisse scorge dentro l’involucro un movimento perpetuo. Dà la precedenza alla variazione, all’eterogeneità del divenire rispetto alla costanza, all’omogeneità. Il movimento non è lo spostamento della forma è la sua generazione ma solo nella misura in cui il movimento stesso si muove
Non si procede per la via minore per induzione o per deduzione ma per un cammino di variazione continua, seguendo una strada e venendo portati fuori: per e-duzione. Il cammino non è un teorema ma un problema, non è razionale ma affettivo. I problemi reali più che portare ad una soluzione offrono un’apertura. Richiedono tempo, una sperimentazione paziente, seguendo una strada e vedendo dove porta. Aprire una strada e non provare un’ipotesi preconcetta. È prospettiva piuttosto che retroattiva, è speculativa più che confermativa, improvvisa più che prescrivere. Occorre in chiave attentiva una tolleranza all’attesa, attendere che le cose si rendano presenti con i loro tempi: non le possiamo forzare. La bellezza, il mistero, la grazia non si rilevano ma si rivelano.
La via minore richiede non una volizione ma una decisione che genera un taglio. Una decisione presa durante il taglio e non prima, che altera il corso dell’evento nell’evento. L’abilità allora non consiste nell’imporre una forma esteriore alla materia ma nel trovare la fibra delle cose e rivolgerla verso uno scopo in costante evoluzione. L’atto minore fende l’evento dall’interno. Sempre come scriveva Nicolò Cusano, è quando iniziamo a fare cose nuove che iniziamo ad avere pensieri nuovi.
L’atto maggiore prevede che orchestriamo le cose dall’esterno: per ogni mossa che facciamo abbiamo preso una decisione di nostra volontà e ci disponiamo ad agire grazie ad essa. È il modo in cui di solito spieghiamo le nostre azioni retrospettivamente. Nella realtà le decisioni scaturiscono dall’agire, con l’agente che rimane sempre dentro l’azione non vuol dire che non siamo liberi. Il principio di volizione genera una libertà illusoria mentre la vera libertà si trova nel principio di abitudine.
È nell’eccedenza dell’esperienza rispetto all’azione, nell’inclusione del fare in seno al subire – stabilirsi nell’abitudine – che si trova la vera libertà. Non come qualcosa che si ha ma qualcosa che si è. La libertà della volizione è diretta dai fini quella dell’agire minore è puro inizio.
La poesia e il racconto sono atti di debolezza o vie minori, l’annuncio in genere è un atto di debolezza, la carità, la bellezza è un atto di debolezza.
Concludo con una pagina provocatoria del bel romanzo di Gospodinov ‘Fisica della malinconia’:
L’effimero e il Vivo ha più valore dell’Eterno e del Morto. Al contrario del mondo in cui viviamo oggi. Immaginiamo subito le conseguenze che possono derivare da questo assunto. Subito vengono meno molti motivi per guerre e rapine. La tentazione per la rapina è data da ciò che è eterno o perlomeno durevole. Nessuno fa la guerra per un mucchio di mele oppure assedia una città per via del profumo delle visciole in fiore. A nessuno verrà in mente di prendere parte ad una crociata per lui. Le religioni che stanno dietro a ogni crociata o guerra santa, si sentiranno mancare la terra sotto i piedi. Gli déi antichi erano Déi dell’eterno in tutte le sue dimensioni. Ci potrebbe essere un Dio dell’effimero? E se, in una nuova costellazione ci saranno degli Déi, perché no? Saranno proprio di questo tipo – Déi dell’effimero. Déi del debole e del fragile. Relativamente fragili e delicati. Sensibili, capaci di sentire, empatizzanti. Cosa mai potremmo volere di più. La mortalità fa crescere il prezzo e fa aprire gli occhi.