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Fare nuove le cose

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Tempo di lettura: 4 minuti

LA NOVITA’ NELLA CHIESA PER UNA CONVERSIONE PASTORALE

Riportiamo un articolo pubblicato questa settimana nel settimanale della Diocesi di Verona ‘Verona Fedele’. L’autore riflette sul tema della novità nella Chiesa, quale novità siamo oggi chiamati a riconoscere e promuovere per tornare a rendere i vari deserti interiori ed esteriori nuovamente luoghi di vita.

I DESERTI CHIEDONO DI ESSERE ATTRAVERSATI

L’esperienza che la pandemia ci ha fatto vivere, è stata spesso paragonata al tema biblico dell’Esodo, ad un deserto. Nell’Esodo si sperimenta un tempo difficile, che ci chiede di rientrare in noi stessi, di tornare all’essenziale, di vivere maggiormente una dimensione interiore.

Penso sia utile sottolineare che il deserto non è un punto di arrivo ma di ripartenza. Deserti esteriori e interiori ci sono e non sono fatti per essere abitati, per starci, ma per essere attraversati. Il deserto non è un luogo di vita, altrimenti il rischio è di sostare dentro una sofferenza non generativa, ci porterebbe a sviluppare atteggiamenti pastorali aggressivi (dimostrare di esserci ancora, cercare di non perdere posizione) o regressivi (chiusura intimistica e spiritualistica). Il deserto è in funzione di raggiungere un luogo, arrivare ad una terra promessa. Ci si muove perché sappiamo che c’è una promessa, una terra bella e spaziosa.

Ci sono ovviamente tanti deserti nel mondo, nella vita, nelle relazioni, nelle famiglie, e vanno abitati con l’intento di trasformarli di nuovo in un giardino, per seminare vita nuova. Siamo chiamati allora ad un movimento, ad attivare un processo di rinnovamento o conversione pastorale.

CI SI MUOVE PER INSEGUIRE UNA PROMESSA

Abbiamo bisogno di un sogno, di una profezia più che di discussioni sulle norme, su come aggiustare alcuni aspetti organizzativi appena si potrà ripartire, su come poter tornare prima possibile all’ordinarietà. Cos’è del resto l’ordinarietà se non una costruzione artificiale dettata dalle nostre abitudini!?!

Martin Lutero usava questa definizione di ‘profezia’: “già vedo già sento dove arriveranno i miei passi”. Usa i verbi ‘vedere’ e ‘sentire’. Avrebbe potuto dire: io già so, capisco, comprendo. I verbi che invece usa richiamano il riconoscere qualcosa che è già in essere. Riconoscere un suono familiare di passi e l’orma lasciata sul terreno. La profezia non rivela il futuro ma un’azione che lo Spirito opera già oggi. L’azione dello Spirito in mezzo a noi. Occorre riconoscere che l’azione di novità non è la nostra ma dello Spirito, colui che fa nuove tutte le cose.

Riconoscere non è tuttavia un atto semplice. I nostri occhi vedono solo ciò che la nostra mente permette loro di vedere. Ciò che la nostra mente è in grado di accettare o rientra nelle sue aspettative, abitudini. Quindi, aprirsi alla novità dello Spirito è prima di tutto un atto di liberazione. Le aspettative riducono la capacità di analisi e semplificano la realtà. Le aspettative si costruiscono all’interno dei ruoli, le routine, le strategie organizzative, creando quel genere di ordine e di prevedibilità (ordinarietà) su cui ogni organizzazione fa affidamento per la propria attività. Sono utili ma allo stesso tempo, soprattutto in un’epoca segnata dal cambiamento, possono produrre dei punti ciechi che non permettono di riconoscere il nuovo già presente intorno a noi. E questi punti ciechi si ingrandiscono nel momento in cui andiamo alla ricerca delle prove che confermano le nostre aspettative. Routine e programmi sono forme di aspettative organizzative. Quanto la pastorale è condizionata da questi elementi? Quanto allora ricordare che siamo oggi chiamati ad avviare più dei processi che dei progetti pastorali. E non è questione di nominalismi, le due realtà sono profondamente diverse. Del resto i programmi fanno spesso solo il contrario di ciò per cui sono stati pensati, in quanto impongono una visione ristretta di ciò che è intorno a noi, limitano la corresponsabilità effettiva delegando a specialisti le prassi, infine richiedono una ripetizione di schemi che non permette di ripensarsi di fronte all’imprevisto, al nuovo. Una visione superficiale della comunità potrebbe far pensare che complessità e rapidità dei cambiamenti siano gestibili con l’aumento di regole, procedure operative, progetti, formazione specifica e gerarchia. In questi casi in effetti è proprio la gerarchia a prendere il sopravvento, anteponendo l’autorità all’esperienza, accrescendo così la crisi.

Questo è il rischio a cui si va incontro se la nostra preoccupazione è rimettere in moto la macchina e ripartire lasciandosi tutto alle spalle. Forse ci lasceremo non ‘tutto’ ma ‘tutti’ alle spalle e ci ritroveremo non dico soli, ma in una isolata e ristretta compagnia, o se preferite, con un militante piccolo gruppo di followers.

RICONOSCERE E’ ATTO DI LIBERAZIONE

Possiamo accogliere la novità se adottiamo quindi uno sguardo liberato e liberante al tempo stesso. Liberato da paradigmi pastorali non più adeguati, centrati su progetti o modelli ideali distanti dalla realtà. Uno sguardo liberante, in quanto aiuta la persona a scorgere ciò che è più bello, utile, importante, necessario, attraente (EG 35).

Ci sono parole, gesti, simboli che richiedono di essere liberati, altri che non sono più liberanti. Parole che non toccano più i cuori, che arrivano fredde, distanti. Frasi e discorsi impeccabili sul piano teologico e pastorale ma che non risuonano nelle persone e ricordo che ‘catechesi’, dal greco katechein, significa proprio ‘far risuonare’. Quanto le parole che usiamo fanno ‘vedere’ e ‘sentire’? Ci sono luoghi che prima erano funzionali ad un modello di cristianesimo e che oggi non sono più significativi. Se penso all’inaugurazione di un nuovo complesso parrocchiale ritrovo salette per il catechismo/lezione e ampi saloni per le adunanze/docenze, proprie di un modello che forse corrisponde poco alla realtà delle cose. Ci sono narrazioni che vanno ripensate perché non più comprensibili o accettabili.

DALL’ORCHESTRA ALLO STANDARD JAZZ SU CUI IMPROVVISARE

Lo stesso vale per chi guida una comunità che non può essere paragonato ad un direttore di orchestra, perché ricordo che il direttore sceglie lui il copione da suonare, l’impostazione, lo stile; ordina le competenze, sì, ma dentro un suo personale desiderio: il modello dei leader carismatici, di cui non è più tempo. Oggi un leader è più chiamato a gestire un gruppo jazz, che su uno standard condiviso, permette ad ogni singolo di improvvisare. A lui sta architettare lo spazio di questo laboratorio sinodale, sviluppando concretamente un agire corresponsabile e non una mera collaborazione. Ma non è una cosa semplice improvvisare. Si può conoscere a perfezione la tecnica musicale e fare una bella esibizione, ma suonare senza anima. Occorre conoscere l’armonia, ma anche questa non basta studiarla sui manuali. L’improvvisazione era una caratteristica distintiva del jazz delle origini. Che lo sia stato anche della Chiesa delle origini? Abbiamo poi preteso di coordinare tutto, su copioni ben organizzati ma tutti uguali? Con un direttore di orchestra che avesse il pieno controllo su tutto?

Proviamo a lasciare lo spartito nelle mani dello Spirito, cerchiamo di riconoscerne e cantarne anche se in modo balbuziente e incerto la melodia, lo standard su cui ci invita a suonare la novità dell’Evangelo con il ritmo dell’oggi.