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DI EMMAUS ovvero DELL’ESSENZIALE

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Tempo di lettura: 6 minuti

CIO’ CHE SI GUADAGNA IN CHIAREZZA SI PERDE IN LIBERTA’

L’instrumentum Laboris del Sinodo dei Vescovi ‘Per una Chiesa sinodale’ sottolinea come “Paradigmatico è il racconto dell’incontro del Signore risorto con i due discepoli in cammino verso Emmaus. Come mostra bene la loro esperienza, la conversazione nello Spirito costruisce comunione e reca un dinamismo missionario: i due, infatti, fanno ritorno alla comunità che avevano abbandonato per condividere l’annuncio pasquale che il Signore è risorto” (n. 36). Il brano di Emmaus è posto come modello di stile per il cammino della Chiesa nella sua conversione sinodale. Vi proponiamo allora un capitolo tratto dal nostro romanzo pastorale ‘Chiesa Post. Diario dal futiro” (Ed. Tau 2020). Una rilettura fuori dai canoni e creativa di questo brano, per riflettere sul termine ‘essenzialità’.

 

Una cosa forse ci ha insegnato questa pandemia, è l’importanza
e la necessità di tornare all’essenziale! Anche se condivido molte cose che scrivi, non ti sento mai parlare di questo tema. E di
essenziale c’è una cosa sola: Gesù, l’amore di Dio. Sant’Ignazio
scriveva “Dammi solo il tuo amore e la tua grazia, e questo mi basta!”. Oppure Santa Teresa d’Avila: “Solo Dio basta”. Tante cose si sono fermate dall’inizio della quarantena. E tante erano probabilmente non essenziali. Non vorrei che si tornassero a fare grandi teorie di ingegneria pastorale e si perdesse l’occasione di arrivare a toccare ciò che più è importante e salva. Che Dio benedica la tua famiglia, in particolare la relazione con tua moglie. Prego per voi.

InMee @srEnrica, 17 agosto, ore 8.53

 

InMee @Carlo, 17 agosto, ore 18.22

Carissima suor Enrica, grazie per le tue preghiere. Permettimi di dire che questo virus e questa pandemia non ci hanno insegnato un bel nulla. Il Covid-19 non dà lezioni, non si assurge a professore di vita. Eppure ne abbiamo fatto un guru. Siamo noi a poter apprendere qualcosa da questa esperienza. E l’esperienza insegna non in quanto tale, non perché uno l’ha vissuta, ma perché la possiamo narrare, ci pone delle domande, e ci costringe a cercare delle risposte scomode. Saremo allora noi, non il virus, a darci delle lezioni, sempre se avremo il coraggio di sostare un poco sulle domande. Scusa, non voglio fare il professorino.
Non posso negarti, allo stesso tempo, che ho un brivido che mi corre lungo la schiena ogni qual volta sento pronunciare la parola ‘essenziale’. Quello che rende più chiaro, semplifica, riduce tutto a quello che più conta.
Non voglio tirarmela con la menata del Piccolo Principe che l’essenziale è invisibile agli occhi. Anche se si potrebbe discutere su questo. È invisibile perché è ultraterreno? Oppure perché è celato nel fondo del nostro cuore? Forse l’aveva intuito Nicola Cusano, di cui mi sono letto da poco una biografia. Il vero è invisibile perché costituisce una proprietà dell’essere, della realtà. Una proprietà è tanto più vera quanto più scompare. Più sfugge alla vista degli occhi e dell’intelligenza più si approssima al vero. E pur non vedendola la crediamo. E il crederla dipende dal dialogo che si intesse tra le persone, dai loro diversi punti di vista e sensibilità. Provo a ridire questo in modo diverso, meno confusionario.

Penso ai due discepoli di Emmaus. Forse Gesù non l’hanno mai incontrato. Allucinazioni indotte dalla depressione post-traumatica da crocifissione? Semplicemente un rinarrare lungo la strada l’evento che li teneva avvolti in un misto di confusione e delusione. Il discutere animatamente tra loro come se stessero parlando ad un forestiero per spiegargli ancora e ancora quello che avevano visto e vissuto, perché nessuno dei due riusciva a farsene una ragione. Piegando il loro sguardo su quello dell’altro per poi andare oltre, intraprendere il cammino dell’uomo lungo i sentieri più antichi e scoscesi. “Dio si ricordò della sua alleanza con Abramo, Isacco e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti, Dio se ne diede pensiero”. E Gesù, suo Figlio, non è colui di cui ci vevano parlato i profeti? Cleopa avrà ricordato alcuni pronunciamenti del padre Mosé, l’altro avrà richiamato altri passi della Torah dove ci si riferiva al Messia. Avranno compiuto un grande gioco di tessitura. Finché si fece sera. Era tardi e, quando furono oramai presso casa, la distanza delle loro orme sul terreno si ridusse gradualmente fino ad annullarsi. Era il momento di salutarsi,
lasciare per sempre tutto alle spalle, dire “fine”, game over. I loro sguardi si incontrarono e senza parole si comunicarono il bisogno di restare ancora un poco insieme. Perché non potevano lasciar cadere quell’intreccio vitale. Avevano bisogno di trattenerlo tra di loro. Era un bisogno fisico, come per un affamato sostare in una locanda e condividere un pasto. Si sedettero sul muretto di pietra di un campo, lo sguardo perso rivolto al cielo, l’odore dell’ortica che spuntava dal bianco dei massi. Il villaggio stava entrando nella quiete serale. Dalle aperture delle case si iniziavano ad accendere le luci calde delle lampade. Le attività della vita si distendevano come l’ombra che prendeva gradualmente possesso delle cose. Solo il raglio di un‘asina interruppe quel tempo sospeso. Cleopa tirò fuori dalla sua bisaccia un tozzo di pane che aveva portato con sé per il viaggio. Porse il pane al suo compagno che senza accorgersene, in modo automatico, lo prese, lo benedisse e lo spezzò per condividerlo. Il pane spezzandosi fece emergere dietro di sé il volto della luna, che li fissava. Provarono entrambi un brivido. Iniziarono a piangere prima Cleopa poi l’altro che teneva ancora il pane tra le mani tremanti. In quello stesso momento si erano sentiti guardati dall’esterno, avevano sentito sui loro volti lo sguardo di una presenza. In quell’istante percepirono che non erano stati soli tutto quel tempo. Che non c’era abbandono. Non c’era la morte, perché il loro cuore ardeva di nuovo. Lo sguardo aveva preceduto il loro udito, la loro mente, e acceso una passione credente. Si alzarono, non si girarono indietro più, finché non fecero ritorno in fretta a Gerusalemme, dove i loro racconti si intrecciarono con quelli degli altri nel Cenacolo. Fino a dire, noi crediamo.

Cos’è essenziale in tutta questa storia? La morte di Gesù, o i due che discutono? Le incomprensioni e gli improperi urlati al cielo o le facce tristi e a tratti arrabbiate? I brani della Bibbia che citano, il ricordo di quel tale che chiamavano Messia o Maestro o Figlio di Dio o il pasto consumato insieme? Il Gesù tra di loro che li accompagnava per poi rivelarsi gradualmente, il loro ritorno oppure il ritrovarsi con Pietro e gli altri discepoli? Io, l’essenziale, c’è l’ho proprio dritto davanti ai miei occhi. I miei figli Marica e Luca, mia moglie, i miei vicini e quello che di prezioso e insondabile custodiscono dentro di loro. Ma se ciò che è più prezioso è insondabile come la metti con l’essenziale? L’essenziale è insondabile agli occhi. Perché è la vita. Oppure avresti preferito suora che avessi detto Gesù? E dove sta la differenza se lui dimora in me e io in lui?
Se pensiamo all’essenziale come a delle formule chiare, semplici, allora può essere una gabbia che non rende liberi e non procura nessuna gioia. Perché ciò che si guadagna in chiarezza e visibilità si perde in libertà. Come le istituzioni totalitarie che semplificano e ordinano la vita. Lo vediamo con i grandi imperi del digitale che promuovono la piena visibilità e trasparenza informativa. La piena visibilità è totalitaria, scriveva qualcuno. La vita è complessa e ambigua. Basta trascorrere qualche ora in casa mia e ve ne accorgerete.
L’essenziale non genera racconti, narrazioni, comunità di persone. Platone… no scusate Aristotele, nella Politica scrisse che “una città è composta da tipi diversi di uomini; le persone simili non possono dar vita a una città”. Chi semplifica, che sia uno Stato dittatoriale o una multinazionale miliardaria, ti fa sempre la stessa promessa: la vita può essere più semplice, più chiara, più facile e
comoda, basta che tutti voi vi atteniate a quello che vi chiediamo. Tipo, non fare domande, dacci i tuoi dati, lasciati geolocalizzare.

C’è un’altra questione che mi sta a cuore. Il David di Michelangelo è essenziale? I girasoli di Van Gogh sono essenziali? L’infinito di Leopardi è essenziale? La bellezza è essenziale?
Quando ci vogliamo prendere cura di chi ci sta a cuore non c’è essenziale che conta. Anzi, sovrabbondiamo! Quanto è importante respirare? Infatti abbiamo due polmoni, così come abbiamo due reni. Un aereo ha dei motori di riserva. A scuola guida il mio insegnate aveva i doppi pedali dalla sua parte, e se sono qui è anche grazie a quelli! Una nave ha comandi, sistemi di comunicazione e motori doppi, affinché sia governabile anche in caso di incidente.
Si tratta di una cultura antica che mette la cura dell’uomo al primo posto. La ridondanza non è essenzialità. Ma è cura della vita che è essenziale. È il narrare e rinarrarsi tra noi la vita che ci scorre dentro per fermarla e credere, trarne un insegnamento.

Mi sa che questa volta sono stato un po’ pesante nello scrivere. Forse avevo solo il desiderio di narrarmi, di trovare qualcuno con cui parlare. Questa vita di separati in casa mi toglie il respiro. Sulla parete che ho di fronte è appeso un piccolo arazzo colorato. Clara aveva insistito per comprarlo durante il nostro viaggio di nozze in Perù. Casette di terra bianca dai balconi colorati e con tetti rossi fanno spazio ad un piccolo sentiero. Due campesinos di spalle, con i loro cappelli bianchi dalle ampie falde e gli scialli colorati indosso, sembrano avviarsi lungo la stradina bianca. “Abbiamo appena preso il mutuo per l’appartamento. Ci mancano molte cose ancora da comprare. Pensi sia essenziale ora questo oggetto?”. Ricordo come fosse ora il volto di Clara farsi pietra, girarsi dall’altra parte per lasciarmi indietro. M’è costato caro quell’arazzo! Non solo l’ho comprato in fretta senza contrattare sul prezzo… penso soprattutto alla cena presso il ristorante ‘Rafael’ nella Calle San Martin a Lima, quello più stellato della guida.

Dei due campesinos intessuti sull’arazzo uno dei due è accucciato a terra, l’altro invece ha già la gamba tesa in avanti, come per procedere oltre. Sono forse io quello a terra? Preso dalle cose da fare, dall’‘essenziale’, non ho saputo alzare lo sguardo a quello che era ben più prezioso? E ora lo sto perdendo? Lo sa Iddio quanto vorrei alzarmi e passare sotto il cunicolo colorato del separatore,
per riprendere i fili interrotti di una tessitura che per darsi richiede intrecci, incontri che forse troppo ho trascurato. Che anche la Chiesa non sciupi questi intrecci per ridursi al ‘quanto basta’! A meno che non scopra, che è di questa materia, di questo ordito, che è intessuto l’essenziale.