CAMBIAMO PARADIGMA
La recente proposta 2021-2022 per gli oratori ambrosiani intende dedicare un’attenzione specifica a gli adolescenti, segnalando che “l’anno oratoriano 2021-2022 sarà per gli oratori l’Anno straordinario Adolescenti”. La proposta (ed il paradigma che da cui deriva) rischia tuttavia di non funzionare con gli adolescenti, a fronte di una serie di nodi irrisolti, sintomatiche difficoltà della pastorale giovanile oratoriana, combattuta tra bisogno di rafforzare gli aspetti identitari ed urgenti esigenze di cambiamento. Nel precedente articolo abbiamo presentato i primi due nodi. In questa seconda parte consideriamo gli altri.
Ricordiamo i cinque nodi irrisolti:
- Perché elude le domande chiave
- Perché gli adolescenti rimangono oggetto e non soggetto pastorale
- Perché la metafora di ‘oratorio seconda casa’ per un adolescente è debole
- Perché la visione dello ‘sport in oratorio’ è inadeguata
- Perché le proposte formative sono per ruoli e non per gruppo educante
PERCHE’ LA METAFORA DI ‘ORATORIO SECONDA CASA’ PER UN ADOLESCENTE E’ DEBOLE
Sappiamo bene quanto sia importante associare una proposta educativa ad una metafora efficace, dal momento che questa – se ben scelta – consente di esprimere e comunicare al meglio la visione che si intende condividere.
Purtroppo, a nostro avviso, la metafora dell’oratorio come ‘seconda casa’ non sembra una scelta felice per un adolescente che vive spesso la propria casa in modo conflittuale e che fa di tutto per uscirvi, o almeno salvaguardare la sua privacy.
Serve una metafora che non rimandi a regole definite ma dove il rapporto tra formale e informale sia più fluido e le regole possono e devono essere condivise, discusse e cambiate rispetto al variare del contesto. Proporre ad un adolescente l’oratorio come sua ‘seconda casa’ fa correre il rischio di evocare battute del tipo “l’oratorio non è un albergo!” parafrasando quello che i genitori dicono rispetto all’uso elastico che l’adolescente fa della casa.
Quella della ‘seconda casa’ suona metafora stanziale mentre l’adolescenza e definizione nomade.
‘Casa’ richiama stabilità, sicurezza, appartenenza. Ma forse l’adolescente apprezza una accoglienza che lasci spazio alla novità, la provvisorietà, la scoperta. All’adolescente interessa di più ‘andare a casa di Carlo/Anna’ ovvero a casa degli amici, più che disporre di una ‘seconda casa’.
Forse metafore più appropriate potrebbero essere quella dell’oratorio ‘campeggio’ o meglio ancora quella dell’oratorio ‘campo base’ (termini per intendersi tra educatori ma non con gli adolescenti, che rischierebbero di non capirlo): un punto cioè da cui si parte ed a cui si torna mentre si è impegnati nell’affrontare sfide ed esplorare il territorio. Forse l’oratorio va stretto all’adolescente se proposto e giocato in termini di appartenenza, mentre diventa più attrattivo quando sai che da lì puoi andare e venire (senza essere giudicato e contemporaneamente sapendo che non è indifferente che tu ci sia o no …qualcuno si ricorda di te), che puoi stare se vuoi, in cui potrai anche scegliere di stare stabilmente e liberamente perché lì incontri bella gente …
Oppure l’oratorio come un HUB, un centro nevralgico, energetico e vitale, da cui si diramano esperienze, imprese, startup. Un reticolato di vita e di pensieri, che mantiene un centro, uno stile e un cuore ma che si sa decostruire e ricostruire insieme.
Più in generale, si tratta per l’oratorio di andare oltre il paradigma resiliente cogliendo invece la tipica dinamica e sensibilità antifragile dell’adolescente, che non vive solo di crisi superate o da superare ma della capacità di far diventare la fragilità una risorsa: proprio l’antifragilità, nella sua leggerezza e il ‘lasciarsi andare’ è la risorsa /tesoro nascosto che l’oratorio oggi può offrire agli adolescenti.
PERCHE’ LA VISIONE DELLO ‘SPORT IN ORATORIO’ E’ INADEGUATA
La proposta conferma la difficoltà dell’oratorio di scrollarsi un approccio logistico-strumentale dell’attività sportiva. Ad esempio l’organizzazione di eventi sportivi per le parrocchie per aggregare un grand numero di ragazzi, proponendo poi all’interno quei momenti di spiritualità e preghiera a cui altrimenti non avrebbero preso parte.
L’espressione ‘sport in oratorio’ è rivelatrice della tendenza a voler ridurre il rapporto tra sport e oratorio ad una questione ‘topografica’, dando per scontato che – per garantire e meglio controllare le finalità educative – lo sport oratoriano debba essere praticato in oratorio.
Questa visione riduttiva dello sport quale semplice (seppur pregiato) mezzo a supporto del progetto educativo oratoriano, finisce tra l’altro per autoassolvere l’oratorio stesso rispetto al drastico abbandono della pratica sportiva al suo interno: le responsabilità sono scaricate sullo sport, ovvero imputando la (presunta) “naturale e progressiva disaffezione” alla pratica sportiva, da un lato, e il fatto che “la proposta sportiva stessa diventa più esigente sotto un profilo prestazionale” (scheda “sport”, p.2): come dire che lo sport va bene finché si è piccoli ma poi crescendo non piace più; come se lo sport non chiedesse sempre ed a tutti – grandi e piccoli – di ‘dare il meglio di sé’ e sfidare i propri limiti prim’ancora che il proprio avversario; come se lo sport non alimentasse sogni e desideri a tutte le età e condizioni, a partire proprio dall’adolescenza.
Rischiamo di cadere nella schizofrenia di chi da una parte si lamenta che i giovani non sono più disposti al sacrificio e ad assumere impegni seri, e dall’altra che lo sport associativo/agonistico è troppo esigente e selettivo; da una parte si ritiene che il ragazzo/a debba emergere nella sua originalità e debba essere sfidato a tirare fuori il meglio di sé, dall’altra tutti possono fare tutto basta solo pazienza e comprensione.
Una riflessione non neghiamo vada fatta ma sport e gioco non equivalgono, altrimenti si perde la natura stessa dell’esperienza sportiva e la sua valenza non educativa ma antropologico-spirituale.
Due significativi esempi di precomprensioni sbagliate e fuorvianti, in cui è evidente la confusione tra causa ed effetto, che non aiutano certo a ben affrontare il tema.
Questa visione del rapporto tra sport e oratorio è inadeguata.
Soprattutto essa non pare cogliere che alla dis-continuità dell’adolescente rispetto al suo essere stato bambino/ragazzo deve corrispondere una discontinuità nella proposta sportiva che non può semplicemente continuare quella precedente, resa solo un po’ più difficile.
Ad un adolescente che cerca nuove esperienze va offerta una nuova esperienza di sport; ad un adolescente che va oltre i confini per incontrarne di nuovi va offerto uno sport oratoriano capace di andare oltre i perimetri logistici ed i luoghi canonici in cui praticarlo; ad un adolescente che cerca senso e bellezza esplorando e costruendo il proprio corpo vanno proposte pratiche sportive espressive ed estetiche.
Sperimentare leggerezza, armonia ed il lasciarsi andare è ciò che rende ad un adolescente accettabile l’impegno e la fatica prima ancora della ricerca della prestazione. Con gli adolescenti (ma non solo) occorre dunque ribaltare la prospettiva: non lo ‘sport in oratorio’ ma lo stile oratoriano nello sport ovunque si pratichi.
Non è tanto l’oratorio che si rende disponibile (alle sue condizioni) ad accogliere al suo interno lo sport, ma è lo sport che si arricchisce grazie alla sensibilità oratoriana. Questo apre il campo ad una ampia creatività pastorale.
PERCHE’ LE PROPOSTE FORMATIVE SONO PER RUOLI E NON PER GRUPPO EDUCANTE
Un ulteriore elemento di perplessità è dato dalla impostazione del Piano formativo 2020-2023 in cui le proposte per gli operatori pastorali sono impostate e presentate in modo segmentato per ruoli e specializzazione, piuttosto che per gruppo/comunità educante.
Abbiamo così una suddivisione tendenzialmente gerarchico-clericale (o, se suona meglio, sulle diverse ‘ministerialità’): per preti; per religiose/i straniere/i (quelle/i di origine nostrana non sono contemplati…); per educatori retribuiti; per educatori ado.
Inoltre, viene data chiara precedenza ai contenuti (tematiche oratoriane e adolescenziali) rispetto ai processi ed alle competenze relazionali.
Sostanzialmente assenti sono proposte formative rivolte al lavoro in equipe educanti multiministeriali ed al tema della leadership condivisa, quasi che il mandato pastorale o l’essere sacerdoti, religiose/i o educatori retribuiti siano garanzia di buona capacità di guida degli adolescenti.
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Infine, nel complesso l’impressione è quella di una proposta fin troppo religiosamente ‘zelante’, animata da una premura evangelizzatrice poco sapiente.
Permane un approccio deduttivo, dove il dato di fede anticipa l’esperienza e l’attrazione che deriva da sperimentare una bellezza. Con gli adolescenti occorre prestare molta attenzione non solo ai modi ma ai tempi: sembra invece che qui lo spazio sia superiore al tempo. Lo spazio del dato, della spiegazione, dell’insegnare prenda il sopravvento su un tempo che è luogo di relazioni e di dialogo, laddove può gemmare la meraviglia e l’incontro autentico.
Passare dal deduttivo al dialogico è a nostro avviso un’attenzione fondamentale con gli adolescenti perché, come dice Papa Francesco: “Un dialogo è molto di più che la comunicazione di una verità. Si realizza per il piacere di parlare e per il bene concreto che si comunica tra coloro che si vogliono bene per mezzo delle parole. È un bene che non consiste in cose, ma nelle stesse persone che scambievolmente si donano nel dialogo. La predicazione puramente moralista o indottrinante, ed anche quella che si trasforma in una lezione di esegesi, riducono questa comunicazione tra i cuori” (EG 142).
Il rischio è che in tal modo, si metta l’adesione etico-intellettuale alla fede prima delle esperienze di fede, che l’ansia e le paure dell’educatore spingano a rappresentazioni di Gesù e del Vangelo premature rispetto all’immaginario adolescenziale.
Gli adolescenti non hanno bisogno e non chiedono di (ri) trovare quel Gesù che li accompagnati (talvolta tormentati) quando erano ancora nella crisalide della iniziazione cristiana, ma di (ri) scoprire una Persona in grado di volteggiare liberamente con loro, ora che sono divenuti farfalle.
(fine)
Condivido un pensiero che mi sta a cuore a partire dall’analisi fatta. Il punto di partenza per una riflessione sugli ado (ma forse della pastorale tout court) deve realmente partire delle domande. E il vissuto di questi ragazze e ragazzi – fuori dall’oratorio e oltre i cammini di catechesi – che incontro quotidianamente (a dire il vero prima sui social, solo in seconda battuta dal vivo) è principalmente intriso da un desiderio di libertà, che si affianca al loro bisogno di autonomia. Dunque domande pratiche, concrete, esperienziali: un luogo/tempo dove stare (in questa stagione, poi, si moltiplicheranno), una festa da “con-di-vivere”, la condivisione di un progetto (”don, vogliamo proporti una cosa”). Mi accorgo che i sentieri più fecondi per esercitare l’ascolto non sono i nostri, quelli che dalla strada conducono in oratorio ma viceversa. I luoghi dell’incontro e del dialogo con gli ado sono la piazza, i gradini del sagrato, il pronao quando piove (tutti sostano li)… Il ”nodo” che non fa scorrere il pettine a mio parere è quello di non riuscire a dare ”casa” alle loro domande, che se in principio assumono il carattere del ”bisogno”, possono trasformarsi in ”desideri” a condizione che qualcuno non solo le ascolti ma le condivida – con capacità di discernimento educativo – e insieme a loro le trasformi in vissuto. Forse anche la ”struttura” dell’oratorio deve cambiare: non può limitarsi ad accogliere i bambini di catechismo in auguste salette o le riunioni degli adulti (della parrocchia o di condominio che siano) e dei giovani nelle sale più grandi. Magari deve prevedere la possibilità di offrire agli ado qualcosa di più. Una struttura non principalmente fondata sul ”non devi… questo no, non si può fare… in oratorio non si bestemmia (solo in oratorio?)…, se non accetti le regole esci…” bensì sul ”camminiamo insieme… approfondiamo insieme la tua richiesta… cerchiamo il modo migliore per realizzare questo progetto…”. Per non eludere le loro domande bisogna esserci là dove sono loro e non dove siamo noi. Non siamo ancora pronti… la comunità adulta non è ancora pronta… E siamo ancora condizionati dai numeri (non sappiamo cosa fare se sono pochi, sic!). Da ultimo, un breve accenno: in questa prospettiva si devono collocare giovani e/o adulti che si prendano a cuore gli ado e i loro vissuti. E qui si apre un grande capitolo sulla comunità educante oggi. Grazie dell’opportunità.
don Virginio (Rosate – MI)