ESTRATTO DELL’ARTICOLO SCRITTO PER LA RIVISTA PRESBYTERI
Riportiamo la parte iniziale dell’articolo appena uscito e pubblicato nella rivista Presbyteri dal titolo “il difficile ‘puzzle’ degli accorpamenti pastorali”, rispetto alla tendenza in ambito ecclesiale di procedere per accorpamenti: unità pastorali, diocesi in persona episcopi, riunione di province religiose. ABSTRACT: Oltre alcuni luoghi comuni e precomprensioni ecclesiali, come ripensare la tendenza ad unire parrocchie o diocesi? Accorpare non è unire ma dividere, spezzare. Non è far di due uno, ma di uno un molti. Non si tratta di organizzare meglio la presenza della Chiesa, si tratta invece di ripensare la Chiesa: cogliere questa opportunità può oggi aiutarci a dare nuovo senso al nostro agire. Si tratta di un evento pasquale, di morte e risurrezione, che non è realizzabile attraverso un progetto, un decreto o un piano pastorale. Si attiva mediante processi.
Accorpare. Cosa si cela dietro a questo termine, che come tutti gli atti linguistici non è neutro, ma veicola aspettative e proiezioni ideali? Accorpare: raccogliere il molteplice in uno; corpi diversi che vanno a formare un corpo solo, un corpo unico. È un agire funzionale, volto all’efficientamento di un’organizzazione? È serrare le fila, un agire in ritirata? È un espandersi? È ripensare il controllo e la presenza sul territorio o ripensare il senso di un esserci? È ridefinire un centro o entrare in una logica di decentramento? È atto eucaristico, comunionale? Ognuna di queste domande attinge ad un sentire interiore che, in quanto tale, è legittimo ma non necessariamente opportuno. Si tratta, infatti, di presupposti che possono profondamente inficiare qualsiasi possibile rinnovamento ecclesiale. Soprattutto se partiamo dalla consapevolezza di essere portatori di presupposti (ecclesiologici) diversi e non esplicitati agli altri, ma ancora prima a noi stessi. E non da qui si può divenire uno. Affrontare questi temi, in una logica di cambiamento profondo, chiede un’azione fenomenologica: la messa tra parentesi di questi presupposti, motori interni del nostro pensare e agire, per attingere a delle risorse simboliche ben più profonde, non condizionate dalle nostre proiezioni personali, ansie e desiderata. Si tratta di risalire l’abisso – proprio così – di intraprendere un’ascensione verso la profondità. “Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio. A colui che in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare, secondo la potenza che opera in noi, a lui la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni, nei secoli dei secoli! Amen” (Ef 13, 17-21).
CAMBIARE E’ MORIRE PER RISORGERE
In questa prospettiva è chiesto un atto pasquale, di morte e resurrezione. Uno sconvolgimento simbolico, un ribaltamento delle precedenti categorie ermeneutiche. Un accorpamento ecclesiale trova senso nell’oggi, solo se va a generare una novità, una sorpresa, una ri-creazione. Restare su un piano dialettico, infatti, non farà altro che suscitare aggiustamenti reazionari, quando invece la Pasqua è atto ricreativo-rivoluzionario. È un cambiamento che non segue la logica del ‘fare meno ma fare tutti’, del darsi una mano e collaborare di più, del mettere in rete le risorse, del condividere alcune iniziative, del formarci insieme, del facilitare e ottimizzare le procedure burocratiche, dell’allargare il senso di comunità,… Tutte aspettative che appartengono ad un passato che non esiste più: mancata elaborazione di un lutto pastorale che ci va vedere una realtà presente solo nelle nostre idee. Come coloro che operano nella logica del ‘paradiso perduto’ a cui fare ritorno o in quella escatologica-apocalittica di una Gerusalemme da ri-fondare, cioè, verso il passato in rapporto alla perdita dell’origine o al futuro come avvento della fine (Michel de Certeau in Fabula mistica I), prospettive temporali che soggiacciono entrambe alla logica di un ‘voler fare’, ad un volontarismo fuori dal mondo, straniero al presente che abitiamo. Si tratta di proiezioni che si sottraggono alla realtà, e che all’inverso la traggono in gabbia, in funzione consolatoria o rivendicativa.
Nei documenti che istituiscono le unità pastorali (o comunità pastorali) troviamo le seguenti motivazioni: ottimizzare le risorse, fare insieme quello che non riusciamo a fare più da soli, aumentare la collaborazione in alcune azioni pastorali dove siamo più deboli, unificare alcune proposte pastorali laddove altrimenti i numeri sarebbero bassi e i volontari pochi, per meglio affrontare la riduzione della presenza dei sacerdoti sul territorio… Considerazioni legittime, ma pensate a partire da una logica di ‘riduzione di costo’. È tipico trovare nelle unità pastorali due iniziative che solitamente vengono organizzate assieme: affidare ad uno dei parroci presenti in quel territorio il corso rivolto ai fidanzati o la formazione comune dei catechisti. Prassi utili, ma cosa generano di nuovo come assetto ecclesiale? Non generano una nuova appartenenza ecclesiale, ma rinforzano la precedente dentro una logica negoziale, di vita condominiale. Ecco che, l’eventuale consiglio di unità pastorale, diviene una sorta di riunione di condominio dove ogni membro rappresenta gli interessi di una parte, evitando sconfinamenti e accordandosi sugli spazi d’uso comune e non invadenti la propria privacy. L’evidenza si ha quanto si entra in temi economici. Nessuno è disposto a morire per ripensarsi insieme. Se spostiamo la riflessione sulle diocesi, in particolare in relazione alla pratica sempre più diffusa di diocesi unite in persona episcopi il risultato non è molto diverso. Come ripensare la presenza ecclesiale di due chiese locali dentro una nuova prospettiva? Si può facilmente unire il tribunale ecclesiastico, creare un’unica comunità per i candidati al presbiterato (propedeutico), organizzare eventi e proposte formative comuni per i giovani o per le famiglie, … ma quale novità verrebbe così introdotta? Quale ripensamento sulla Chiesa in termini di forme di comunione, partecipazione e missione (richiesta del sinodo universale)? Mettere in atto dei cambiamenti senza far in modo che essi ci possano traghettare verso forme nuove di vita e partecipazione ecclesiale servirebbe a ben poco, se non ad aumentare la frustrazione del ‘chi ce lo ha fatto fare’, ‘ci siamo solo complicati la vita’, ‘ quale beneficio poi?’.
Se invece assumiamo lo sguardo pasquale, non si tratta di gestire meglio ciò che oggi non riusciamo più ad amministrare, o di essere più presenti laddove siamo assenti. Perché ciò che ‘non funziona’ più è la forma della nostra presenza, lo stile del nostro esserci. L’atto pasquale non procede per riduzione di costo ma per aumento di valore, genera un ‘di più’ di vita, una nuova autocomprensione. Quando si uniscono dei corpi per farne uno, non si opera per assimilazione, ma per rigenerazione. Si tratta di sperimentare forme nuove, linguaggi nuovi, che ci costringano a non poter più accedere alle nostre precomprensioni ecclesiali, oramai comprensibili solo dentro ad un limitato perimetro istituzionale.
OLTRE L’ACCORPAMENTO
Usciamo quindi dal termine ‘accorpamento’. Non si tratta di fare ‘uno’, ma di fare ‘molti’. Non si tratta di riprodurre una sfera, cioè di tendere ad una consolatoria e ansiolitica uniformità. Si tratta di realizzare il poliedro (EG 236) che da un uno tende al molti, al molteplice. Così avviene la comunione: prendere l’uno, benedirlo, spezzarlo e distribuirlo. Si tratta di spezzare il corpo unico. Di darne a chi non ha. È un dinamismo non centripeto ma centrifugo, come la conversione missionaria della Chiesa ci chiede: “Andate e fate discepoli tutti i popoli” (Mt 28). Le attuali forme ecclesiali non erano state pensate per questo dinamismo. La parrocchia o la diocesi erano un centro verso il quale convergere, al quale invitare. È nel centro che si decide, pianifica e organizza. È tempo di spezzare questo corpo. Di unirci per disaccorparci, di prendere l’uno per spezzarlo.
I passi per operare questa ricreazione: si tratta di prendere questo uno che ci tiene uniti, ci rende compagni (cum panis); benedirlo, professando una parola di liberazione, per cui un pronunciamento che non è compito ma relazione, non è progetto ma promessa; spezzarlo, per purificarlo dalla tentazione di restare uno, di non scomporsi, dall’autoreferenzialità e dall’autoconservazione; distribuirlo laddove la vita chiede e non in base a progetti pre-definiti.
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